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INTRODUZIONE
Ingmar Bergman ha segnato uno spartiacque nella storia del cinema d’arte europeo; oltre ad aver
elaborato un inedito linguaggio cinematografico – di cui i close-up dei volti lo hanno
contraddistinto – egli ha saputo sfruttare le risorse del montaggio e dei dialoghi al fine di elaborare
concetti filosofici. L’opera del maestro svedese ha testimoniato la transizione epocale che in ambito
del pensiero speculativo ha comportato un passaggio dalle filosofie della certezza alle filosofie del
dubbio. La perdita di un Archè fondativo, sancito definitivamente dallo scarto anti-epistemico del
Post-Hegelismo, determinò la messa in campo di una serie di atteggiamenti, da parte degli artisti
del secondo dopoguerra, volti a negare il valore degli Eterni e mostrando lo struggimento e la
dissoluzione dell’individuo umano. I concetti Bergmaniani sono diretta espressione di questa
perdita di senso che ha colpito l’Europa a partire dai primi decenni del ventesimo secolo. Se
Husserl ha parlato di una crisi delle scienze europee, Bergman tratta della crisi delle creature
umane in sé nel momento in cui una possibile morte di un Dio lascia l’uomo solo di fronte a se
stesso e al mondo
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. Questa messa in discussione degli antichi valori del passato ha condotto
Bergman a confrontarsi direttamente con le principali tematiche che hanno visto impegnati sia gli
esistenzialisti francesi che quelli tedeschi a lui contemporanei, sia romanzieri che filosofi del
passato in cui è già possibile ravvisare i prodromi della “crisi”. La morte, la suprema solitudine, è il
tratto distintivo e immediato della crisi.
La morte non è più solo un punto di passaggio verso i Noema
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platonici, accessibili solo dopo il
congedo dal proprio corpo. Essa è anche disfacimento dell’anima; è anzitutto fine autoindotta,
annichilimento dell’essere. Il ritrovamento di tale evidenza – riscoperta di un’intuizione atavica – è
dirompente e incontenibile per l’uomo moderno, costretto a osservare il volto della morte nella sua
più cruda tangibilità. Egli è sempre stato vittima della cecità; all’insaputa di ciò che lo circondava,
l’uomo innalzò lo sguardo al cielo osservando il sole, contrassegno ed emblema del Vero e del
Giusto; dopodiché, all’alba della crisi, una coltre maligna oscurò la realtà delle idee, protettrice
dell’eternità, costringendo l’umanità tutta a considerare nuovamente quello che aveva preferito
ignorare. Non si parla più di una società nella crisi dei valori, bensì dell’individuo, delle sue
angosce e dell’impossibilità a riconoscersi come elemento facente parte di una storia razionale e
coerente. È l’individuo a essere messo sotto analisi dallo psicanalista, sono le nevrosi a definire la
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A. Fusco, Ingmar bergman, proposta di lettura in chiave psicologica, Teseo Editore, Frosinone, “s.d”, p. 6.
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Noema (νόημα) come pensiero di verità o come noùmenon hèn eìnai, qualcosa di pensato come uno, ovverosia le
Idee.
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sua struttura caratteriale e la ragione è solo un’ancella utile al fine di organizzare i propri processi
mentali; Essa è una chimera di natura psicotica che induce gli uomini a credere erroneamente di
aver colto una verità eterna non sottoposta al logorio del tempo.
La Ragione ha sempre avuto un ruolo centrale nel pensiero filosofico, soprattutto a partire
dall’illuminismo tedesco poiché si è confidato che attraverso di essa fosse possibile definire in
maniera certa la struttura ultima della Physis. Nella crisi ciò non è possibile. La realtà (il vero
Noema) non è altro che un groviglio di forze distruttive ingovernabili, istinti che albergano nel
cuore dell’uomo e che lo conducono a commettere il male, compiacendosene. Non c’è nulla da
giustificare in tal senso: il male è un fatto e non un’ipotesi. In questo caso non c’è più un Dio che
possa giustificare le azioni nefaste delle persone; egli, secondo Bergman, si è già ritirato da tempo e
si limita a osservare in lontananza la tragedia di quella «massa dannata» – per usare un’espressione
di Martin Lutero – che «si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo» per poi scomparire nel
nulla. Com’è possibile vivere dal momento che le secolari tradizioni sapienziali sono cadute?
Perché bisogna continuare a vivere? Pare che Bergman in alcuni casi – nei periodi che lo hanno
visto attraversare profondi disagi interiori – voglia giustificare il suicidio, cosa inammissibile per la
filosofia. Solamente gli stoici e Schopenhauer hanno elogiato questo gesto estremo della volontà
umana ma per ragioni differenti. Gli stoici prendono atto dell’ineluttabilità delle cose e del
determinismo intrinseco della natura, di cui sia la morte che il suicidio sono considerati come
elementi del tutto normali. In Schopenhauer il suicidio parrebbe uno dei rimedi per placare la
volontà di vivere. Nonostante ciò, l’apologia del suicidio non ha mai varcato i confini teoretici allo
scopo di concretarsi nella pratica. La crisi comporta tutto questo. L’individuo è per prima cosa
trincerato nella propria solitudine ontologica, come i personaggi Bergmaniani sembrano mostrare.
Antonius Block ingaggia una partita a scacchi con la morte solo per prorogare l’inevitabile. I mezzi
della ragione non gli permettono di cogliere Dio con i sensi. Ciò che egli percepisce è
l’annientamento e la ventata di morte abbattutasi in Terra Santa durante le crociate a cui egli ha
preso parte insieme al suo fedele scudiero Jöns. Block si tormenta per domande che non troveranno
mai una soluzione. Tali quesiti possono essere gli stessi che Kant si pose nel corso della sua ricerca
intellettuale circa la problematica dell’esistenza di Dio, dell’Anima e di come l’uomo possa agire
moralmente. In Bergman ritroviamo le questioni poste dalla filosofia tedesca, sennonché egli ne
rappresenta il contraltare avverso poiché in ogni suo film la speranza e la nostalgia di Dio –
incarnate dai protagonisti – vengono sempre contrapposte al cinismo, al nichilismo e all’assenza di
valori anch’essi espressi dai co-protagonisti. Se Block personifica colui che si pone continuamente
dei dubbi circa Dio e il Nulla, Jöns ne è l’esatta antitesi visto che, come egli stesso si esprime in un
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monologo del film: «la mia pancia è tutto il mio mondo, la mia testa è la mia eternità e le mie mani
due soli meravigliosi, le mie gambe sono i dannati pendoli del tempo e i miei piedi sporchi la mia
filosofia. Tutto quanto ha esattamente il valore di un rutto, l’unica differenza è che il rutto dà più
soddisfazione»
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. Nostalgia di Dio in Block e agnosticismo puro in Jöns. Questo gioco dialettico si
ripropone continuamente nella opere di Bergman già a partire da Det sjunde inseglet. Proprio da ciò
è di vitale importante scagliare una critica feroce ai vecchi ideali filosofici che hanno fornito delle
giustificazioni per far sì che gli esseri umani si astenessero dal togliersi la vita. Bergman in tal
senso condivide l’aforisma di Shakespeare secondo cui solo «il timore di qualche cosa dopo la
morte» trattiene l’uomo dal suicido. L’impegno filosofico assunto da questo grande Autore si è
incarnato in molte opere cinematografiche. Tale sforzo gli è stato riconosciuto non solo dalla
cultura ufficiale – dal progetto Erasmus istituito ad Amsterdam nel 1958 per segnalare «persone o
enti che si siano acquistati meriti eccezionali verso la Cultura mondiale», al Premio Goethe
conferitogli nel 1976 – ma anche da una messe di filosofi che già agli inizi degli anni sessanta
ebbero modo di valutare l’opera di Bergman come l’esempio perfetto e compiuto di un cinema di
pensiero, impegnato a porre domande, a instillare il dubbio nello spettatore. Non che prima di
Bergman non siano esistiti altri registi-autori che avessero scelto le potenzialità del mezzo
cinematografico per esprimere in maniera diretta il proprio pensiero, e non sarebbe nemmeno
opportuno citarli poiché la lista sarebbe pressoché immensa. Tuttavia Bergman ha saputo coniugare
le componenti fondamentali del cinema – montaggio, inquadratura, illuminazione, movimenti di
macchina e dialoghi – al servizio di idee filosofiche estremamente complesse che difficilmente
manterrebbero la stessa potenza se trasposte su carta. Inoltre il suo è un linguaggio universale e,
come tale, è rivolto all’umanità intera. Le posizioni principali dei filosofi che si sono cimentati
nell’interpretazione dell’opera del maestro svedese saranno esposte nella pagine che seguiranno.
Nonostante il tema preminente sia esemplificato dall’esistenzialismo - a cui anche Guido Oldrini si
riconnette nella sua disamina nel testo La solitudine di Ingmar Bergman e a cui molta critica
italiana si è recentemente rifatta - non mancheranno posizioni alternative come quella di Pansley
Livingston, filosofo della letteratura il quale ha indagato la relazione tra Bergman ed Eino Sakari
Kaila, psicologo e filosofo finlandese sconosciuto – o misconosciuto – ai più. Bergman stesso,
nonostante non abbia lasciato molte testimonianze in riferimento ai pensatori che più lo hanno
influenzato, afferma nella prefazione al volume Quattro film che dal punto di vista filosofico ci fu
un testo che ebbe un’enorme influenza su di lui, ossia il Trattato di psicologia della personalità di
Kaila, la cui tesi afferma il primato delle forze istintuali e narcisistiche sui prodotti dell’attività
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I. Bergman, Quattro film [1961], tr. it. di Giacomo Oreglia, Einaudi, Torino, 1976, p. 118.
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intellettuale. L’uomo vive secondo i propri bisogni, negativi e positivi; non è un animale razionale,
non coltiva disinteressatamente la meditazione per il puro piacere di meditare, e non è nemmeno un
ponte tra la bestia e colui che arriverà. L’uomo è Inautentico perché tutto il suo pensiero teoretico,
se non opportunamente diretto, è il frutto di una dissimulazione inconsapevole. Il pensiero del
filosofo finlandese si inserisce perfettamente nell’ideologia irrazionalista novecentesca e la sua
influenza si espanderà a macchia d’olio tra gli intellettuali esponenti della Crisi. Un capitolo
introduttivo sarà dedicato all’interdisciplinarietà della filosofia e di come essa sia in grado di
comunicare con altri ambiti del sapere al fine di illuminarne il senso e la loro profonda
interconnessione. La filosofia può occuparsi – entro determinati limiti a cui bisogna attenersi – di
qualsiasi altra cosa e costruire discorsi e metariflessioni su ogni altro argomento, dal momento che
essa è la culla originaria di ogni sapere umano. Il problema della specializzazione, nonostante possa
portare a una comprensione più particolareggiata dell’essere, rischia di smarrire il senso originario
della conoscenza, giungendo come risultato a una frammentazione in cui non è più possibile
ravvisare un’unità di insieme. Lo smembramento dell’essere in numerose aree non implica
necessariamente una sua maggiore intelligibilità se tale suddivisione non è tenuta insieme da uno
sguardo onnicomprensivo che sappia tessere dei punti di contatto significanti. Tra gli esempi che
saranno argomento di trattazione di questo capitolo introduttivo prenderò in esame gli antecedenti
filosofici della psicanalisi, altra capitale disciplina sorta nel periodo della “crisi” e che avrà un
ruolo determinante nella formazione intellettuale di Ingmar Bergman (così come in molti altri
uomini di cultura), il dialogo tra la filosofia e la letteratura in cui pare che alcune tematiche centrali
siano state anticipate da quest’ultima e infine il rapporto tra cinema e filosofia indagato da Matteo
Veronesi nel suo saggio breve Provocazioni sul neorealismo filosofico. Per concludere seguirà
l’analisi “impressionistica” di un film, e sarà supportata sia dai concetti e dalle posizioni emerse nei
capitoli precedenti, sia dalla sceneggiatura originale pubblicata come libro a parte su iniziativa
della casa editrice Laterza. Ciò darà testimonianza di come Bergman sia riuscito a costruire
concetti filosofici utilizzando gli strumenti da lui prediletti, i suoi instancabili compagni; il teatro, il
palcoscenico, gli attori e i film, i cinematografi e la cinematografia. Amici che lo hanno
accompagnato dall’epoca in cui si costruii il suo primo teatro di burattini «sotto il tavolo dipinto di
bianco nella mia cameretta di bambino» quando poi si trasferì nello spazioso vestibolo sotto l’egida
di un piccolo macchinario di lamiera dotato di lente e bobina. Confidenti dell’immaginario e della
fantasia che lo hanno reso partecipe dei più intensi stati d’animo: passione, piacere, amore. Solo
uno di essi è rimasto inalterato: L’ossessione
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1 Interdisciplinarietà della Filosofia
1.1 La filosofia e le sue forme
Definire e circoscrivere la natura, così come il metodo e i limiti della filosofia, prendendo in esame
le sue metamorfosi, nonché il rispettivo decorso storico e fenomenologico, risulta assai
problematico. Certamente questa operazione presenta il rischio di assumere postulati dipendenti dal
contesto di riferimento, o da altri fattori contingenti e non ulteriormente giustificabili, che possano
fungere da base per definire in maniera inderogabile questo ambito così plastico e cangiante del
sapere umano. Se ci si dovesse arrischiare in una tale impresa non si potrebbe fare altro che
incorrere inevitabilmente in questa aporia e ci si dovrebbe limitare a prendere atto
dell’impossibilità di restituire una caratterizzazione quantomeno esauriente di questo concetto.
Tuttavia ritengo di fondamentale importanza precisare un punto essenziale che possa far luce su
questo problema. Φιλοσοφία, la cui traduzione etimologica restituisce impropriamente la blanda
espressione «amore per la sapienza», una phileîn declinata in senso Platonico come ἔρως
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per la
conoscenza, non è da intendersi esclusivamente come un sistema di saperi autonomo contrapposto
ad altre forme dello scibile umano. La sua prerogativa originaria consistette nell’accogliere al
proprio interno una moltitudine di discipline dissomiglianti le quali, nel corso dell’evoluzione di
quella che si potrebbe definire «complessità epistemologica», hanno progressivamente assunto un
proprio statuto indipendente, sebbene diacronico e dimentico delle sue origini.
Kant stesso nella Critica della ragion pura ha affermato quanto sia stato essenziale per il progresso
del sapere isolare conoscenze, che secondo la loro specie e la loro origine sono diverse dalle altre, e
diligentemente impedire che si mescolino con le altre con cui nell’uso sono ordinariamente
congiunte. Nondimeno, malgrado Il rischio di questa scissione possa comportare un’apparente
incomunicabilità tra i vari ambiti disciplinari in cui si articola la ragione, il filosofo ha l’obiettivo di
mantenere una visione di insieme che possa sussumere il particolare all’universale o al necessario,
ciò che per Kant è il telos della Metafisica
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. Se si dovesse assumere il punto di vista di uno dei
massimi filosofi contemporanei sul tema di cui stiamo discutendo quale Emanuele Severino, si
noterebbe come egli sostenga che gli albori di quella che, a posteriori a partire dai Pitagorici, verrà
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Eros. Sentimento armonizzatore che muove e attira reciprocamente le cose l’una verso l’altra, in un rapporto di
unione e di pari coinvolgimento sentimentale e intellettuale.
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I. Kant, Critica della ragion pura [Kritik der reinen vernunft, 1787] , tr. it. di Giovanni Gentile, Editori Laterza,
Bari, 2005, Prima edizione «Classici della filosofia moderna» 1909/1910, p. 515. «Quello che fanno il chimico
con l’analisi delle materie e il matematico con la sua teoria delle grandezze pure, spetta ancor più al filosofo,
affinché possa determinare sicuramente la parte che uno speciale modo di conoscenza ha nell’uso generico
dell’intelletto, nonché il suo valore ed influsso».
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definita filosofia non sono riassumibili come i primi passi di un incerto preambolo a un più maturo
sviluppo del pensiero, in cui si tenta di abbandonare la concezione mitica del mondo per costruire
un discorso razionale sull’Essere in quanto τ ὸ ἐ όν, ossia ciò che propriamente è a prescindere dalle
sue determinazioni. «La filosofia nasce grande»
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ed essa è la culla originaria dell’intero sviluppo
della civiltà occidentale.
È innanzitutto la base di ogni altro sapere; ben lungi dal definirsi solo come scienza razionale che
studia l’ossatura della realtà - sia nella sua possibilità che nella sua intrinseca necessità - o come
mera analisi concettuale del linguaggio espunta ed epurata da complicazioni teologiche, la filosofia
fornisce la base significante di ogni agire umano; di un agire che si esplica non solo nell’attività
intellettuale, e quindi nella costruzione di sistemi di pensiero volti a categorizzare oggettivamente
l’Essere, ma anche nell’agire pratico, nell’hic et nunc.
Astrazione idealizzante ma anche carnale concretezza. In altri termini, la filosofia non si può
compiutamente precisare e delimitare alla stregua di una qualsiasi branca specialistica, poiché essa
non si lascia ingabbiare in schematismi di comodo. Carlo Sini nel suo Vie dell’errore, vie della
verità
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è del parere che la filosofia non è, per sua natura, né definibile né circoscrivibile. Essa è
pratica vivente che prende corpo nel mondo, fornisce l’alimento e il lievito per l’emersione di
eventi storici decisivi – come il marxismo e le sue premesse filosofiche – e di cui l’astratta “storia
della filosofia” non è altro se non la testimonianza di isole di pensiero sorte da una concomitanza
significativa di episodi, il cui processo sotterraneo risulta tuttavia non colto, inaccessibile. La
complessità posta dinnanzi non esimerà dall’arrischiare a prendere come punto di partenza del
discorso una via che, a giudizio di Severino e Sini, risulti tutt’al più opportuna nell’abbozzare
un’idea di che cosa possa essere la regina di tutte le scienze, ossia la filosofia. Come ebbi già modo
di esprimermi poc’anzi, essa è innanzitutto la culla originaria di ogni sapere, è la peculiare
caratteristica che distingue l’Uomo da altri esseri viventi – la capacità di astrazione,
categorizzazione ed elaborazione di sillogismi – ma è anche secondo Platone un’attività dialettica,
un incessante scambio di opinioni vagliate dalla ragione. Inoltre è pratica armonica e totalizzante
dei saperi, è Madre che accudisce i propri figli – le scienze particolari – e gli impedisce di litigare
tra di loro; Essa è soprattutto stupore di fronte alle cose del mondo, all’interno del quale prendono
parte le entità più disparate e diverse. Se le discipline scientifiche e artistiche si sono originate dalla
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E. Severino, La Filosofia antica e medioevale, Bur Rizzoli, Milano, 2004, p. 19.
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C. Sini, Incontri,vie dell’errore,vie della verità, Jaka Book, Travi, 2013, p. 7. «Non si loderà mai abbastanza
Kant per aver detto, nella «Architettonica della ragion pura», che la filosofia è la « semplice idea di una scienza
possibile, scienza che in concreto non è mai data». La filosofia cioè non è una disciplina o una dottrina (…) Non si
può davvero imparare la filosofia semplicemente perché la filosofia non esiste, non ha luogo alcuno, non si ritrova
da nessuna parte».