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INTRODUZIONE
L’invidia è un’emozione composita e complessa, costitutiva delle relazioni sociali e uno
dei regolatori costanti e sistematici di quelle stesse relazioni.
Riguarda la passione dello sguardo, nell’ambiguo significato dell’attrazione e del patire.
A seconda di come si riesce ad elaborarla, tra psiche e cultura, l’invidia ci spinge a cercare
oltre quello che siamo e abbiamo già, in territori che altrimenti non frequenteremmo,
oppure ci induce alla ricerca del male dell’altro, della distruzione della sua soddisfazione
per noi insopportabile.
Diversamente dalle altre emozioni che intervengono nelle nostre relazioni è situata
paradossalmente in posizione polare: essere invidiati può essere socialmente prestigioso;
essere invidiosi è unanimemente stigmatizzato come disdicevole e deprecabile.
Oltre a rivolgersi verso gli altri l’invidia può riguardare se stessi e nel caso in cui si
afferma la bellezza del proprio progetto diviene evidente la forza generativa dell’invidia
come seme della creazione di sé e dell’inedito sperimentarsi. Spesso succede, infatti, che il
“nuovo” di qualcuno, ciò che un altro crea o inventa di inedito e distintivo, sia per noi
intollerabile.
Nelle relazioni lavorative, a scuola, nella vita di ogni giorno si svolgono i piccoli e
grandi drammi del riconoscimento attraverso l’altro e nell’altro e le propensioni alla sua
negazione. Che scatti, affermandosi, il riconoscimento o prevalga, invece, la propensione
alla negazione, anche distruttiva, dipende da una complessa varietà di dinamiche
relazionali e profonde in cui l’invidia sembra svolgere un ruolo non secondario.
Nell’iconografia classica l’invidia è rappresentata con un sistematico ricorso alle
categorie del brutto e associata al deforme e al deformante. Il complesso intreccio di
sentimenti viene efficacemente rappresentato ritraendo l’invidioso come personaggio dai
tratti eccessivi, caricaturali, solitamente impegnato a osservare da lontano, con sguardo
torvo e malevolo, la legittima soddisfazione di qualcuno.
Il senso comune e le concezioni dominanti dell’invidia la connotano quasi
esclusivamente in senso negativo, operando una tacita trasposizione di quella che è stata ed
è la sua visione di peccato capitale nella tradizione giudaico-cristiana: l’invidia come
disdicevole, come peccaminosa e da evitare.
Quello che l’invidia fa è porci di fronte a un bivio: elaborare la tendenza a sentire
l’invidia e ad uscirne in una direzione creativa e generativa che ci porta “fuori di noi” verso
un’ulteriore possibilità di noi stessi trasformandola di fatto in emulazione, o in una
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direzione implosiva e distruttiva derivante dall’impossibilità di desiderare il desiderio
altrui. Come nota Alberoni
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, l’invidia nasce proprio dalla volontà di occultare una frattura
tra me e l’altro, dall’insopportabilità della differenza. Non solo una differenza d’avere, ma
anche una differenza d’essere. L’invidioso soffre per una carenza d’essere, che viene
evocata (non provocata) dalla presenza dell’altro, dal fatto che l’altro c’è. L’invidioso
tende a divinizzare il valore altrui, ne fa un idolo, venerato ma irraggiungibile. Ma si può e
si deve dire che l’invidioso non vede “veramente” l’altro, non vede veramente il valore
altrui, perché vede sempre se stesso al posto dell’altro. Vuol possedere ciò che l’altro
possiede perché vuol essere ciò che l’altro è.
Alberoni dice giustamente che l’altro cambia “ai nostri occhi”, di fatto, però, è cambiata
soltanto la nostra posizione. L’oggetto d’invidia è solo il mezzo, l’occasione che ci ha
rivelato una differenza per noi insopportabile. Ma tale differenza è percepita come
insopportabile solo da chi non riesce ad ammettere di essere da meno degli altri.
“Inordinata praesumptio alios superandi”
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è la definizione che Tommaso dà della superbia,
che, non a torto, Gregorio Magno considerava la fonte di tutti i vizi capitali. Il superbo è
colui che non riconosce niente di superiore a lui, nemmeno Dio (eritis sicut dei, Gn. 3,4-5)
L’esperienza del fallimento trasforma il superbo in un invidioso: “l’invidia non è che
l’espiazione della superbia.”
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L’invidia, dal punto di vista analitico, nasce dalla frustrazione del non avere. Famose
sono le pagine di Freud sull’invidia del pene da parte della donna dove l’invidia è alla base
della bugia su cui una certa parte della psiche costruisce le sue difese: la donna che non
accetta di essere tale inventa, finge di essere quello che non è dando vita al quadro
nevrotico. Per arrivare ai testi ormai classici di una sua allieva, M. Klein, che in Inghilterra
scrive pagine importanti sull’invidia e la gratitudine.
D’altra parte, se è vero che l’invidia ha radici nel profondo, e lo scavo condotto con gli
strumenti psicanalitici non fa che dimostrarlo, è pur vero che l’invidia si definisce sulla
scena sociale in rapporto a un altro, l’invidiato, e poi al contesto più ampio che è quello
che fissa i criteri di giudizio stabilendo così che cosa è invidiabile e cosa no.
Anche per questo il sentimento invidioso è stato oggetto di studio di diverse discipline.
1
Alberoni F., Gli invidiosi, Garzanti, 1991.
2
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II,II, pp.84,2.
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Natoli S., Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano, 1996.
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PRIMO CAPITOLO
L ’INVIDIA COME OGGETTO DI STUDIO DELLE DIVERSE DISCIPLINE.
1.1 Aspetto teologico
Fu “per l’invidia del diavolo che la morte entrò nel mondo” (Sap. 2,24): invidioso che
creature a lui inferiori godessero del favore di Dio mentre egli era ormai inesorabilmente
decaduto, il diavolo tentò Adamo ed Eva e li indusse al peccato (Gen. 3,1-7). Gli uomini
da oggetto dell’invidia del diavolo ne divennero ben presto fedeli imitatori e la loro invidia
provocò l’emergere di un filo conduttore, elemento di confronto e di sconfitta non tollerata:
l’invidia di Caino nei confronti di Abele, prediletto da Dio, fu la causa del primo omicidio
(Gen. 4,1-16); quella di Esaù verso Giacobbe, favorito nella successione, seminò la
discordia nella famiglia (Gen. 27,1-40); per invidia Giuseppe fu venduto come schiavo dai
suoi fratelli (Gen. 37,25-30) e Davide fu perseguitato da Saul (1 Sam. 18, 6-16); sempre
per invidia la finta madre avrebbe lasciato che Salomone uccidesse il bambino pur di
vedere la vera madre sofferente e privata “dell’oggetto invidiato” (I Re. 3, 24-28); e ancora
per invidia gli ebrei consegnarono Cristo a Pilato (Mt. 27, 11-14).
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L’impossibilità a realizzarsi, mentre altri sì, sprigiona un odio distruttivo che porta
l’invidioso a vivere un profondo senso di frustrazione, a essere, come dice san Pier
Crisologo, “un carnefice di se stesso” e di chi gli è vicino.
Gli effetti nefasti dell’invidia sottolineati dal testo biblico furono ripresi e amplificati:
Cipriano non esitò a definirlo “radice di ogni male, fonte di sventura, vivaio di delitti,
materia delle colpe”,
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Cassiano scrive che l’invidia si presenta come una malattia per la
quale non esiste medicina e che tra i vizi, è certamente il più difficile da curare.
Sarà Gregorio a conferire all’invidia un posto di assoluto rilievo nella sua
classificazione dei vizi capitali collocandola in seconda posizione, subito dopo la regina
superbia, e assegnandole una corte di peccati da essa generati e governati.
La Summa fratris Alexandri
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parla dell’invidia come un atto volontario, quel non voler
vedere (displicentia visionis) che dà nome all’invidia, che è governato dalla facoltà
razionale e in quanto tale è peccato.
Strano peccato questo peccato d’invidia che non procura piacere e gioia, ma solo dolore
e infelicità. Gli altri peccati comportano un qualche piacere, sia pure temporaneo e
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La Bibbia, Elledici Leumann, Torino – United Bible Societies, 2000.
5
Cipriano, De zelo et livore, in Opuscoli, p.78, a cura di S. Colombo, SEI, Torino, 1935.
6
Guglielmo d’Auxerre, Summa fratris Alexandri, t. III, pp. 524, 526.
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illusorio: l’avarizia ha in sé il piacere del possesso, l’ira quello della vendetta, la superbia il
compiacimento di sé, l’accidia la ricreazione del corpo e dell’anima, la gola e la lussuria
poi sanno offrire svariati piaceri della carne.
L’invidia no, è puro dolore, peccato senza piacere. Per l’invidioso “nessuna lusinga di
possibili piaceri, nessuna seppur vaga ombra di letizia, nessuna immagine di felicità”,
“solo un tormento senza refrigerio, una malattia senza medicina, una fatica senza respiro,
una continua pena”.
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Un exemplum
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illustra il furore autodistruttivo dell’invidia: “un re domanda a due
uomini, uno avaro, l’altro invidioso, di chiedergli ciò che vogliono; sappiano però che ciò
che il primo chiederà sarà dato anche al secondo in misura doppia; l’avaro decide di non
rispondere per primo, sperando di vedere raddoppiata la sua parte, l’invidioso si interroga a
lungo e alla fine chiede che gli venga tolto un occhio; in tal modo all’avaro ne verranno
tolti due ed egli potrà così vantare sull’altro una sia pur miseranda superiorità.”
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L’exemplum coglie anche un altro aspetto di questo peccato: l’estensione degli oggetti
cui si rivolge. L’invidia può essere provocata da beni temporali e allora, soprattutto nel
caso della ricchezza, si colora di cupidigia e in parte con essa si confonde, ma anche da
beni spirituali e allora diventa un peccato gravissimo perché si pone contro il volere di Dio
mettendone in discussione i criteri di ripartizione della grazia tra gli uomini.
Insomma, beni terreni, beni corporali, beni spirituali, non c’è bene altrui, piccolo o
grande che sia, che non possa suscitare invidia.
Chaucer dice in The Parsons Tale “L’invidia è senz’altro il peccato peggiore che esista;
tutti gli altri peccati infatti sono rivolti contro una sola virtù, mentre l’invidia è senz’altro
rivolta contro tutte le virtù e contro tutte le bontà.”
A secoli di distanza dagli eventi biblici l’estensione dell’invidia a ogni tipo di bene
goduto dal prossimo, ricchezza, felicità, salute, forza, bellezza, potere, scienza, virtù, resta
una delle caratteristiche più inquietanti di questo vizio.
Solo la miseria non conosce invidia, scrive il Boccaccio (Decameron, IV Giornata)!
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Alano di Lilla, Summa de arte predicatoria, VIII, coll. 128-29.
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Battaglia, S. La coscienza letteraria del Medioevo, Liguori, Napoli, 1965.
9
Giovanni di Salisbury, Policraticus, VII,24, p. 213.