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dell’università italiana e ogni volta la riforma viene presentata come una vera
rivoluzione, creando solo un aumento della burocrazia e della regolamentazione.
La presente tesi di Laurea Specialistica, nasce dalla volontà di
approfondire i cambiamenti in corso e le conseguenze del cambiamento
dell’istituzione italiana, cercando di capire perché si parla tanto di Università
malata e perché un’organizzazione come quella italiana, così non può funzionare.
Questo lavoro si pone l’obiettivo di fare un po’ di chiarezza su quanto la
riforma ha finora prodotto, sui problemi che ha incontrato e sulle prospettive
future. Ovviamente, il tema è molto ampio e quindi si è preso in considerazione
solo alcuni aspetti del cambiamento giudicati più rilevanti.
Si è strutturato la tesi in cinque capitoli: il primo capitolo offre una
panoramica generale e storica dell’evoluzione che ha caratterizzato l’università
italiana a partire dall’Unità ad oggi, con particolare attenzione alle riforme del
decennio scorso. La prima parte del capitolo tratta la politica universitaria,
partendo dalla Legge Casati, fino ad arrivare alla recente riforma Gelmini; la
seconda parte si sofferma sulla Riforma del 3+2 del 1999, delineandone
caratteristiche e obiettivi, per poi analizzare i cambiamenti che ne sono risultati.
Il secondo capitolo cerca di fare il punto su quanto la riforma ha finora
prodotto, analizzando l’impatto che essa ha avuto sul mondo universitario,
riferendosi in particolare alla domanda di formazione, al fenomeno degli
abbandoni, ai tempi di laurea e al rapporto tra laureato e mondo del lavoro.
Il terzo capitolo, in riferimento alle problematiche che caratterizzano la
nostra Università, si sofferma su tre temi: il finanziamento, la ricerca e la
governance. Dopo aver analizzato ognuno di questi nodi problematici, si procede
14
con un’analisi comparativa dei dati con alcuni paesi europei, evidenziando le
differenze e le anomalie che presenta l’istituzione italiana, soprattutto riguardo al
finanziamento e alla ricerca universitaria.
Il quarto capitolo procede con un confronto approfondito con le Università
dei paesi europei con le quali dovremmo confrontarci, rilevando che talune
anomalie imputate al nostro sistema universitario (ad esempio la proliferazione
eccessiva dei corsi di studio, o gli stipendi “eccessivi” dei docenti, o il basso
livello delle tasse universitarie) non sono in realtà tali. Il che significa che non si
tratta di aspetti che costituiscono le presunte anomalie uniche in Europa come da
molte parti si vuol sostenere e si vuol far credere. Oppure che si tratta in effetti di
aspetti problematici ma comuni ad altri paesi, per i quali questi paesi stanno
spesso sperimentando delle soluzioni, a cui dovrebbe più proficuamente rivolgersi
la nostra attenzione.
Il quinto e ultimo capitolo, conclude il lavoro svolto fornendo delle
possibili strategie per promuovere il successo universitario: vengono indicati
possibili tendenze, sviluppi e/o soluzioni per far fronte ai problemi e ai limiti del
processo di cambiamento dell’università italiana.
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I CAPITOLO
L’evoluzione dell’Università: lo scenario negli
ultimi decenni
1. Università: definizioni
Nel Diritto italiano, per anni, è rimasto vivo il dibattito sulla natura
giuridica delle università in bilico tra un orientamento che sosteneva per esse lo
status di “persone giuridiche organi dello Stato” e un altro che le annoverava tra le
“amministrazioni pubbliche non statali”
1
. Ha, infine, prevalso la seconda ipotesi
sostenuta dagli interventi legislativi in favore dell'autonomia degli atenei
2
, che
hanno permesso il passaggio da “ente statale” ad “ente portatore di interessi”
costituzionalmente garantito
3
.
1
Cassese S. (a cura di), “Le Università” in Trattato di Diritto Amministrativo, parte speciale, tomo
secondo, pp. 1349-1416, Giuffrè, Milano, 2003
2
Legge n. 168/1989
3
C.Cost., n. 281/1992 e n. 383/1998
16
Nella Costituzione Italiana il principio dell'autonomia degli atenei si trova
nell'articolo 33, in particolare nell'ultimo comma
4
il quale afferma “il diritto delle
istituzioni di alta cultura, delle accademie e delle università di darsi ordinamenti
autonomi, nei limiti delle leggi dello Stato”.
L’autonomia segna una svolta storica, politica e culturale nella definizione
del rapporto stato-università. Si potrà obiettare che dalla Carta costituzionale in
poi, l’affermazione del principio di autonomia permea, in qualche modo, la
legislazione; ma in effetti, esso comincia a prendere consistenza sul piano
normativo, costituendo quindi uno strumento di autodeterminazione e di
autogoverno delle università, soltanto in questi ultimi dieci anni
5
. Prima di allora,
il significato di autonomia era concepito prevalentemente all’interno della
relazione tra professori, ricercatori e stato; per anni l’autonomia è stata intesa
come l’autodeterminazione dei soggetti nel portare a compimento la ricerca e la
didattica senza ingerenze da parte dell’autorità politica e burocratica statale. E’
questa concezione che vedremo modificarsi ed essere sostituita da un’idea che
postula l’attribuzione del potere di autogoverno agli atenei, condizionata dalla
necessità di riorganizzazione e di ottimizzazione delle risorse pubbliche. Così
l’autonomia, nel suo concretizzarsi, tenderà ad essere associata ad un uso
4
L'Art. 33 Cost. Recita:
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini
e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve
assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello
degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione
di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.
5
Fassari L. “L’autonomia universitaria tra testi e contesti”, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 41
17
responsabile e produttivo dei finanziamenti concessi, dei quali rendere conto ai
portatori di interesse (stakeholders) presenti nella società.
L'autonomia deve essere intesa come uno strumento per accrescere
l'efficienza. La natura di “enti indipendenti” non deve ingannare: l'autonomia
universitaria non ha il carattere di autonomia politica, le università sono
“autonomie funzionali” per il loro carattere che le pone in stretto rapporto con la
collettività (degli studiosi e degli studenti).
La definizione di università come “comunità” di persone si ritrova anche
negli statuti emanati in attuazione della legge 9 maggio 1989 n. 168 “Istituzione
del Ministero dell'Università e delle Ricerca scientifica e tecnologica”
6
.
Sul territorio italiano sono presenti 77 atenei di natura sia pubblica che
privata (università statali, non statali, libere) più i 10 atenei telematici . Le
università non statali operano anch'esse nell'ambito delle norme dell'art. 33 Cost.,
ultimo comma,(“Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il
diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”) e
ad esse sono state estese le norme sull'autonomia normativa introdotte dalla l.
168/89 sopra accennate.
Il dibattito sull'autonomia ha aperto la strada verso la riforma del sistema
universitario. Secondo Vaira
7
, il cardine su cui ruota tutto l'impianto riformista è
costituito dal concetto di autonomia. Se ripercorriamo a ritroso la storia del
6
La l. 168/1989 oltre a proclamare per la prima volta l'autonomia statuaria per gli atenei, istituisce
il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST).
7
Vaira M. “Le radici istituzionali della riforma universitaria”, in Rassegna italiana di Sociologia,
n.4, 2001 p.629
18
sistema universitario nazionale fino all’atto formale che ne segna la nascita (la
legge Casati del 1859), si scopre che l’autonomia universitaria è un tema che
contrassegna il dibattito politico-culturale riformista da oltre un secolo e, cosa
ancora più importante, che nei suoi contenuti fondamentali il suo significato in
relazione all’università e alla riforma è rimasto sostanzialmente immutato. I
contenuti che caratterizzano le proposte di riforma autonomistica dell’università
già all’indomani dell’istituzione del sistema universitario nazionale, si fondano
sulla necessità di aumentare i gradi di libertà dei singoli atenei riguardo i
fondamentali aspetti della vita di queste istituzioni: organizzative,
amministrazione, struttura didattico curriculare e reclutamento del personale
docente. Ciò che nel tempo è cambiato, concerne l’identificazione dei problemi
che l’autonomia permetterebbe di risolvere: fino alla fine degli anni 60, il
problema era quello dell’eccessiva centralizzazione del sistema che lo rendeva
troppo burocratizzato e rigido: a partire dagli anni 70, oltre a questo problema
rappresentato in modo sempre più acuto, si affianca quello dell’efficienza e
dell’efficacia dell’istruzione superiore, della differenziazione strutturale e
didattico culturale, della necessità di un maggior raccordo tra istruzione superiore
e cambiamenti socio economici e della produttività dell’ università
8
.
Dalla seconda metà degli anni ‘80, i sistemi universitari e di istruzione
superiore occidentali e in misura minore l’università italiana, sono di fronte ad un
nuovo scenario che presenta i toni della prescrizione: un cambiamento orientato
all’efficienza dei processi e dei prodotti e traghettato da politiche che appaiono
globalmente simili, anche perché sostenute e legittimate da organismi
8
Vaira M., op. cit. p. 630
19
internazionali quali l’OCDE e la Banca Mondiale. Le politiche sono, infatti,
accomunate dall’obiettivo di razionalizzare e di ridurre le risorse pubbliche
dedicate all’Higher Education. La modalità e la forma del cambiamento auspicato
da tali politiche sono riconducibili al paradigma del New Public Management, in
cui si possono strutturare i valori dell’efficienza e della qualità e su cui orientare
l’azione delle organizzazioni pubbliche.
Il NPM, affermandosi prima nei paesi anglosassoni e, in particolare, in
Gran Bretagna, affonda le sue radici negli anni ‘80 e rappresenta la sintesi sia
della tradizione di business administration radicata negli Stati Uniti, sia delle
varie correnti neoliberali critiche verso l’inefficienza delle amministrazioni
pubbliche e delle nuove raccomandazioni messe a punto, in tale contesto, da
alcune organizzazioni internazionali, tra cui l’Organizzazione per la Cooperazione
e lo Sviluppo Economico, la World Bank, il Fondo Monetario Internazionale.
Il paradigma del New Public Management, si presenta come uno
strumento a sostegno dell’ipotesi che i servizi di tipo pubblico siano organizzati
sulla base di modelli e pratiche gestionali di tipo imprenditoriale. Sulla base del
NPM le università esprimono una progettualità strategico-manageriale fondata
sulla diversificazione delle fonti di finanziamento e sulla riorganizzazione delle
strutture. Le conseguenze dell’adozione del NPM in ambito universitario,
consistono nell’attivazione di un processo di competizione fra i segmenti
dell’offerta formativa, nell’accentuazione dell’autonomia delle singole istituzioni,
nel potenziamento della scelta delle famiglie e nella introduzione di dispositivi di
20
valutazione e di accountability relativi al modo di operare e al rendimento
complessivo degli atenei.
In sostanza, il passaggio del New Public Management negli atenei lascia
tracce consistenti: il livello di autorità è sempre più separato dalla competenza
accademica intesa in senso disciplinare; la funzione di leadership e quella
amministrativa sono più strettamente coordinate; e infine nuove e più strategiche
funzioni vengono affidate agli amministrativi e all’intero apparato strumentale
della valutazione.
2. La politica universitaria: dalla politica dell’accentramento alla
politica dell’autonomia
L’analisi di una politica pubblica, la sua comprensione e spiegazione non
possono non tener conto della ricostruzione storica, dell’analisi dei momenti
salienti attraverso cui un settore di intervento pubblico si viene ad
istituzionalizzare in modo progressivo, creando determinati assetti strutturali e
processuali.
Infatti, tenendo in considerazione il decorso diacronico della politica, si
possono mettere in luce delle regolarità processuali che permettono di non
21
incorrere nella formulazione di teorie eccessivamente legate a dinamiche del
presente.
Qui di seguito, sarà presentata una ricostruzione dell’evoluzione delle
caratteristiche processuali della politica universitaria italiana, mettendo in
evidenza quattro momenti salienti delle fasi legislative. Ciò perché, in un sistema
fortemente accentrato come è stato certamente quello italiano, una ricostruzione
delle decisioni operate a livello centrale di governo consente di inquadrare
l’evoluzione della politica universitaria.
2.1 La politica universitaria nell’Italia liberale
La nascita del sistema universitario nazionale coincide con l’unificazione
dello Stato italiano. Il primo atto costitutivo della politica universitaria si ebbe,
invece, alle soglie della proclamazione del Regno d’Italia, con la promulgazione
della legge 3725 del 13 Novembre 1859, passata alla storia come legge Casati, dal
nome dell'allora ministro della Pubblica Istruzione.
La legge Casati fu approvata con procedura emergenziale affinché si fosse
potuto, in tempi più brevi possibili, porre rimedio alla grande disomogeneità nella
quale versava il sistema universitario nazionale. Tale legge fu estesa poi a tutti gli
Stati che andavano ad unirsi a quello sabaudo nel processo di unificazione
nazionale, restando peraltro in sintonia con i processi intrapresi in tutti gli altri
22
ambiti dell’intervento pubblico. Il sistema universitario nazionale nacque dalla
semplice sommatoria delle istituzioni preesistenti e ciò, inevitabilmente, creò un
insieme disomogeneo di istituzioni con qualità, tradizioni e dimensioni
notevolmente differenziate.
Nel 1861 il nuovo Regno d’Italia vantava venti sedi universitarie, facendo
dell’Italia uno dei paesi europei con il maggior numero di università in rapporto
alla popolazione, soprattutto in considerazione del fatto che il sistema
universitario restò, per molti anni,e non solo in Italia, un sistema di élite. Il
numero elevato di università presenti nel Regno d’Italia era il risultato sia, di
scelte operate nei secoli precedenti all’interno di realtà istituzionali indipendenti,
sia della scelta politica postunitaria di elevare al rango di università anche
istituzioni a carattere evocazione regionali. Quest’ultima opzione implicò, però,
una serie di problemi che provocarono conseguenze per il paese rispettivamente
nel medio e nel lungo periodo.
Nel medio periodo si registrò la problematica dello squilibrio geografico
nella distribuzione delle sedi universitarie, in considerazione del fatto che su 23
università esistenti nel 1870, 17 erano nel Centro-Nord, 3 in Sicilia, 2 in Sardegna
e soltanto una nel Sud peninsulare. Nel lungo periodo, invece, la presenza di
istituzioni universitarie di bassa qualità contribuì a rendere mediocre il livello
dell’istruzione e, soprattutto, a creare un ingente spesa pubblica per lo Stato
9
.
Le questioni della razionalizzazione del sistema e della riduzione del
numero delle università furono affrontate, dopo l’unificazione, con dibattiti che
però non portarono ad alcun provvedimento legislativo. L’estensione della legge
9
Capano G., “La politica universitaria”, il Mulino, Bologna, 1998, p. 77
23
Casati a tutte le università del nuovo Regno d’Italia creò dei processi culturali e
strutturali che hanno caratterizzato in modo continuato l’università italiana almeno
fino agli anni sessanta. Innanzitutto, per poter comprendere a fondo tali processi,
si deve porre l’attenzione sulla preoccupazione della classe dirigente italiana
dell’epoca di conservare la tradizione culturale umanistica, ed è per questo che la
legge in questione regolò in maniera minuziosa l’organizzazione del sistema
universitario
10
.
La dimostrazione della percezione negativa delle facoltà scientifiche è data
dalla differenza del prestigio percepito tra queste e quelle di stampo umanistico;
infatti, Giurisprudenza era considerata la più prestigiosa, seguita, nell’ordine, da
Medicina, Filosofia e Scienze
11
. Inoltre, la legge Casati poneva ingenti limitazioni
circa la libertà accademica: i professori di ruolo potevano essere rimossi dalle loro
attività scientifiche e/o didattiche qualora avessero leso principi morali o religiosi.
La politica universitaria nell’Italia liberale fino al primo dopoguerra, si
caratterizzò per l’assenza di grandi riforme strutturali ma al contempo, per la
presenza di una costante attività regolamentare del Ministero della Pubblica
Istruzione e dell’emanazione da parte del parlamento di leggi minori che sortirono
a lungo periodo degli effetti di omogeneizzazione formale del sistema
universitario italiano.
Tra le tante leggi minori, merita particolare attenzione la legge Rava del
1909 che accentrò la gestione del personale docente, limitando la possibilità di
creare nuovi posti di professore alla esclusiva legislazione dello Stato. La stessa
10
Capano G., “L’università in Italia”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 29
11
La differenziazione era dimostrata dall’ammontare delle tasse studentesche: per giurisprudenza
esse erano le più elevate e scendevano seguendo la scala di graduazione del prestigio.
24
legge diede delega al governo di emanare un Testo Unico (1910) che mettesse
ordine tra i tanti regolamenti ministeriali e tra le tante attività legislative minori
che vennero alla luce nel cinquantennio precedente. Tale Testo Unico venne
considerato di carattere provvisorio poiché vi era la convinzione che si avesse
bisogno di una riforma strutturale. Riforma che non si riuscì ad ottenere neanche
con lo scrupoloso lavoro svolto in un quadriennio dalla Commissione Ceci (1910-
1914)
12
.
Le cause di tale insuccesso vennero attribuite a due fattori principali: la
particolare situazione internazionale contemporanea e il dissenso delle
corporazioni accademiche circa le linee strategiche di azione delle riforme
prospettate dalla commissione. La mancata riforma dell’università italiana è da
attribuire, in primis, alla discordanza di opinioni tra le due posizioni principali
presenti nel mondo universitario: la posizione autonomista da una parte e la
posizione moderata dall’altra. La prima riteneva si dovesse massimizzare
l’autonomia delle università e ampliare la libertà di insegnamento e di
apprendimento. La seconda, invece, non vedeva di buon grado l’autonomia
istituzionale ed era avversa all’introduzione di un esame di Stato per l’accesso alle
professioni.
L’unico tentativo riuscito di rimodellamento strutturale del sistema
d’istruzione superiore italiano in sessanta anni di reiterati tentativi fu la Riforma
Gentile, durante il periodo fascista.
12
Capano G., op. cit., p. 84