1. Introduzione
Il punto di partenza è semplice, lapidario e quanto mai disarmante:
la traduzione di un’opera letteraria non esiste. O meglio, non ne esiste
una sola, definitiva. Data una determinata opera, infatti, quello che un
traduttore può offrire è, secondo le diverse terminologie,
un’approssimazione, una ricreazione, un’ eco, una decodifica, un riflesso,
un testo che è “quasi la stessa cosa”.
1
La moderna traduttologia ha evidenziato, sin dai suoi inizi, il
carattere plurale della pratica traduttiva e come la sua sia una storia di
dicotomie: Schleiermacher si concentra sull’impostazione straniante
(foreignizing) o addomesticante (domesticating) della traduzione e
analogamente Nida propone la distinzione tra equivalenza formale
(formal equivalence) ed equivalenza dinamica (dynamic equivalence);
Catford distingue tra corrispondenza formale (formal correspondence) ed
equivalenza testuale (textual equivalence), Newmark affronta il problema
della traduzione semantica (semantic translation) e traduzione
comunicativa (comunicative translation) e House si sofferma sulla
traduzione scoperta (overt translation) e quella coperta (covert
translation).
2
Le varie teorie dicotomiche fin qui elencate non fanno che
confermare e supportare la tesi di un’impossibilità di giungere a un ideale
di traduzione universalmente valido. Il loro scopo, analogamente a tutta
1
Cfr Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2003
2
Cfr Massimiliano Morini, La traduzione. Teorie. Strumenti. Pratiche, Sironi Editore, Milano
2007.
Per quanto riguarda la bipartizione offerta da Catford, l’autore evidenzia come questa sia
una rielaborazione dei concetti di traduzione diretta (in caso di corrispondenza tra lingua
di partenza e lingua d’arrivo) e di traduzione obliqua (necessità di apportare modifiche
che sopperiscano e annulino le differenze tra la lingua di partenza e quella d’arrivo)
elaborata nel 1958 da Vinay e Darbelnet (pag 64)
la traduttologia moderna, è quello di offrire al traduttore le nozioni utili
al raggiungimento dell’ obbiettivo finale, ovvero la fedeltà. Il nodo
cruciale a questo punto è: fedeltà verso chi o che cosa? Una buona
traduzione è quella che rimane fedele all’originale e alla cultura d’arrivo?
O è forse quella che protende a una maggior fedeltà verso il destinatario
e la sua cultura? Cosa merita maggior fedeltà, il messaggio o il modo in
cui quest’ultimo viene veicolato?
I fattori che entrano in gioco in una traduzione, in particolar modo
in quella letteraria, sono molteplici, e concorrono tutti a determinare
l’impossibilità di un’unica versione.
Partendo da un quadro più generale per arrivare in seguito a un
discorso più prettamente linguistico, le prime considerazioni possono
essere sviluppate intorno alla creazione dell’opera originale.
L’opera letteraria, di qualsiasi genere sia (romanzo, saggio, novella,
poesia), è l’espressione del mondo, del tempo e della cultura dell’autore.
La pratica traduttiva deve tenere conto di questo aspetto e trasporlo
quanto più possibile nella cultura ricevente; in questo modo il suo valore
passa ad essere da mera decodifica linguistica a mezzo di scambio di
valori culturali tra autore e lettore: “il prototesto è caratterizzato
dall’appartenenza a una cultura. Di contro, il metatesto è il risultato del
raffronto di due codici culturali. Nel processo traduttivo questo fatto è
presente sotto forma di traduzionalità. Per i riceventi della traduzione, si
tratta di individuare nel metatesto (in modo cosciente o no) la tensione
tra cultura propria e altrui.”
3
3
Anton Popovi č, La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione
traduttiva, Editore Ulrico Hoepli, Milano 2006, pag 20
Specifichiamo che nell’accezione popoviciana il termine protesto indica il testo originale,
mentre il metatesto indica il testo tradotto.
La traduzionalità, invece, viene definita dall’autore come “relazione comunicativa nella
catena di comunicazione tra l’autore del protesto e il ricevente del metatesto; a seconda
del grado di traduzionalità di un testo, il lettore si rende più o meno facilmente conto che
Il traduttore è chiamato, perciò, a confrontarsi con questo aspetto e
il suo compito è quello di riconoscere l’implicito culturale contenuto nel
testo e di mediarlo con la cultura ricevente: “(…) ciò che è implicito in un
contesto culturale – osserva Osimo - non sempre coincide con ciò che è
considerato implicito in un altro contesto culturale. Il traduttore ha
sempre bisogno di tenere conto di questo aspetto. Il suo compito consiste
nella mediazione culturale (di cui quella linguistica è solo uno dei tanti
aspetti) tra la cultura emittente e quella ricevente. È necessario che il
traduttore capisca qual è il contenuto esplicito e quale quello implicito.”
4
Parte integrante e fondamentale della cultura ricevente è senza
dubbio il lettore, verso il quale il traduttore ha obblighi precisi come nel
caso dell’autore. Lungi dall’essere un mero ricevente passivo, il lettore,
con le sue inferenze al momento della lettura, è parte integrante del
processo creativo e a lui il traduttore deve tenere conto al momento di
operare le varie scelte traduttive: “La visione comunicativa ha contribuito
alla scoperta di interessanti correlazioni fra traduttore, lettore e loro
funzione nella comunicazione. L’aspetto comunicativo mette in luce in
che misura il lettore, con le sue idee sulle norme testuali, partecipa alla
realizzazione dell’atto traduttivo, che “dipende” da lui nel testo e nella
comunicazione.”
5
L’intermediario, l’anello di congiunzione fra il testo e il lettore è
necessariamente il traduttore; con il suo bagaglio culturale e la sua etica
si trova a doversi fare carico della delicata operazione di mediazione
culturale. Il suo ruolo si avvicina a quello di uno scrittore, senza però
si tratta di un testo tradotto. La traduzionalità si realizza nel testo come aspettativa del
lettore riflessa dalle opposizioni dialettiche versus metatesto, attualizzazione versus
esotizzazione, storicizzazione versus modernizzazione. La traduzionalità si riflette nello stile
del testo e ha carattere semiotico di modellizzazione.” (pag 174)
4
Bruno Osimo, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Editore Ulrico Hoepli,
Milano 2004, pag 13
5
Anton Popovi č, op. cit., pag 36
arrivare a esserlo veramente. La sua è una creazione secondaria,
subordinata al lavoro dell’autore, ma innovativa e creatrice nel contesto
della lingua d’arrivo. Le sue scelte sono subordinate al tempo, allo spazio,
al lettore, alla contemporaneità della lingua e questo lo porta
inevitabilmente alla formazione di una sorta di poetica personale che ne
rende lo stile di scrittura unico, sebbene legato all’opera originale.
A livello linguistico, il principio cui il traduttore deve fare
riferimento riguarda la distinzione fondamentale fra traduzione e
bilinguismo. Tradurre un testo, infatti, non può e non deve essere ridotto
a una mera decodifica della lingua di partenza a cui far seguire una
codifica nella lingua d’arrivo. L’anisomorfismo linguistico implica
l’impossibilità di trovare equivalenti assoluti e la limitatezza della
sinonimia proposta dai dizionari bilingui.
6
Il traduttore è chiamato a
ragionare su ogni singola parola carpendone, per quanto possibile, la
funzione all’interno del contesto e a rielaborarla nella lingua ricevente
preservandone la funzione originale.
La scelta delle parole, la loro organizzazione in frasi e paragrafi, la
loro separazione tramite la punteggiatura, il loro potere evocativo: la
voce dell’autore è nascosta qui tanto come nel tema ed è il motivo per cui
una semplice sostituzione meccanica, da dizionario, risulta inefficace.
Gli aspetti fin qui elencati dimostrano l’impossibilità di fornire una
sola e valida traduzione di un’opera letteraria. Le varianti sono pressoché
infinite, le sfumature innumerevoli e i traduttori non possono fare altro
che scegliere una strada e percorrerla nel modo più coerente possibile.
6
Con il termine anisomorfismo linguistico si intende “la solo imperfetta comparabilità ed
equivalenza linguistica” (Giovanni Iamartino , “Dal lessicografo al traduttore: un sogno che
si realizza?”, in Félix San Vicente (ed.), Lessicografia bilingue e traduzione. Metodi,
strumenti, approcci attuali, Polimetrica International Scientific Publisher, Milano 2006, pag.
104)
Ricordiamo altresì che al problema della sinonimia e dell’utilizzo dei dizionari bilingui è
dedicata la ricerca della lessicografia moderna (Cfr Félix San Vicente, op. cit)
Ma se le varianti analizzate sinora fanno riferimento agli scogli
della traduzione rispetto al testo di partenza e alla sua cultura, non va
dimenticato il problema che sorge all’interno della cultura ricevente,
ovvero l’invecchiamento.
Popovi č definisce l’invecchiamento come una “modifica delle
convenzioni letterarie nell’àmbito delle quali la traduzione è stata creata
e percepita. Ne è causa la modifica del contesto comunicativo dei
riceventi, le modifiche nell’evoluzione della lingua e dello stile. Causa
della ripetuta realizzazione della traduzione è un’esigenza motivata dal
gusto dei lettori. Ritradurre significa reinterpretare il prototesto e
concretizzare il proprio rapporto con l’autore, lo stile, la poetica, la
corrente culturale.”
7
La traduzione è per lui, quindi, un testo che si realizza all’interno di
un contesto comunicativo caratterizzato da una poetica, una lingua e una
generazione di riceventi ben precise. Il fattore temporale non può che
modificare queste premesse, e il carattere aperto e molteplice dell’opera
tradotta fanno sì che quest’ultima rimanga peculiare di un determinato
tempo, senza possibilità di evoluzione.
L’opera letteraria è unica e irripetibile nello spazio e nel tempo, il
suo valore è universale, mentre la traduzione rimane inevitabilmente una
delle tante possibilità di quell’opera ed è soggetta, perciò, a
invecchiamento e sostituzione.
Il contesto temporale porta il lettore a canonizzare una sola opera
tradotta e da essa “pretende” una sorta di vicinanza, di adesione alla
norma espressiva e all’estetica contemporanea. La generazione successiva
pretenderà lo stesso e la traduzione non potrà che adeguarvisi.
7
Anton Popovi č, op. cit., pag 156
Al di là della componente stilistica e culturale, è la lingua a
determinare ulteriormente il “pensionamento” di una traduzione. La
lingua è un organismo vivente, aperto e mai statico, e per questo
suscettibile di invecchiamento. L’evoluzione linguistica comporta la
caduta in disuso di determinate parole, la modifica di alcune e
l’immissione di altre; per tale motivo la traduzione invecchia e necessita
di rielaborazioni.
Da ultimo va considerata l’ evoluzione della traduttologia.
Liberatasi dai suoi legami con la linguistica, la traduttologia è oggigiorno
una scienza autonoma, in grado di fornire ai traduttori spunti sempre
nuovi di riflessione che li guidano a un lavoro sempre più preciso.
Nel corso degli ultimi anni, la figura stessa del traduttore è andata
sempre più specializzandosi, passando dall’essere un semplice
conoscitore della letteratura a una figura professionale dalla
preparazione multidisciplinare, in grado di poter contare su un valido
apporto teorico a sostegno dell’attività pratica.
***
L’elaborazione di questa tesi intende affrontare proprio il tema
dell’invecchiamento della traduzione da un punto di visto pratico.
Si è deciso di lavorare su alcuni brani tratti dall’opera in prosa del
grande scrittore argentino Jorge Luis Borges. In particolare, sono stati
scelti tre racconti dalla raccolta Historia universal de la infamia (1935) e
tre saggi dall’opera Historia de la eternidad (1936). Di questi sono state
analizzate le prime traduzioni apparse in Italia, risalenti ai primi anni
Sessanta, e le successive ritraduzioni per conto di una nuova casa editrice
verso gli anni Novanta.
La scelta dei brani risponde a una volontà di analizzare diversi
aspetti problematici della traduzione; al di là delle tematiche, infatti,
l’attenzione si è rivolta a quei testi caratterizzati da peculiarità che hanno
prodotto nelle traduzioni risultati differenti, come ad esempio l’utilizzo
delle note, il trattamento dei nomi propri o i rimandi intertestuali.
L’analisi vera e propria è preceduta da una biografia dell’autore e
da una breve trattazione sulla sua poetica; questi preamboli si sono resi
necessari per una migliore comprensione delle opere e delle scelte che
hanno dovuto operare i vari traduttori. La complessità e la peculiarità
della scrittura borgesiana, infatti, richiede una preparazione preliminare
che ne chiarisca, seppur in maniera limitata, lo stile e la portata
innovatrice.
2. Jorge Luis Borges, vita e opere
Ridurre la vita di uno scrittore a una mera serie di date e a una lista
di opere è da sempre un’operazione tanto sterile quanto necessaria; se lo
scrittore in questione, poi, è Borges, la faccenda si complica
ulteriormente. I viaggi, le sue donne, le amicizie di una vita, l’amore
sconfinato per la letteratura, la personalità erudita, le ideologie politiche,
i premi mancati e quelli ricevuti, l’insegnamento, la cecità, … la vita di
Borges è qualcosa di più di una semplice biografia, è il suo romanzo più
bello, l’unico che abbia mai scritto.
8
8
Per le informazioni bibliografiche sull’autore mi sono avvalsa dei seguenti testi:
• Fernando Savater, Borges, Editori Laterza, Bari 2003
• Willis Barnstone, Jorge Luis Borges. Conversazioni americane, Editori Riuniti, Roma
1984
• AA.VV., Jorge Luis Borges. Io, poeta di Buenos Aires. Interviste, Datanews, Roma
2006
Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo vide la luce il 24
agosto 1899, all’840 della calle Tucumán di Buenos Aires. Suo padre,
Jorge Guillermo, era avvocato e si dedicava all’insegnamento della
psicologia in lingua inglese (sua madre, Frances Haslam, era un’ oriunda
dello Staffordshire) presso la Escuela Normal de Lenguas Vivas. Come
eredità, Jorge Guillermo lascerà al figlio l’amore per la poesia e l’Oriente
letterario, per la metafisica e l’idealismo, il culto della lingua inglese e da
ultimo la cecità, malattia congenita d a c u i l a f a m i g l i a B o r g e s v e n i v a
colpita da quattro generazioni.
Leonor Acevedo, la madre, fu indubbiamente una delle figure più
importanti nella vita dello scrittore, colei che dedicò la sua lunga
esistenza (si spense nel 1975, alla veneranda età di 99 anni) ad accudire,
sostenere e supportare il figlio; fu proprio lei, infatti, ad aiutare Borges
quando la sua cecità gli impedì definitivamente di vedere alcunché, se
non una serie indistinta di ombre: da madre si trasformò in segretaria,
divenne gli occhi e le mani del figlio, trascriveva ciò che lui dettava,
rileggeva quanto scritto e arrivava talvolta a consigliarlo nella scrittura:
“Lei lo scrisse, e allora le chiesi di leggermelo. (…) Lei aveva trovato le
parole giuste per me. Il racconto era finito. Io ho aggiunto solo una frase
di chiusura. (…) Lei mi ha fornito la parola chiave per quel racconto, La
intrusa, forse il migliore - o forse l’unico racconto che abbia mai scritto”
9
.
L’amore per la letteratura ereditato dai genitori portò Borges a
comporre le sue prime opere già a sette anni, anche se il suo primo
saggio, La visera fatal, non verrà mai pubblicato; apparve, invece, sul
quotidiano di Buenos Aires “El País” una traduzione di The happy prince
di Oscar Wilde firmata dall’allora decenne Borges, sebbene molte
critiche ne attribuiscano la paternità al padre.
9
Willis Barnstone, op. cit., pag. 110
Nel 1914 il giovane Borges compì il primo di quella che sarà una
lunga lista di viaggi; la cecità del padre, infatti, portò la famiglia ad
abbandonare l’Argentina per recarsi in Europa, più precisamente a
Ginevra, dove a causa della guerra si fermerà per cinque anni. Il
soggiorno svizzero permise a Borges di studiare la lingua tedesca,
instaurare relazioni epistolari con eminenti personalità francesi come
Voltaire, Hugo o Maupassant, e visitare l’Italia.
Il ritorno in Argentina venne fatto precedere da una tappa in terra
spagnola dove Borges ebbe occasione di conoscere scrittori del calibro di
Ramón María del Valle Inclán, Juan Ramón Jiménez, José Ortega y
Gasset e soprattutto Rafael Cansinos-Asséns, per il quale Borges serberà
un’ammirazione peritura al punto di dedicargli una poesia, intitolata per
l’appunto a Rafael Cansinos-Asséns. Del poeta sivigliano ammirava la
personalità di eminente letterato, il barocchismo delle opere e i temi che
sembravano toccare la sua sensibilità nel profondo. Sulla scia di questa
ammirazione, Borges si cimentò con ardore nell’esperienza ultraista
promossa da Cansinos-Asséns, collaborando alla stesura di vari proclami
e interessandosi alle opere di Tristan Tzara. Nel corso della sua vita,
Borges catalogherà il periodo ultraista come uno scherzo, un
divertissement di giovani scrittori, ma è innegabile che fu proprio grazie a
questa parentesi che conobbe la metafora e la assunse come elemento
comune della maggior parte delle sue poesie.
Gli anni Venti videro l’esordio del poeta Borges, quando nel 1923
venne data alle stampe la raccolta di poesie Fervor de Buenos Aires. In
questa prima opera si intravedevano già alcune delle tematiche che
avrebbero accompagnato la produzione di Borges negli anni a venire: la
ricerca metafisica nella quotidianità, l’amore per la città, l’ammirazione
per le gesta passate, gli specchi, l’atteggiamento di fronte alla morte. A
questa prima raccolta seguiranno negli anni successivi Luna de enfrente e
Cuaderno de San Martín.
Per quanto riguarda la produzione in prosa, lo stile di Borges in
questi anni giovanili si accostava per certi versi agli scrittori del Siglo de
Oro, rendendo il suo stile latinizzante. Tra i vari titoli ricordiamo
Inquisiciones, Evaristo Carriego e Discusión.
Gli anni Trenta furono, invece, gli anni delle collaborazioni con
varie riviste, sia di stampo più popolare come “Hogar” che di
impostazione più marcatamente letteraria come “Sur”, rivista fondata da
Victoria Ocampo. Fu in questi anni che emerse un nuovo Borges, con
uno stile caratterizzato dalla brevità e dalla concisione, la cui abilità e
maestria venne definita da Alan Pauls come la capacità di “abbreviare e
circostanziare al tempo stesso”
10
. In quel Borges convivevano la
sofisticazione intellettuale e l’ironia, elementi che lo caratterizzeranno
tutta la vita e gli garantiranno l’amore di un’ eterogenea schiera di lettori.
Frutto della raccolta di alcune collaborazioni occasionali al
supplemento del sabato di un giornale, la “Revista multicolor de los
sábados”, è la pubblicazione nel 1935 di Historia universal de la infamia, la
prima vera raccolta di racconti. Sempre in prosa, ma di carattere più
marcatamente filosofico è la raccolta di saggi del 1936 Historia de la
eternidad.
L’abbandono del barocchismo e l’adesione a una scrittura di genere
fantastico, dotata di maggior classicismo e semplicità strutturale, avvenne
nel 1938 con la pubblicazione di Pierre Menard, autor del Quijote. Questo
cambio di rotta fu dovuto in parte ai cambiamenti che stravolsero la vita
d i B o r g e s i n q u e g l i a n n i , o v v e r o la morte del padre e la sua cecità
diventata ormai definitiva, ma anche a una crescita personale. Durante
10
Citato in Fernando Savater, op. cit., pag. 31
un’intervista del 1981 con Harold Alvarado Tenorio, Borges parlò della
sua evoluzione stilistica in questi termini: “Scrivevo, come tutta la mia
generazione, sotto l’influsso di Leopoldo Lugones che era barocco, ma
ora cerco di essere semplice, cosa molto più facile. Credo che i giovani
scrittori siano barocchi per pudore. Uno scrittore si rende conto che sta
scrivendo una sciocchezza e allora cerca di occultarla con arcaismi,
neologismi, una sintassi complicata. Poi con gli anni uno decide che quel
che scrive, importante o insignificante che sia, vuole dirlo in modo chiaro.
Io aspiro alla chiarezza e alla semplicità. Sono virtù difficili, l’oscurità è
più facile.”
11
Sempre attingendo al mondo del fantastico, e in collaborazione con
il suo grande amico Adolfo Bioy Casares e sua moglie Silvina Ocampo,
nel 1940 Borges diede alle stampe la Antologia de la literatura fantástica.
Tra il 1944 e il 1960 la schiera sempre più numerosa di lettori
appassionati di Borges potè godere delle quattro opere divenute
l’emblema della maturità, del classicismo e della grandezza borgesiana;
nel 1944 venne pubblicato Ficciones, un’ antologia comprendente, tra gli
altri, alcuni racconti apparsi sulla rivista “Sur”. Nel 1949, con la
pubblicazione dell’Aleph, Borges amalgamò magistralmente temi tanto
distanti come l’ironia, il fantastico, la metafisica e la quotidianità. Le
indiscusse doti di Borges come saggista divennero di dominio pubblico
nel 1952 con la raccolta Otras inquisiciones, mentre la raccolta Artefice
del 1960 sancì l’ascesa di Borges nell’Olimpo dei grandi poeti del
Novecento.
Gli ultimi trent’anni della sua vita, paradossalmente, videro il cieco
Borges impegnato in conferenze, seminari e lezioni che lo indussero a
viaggiare come mai prima. Il premio Formentor consegnatogli nel 1961
11
AA.VV., Jorge Luis Borges. Io, poeta di Buenos Aires. Interviste, cit., pag.55
consacrò la sua grandezza in tutto il mondo e lo scrittore venne
acclamato in America settentrionale, Europa, Giappone, ed Egitto. La
borgesmania pervase tutto il mondo, nonostante il carattere spesso
provocatorio dello scrittore e le frequenti accuse di affiliazione ai regimi
di estrema destra (il Nobel non gli venne mai consegnato forse a causa di
una passata visita di Borges in Cile durante la quale accettò un premio
dalle mani di Pinochet).
Una delle opere più rilevanti di questo periodo fu la raccolta di
poesie del 1964, El otro, el mismo, in cui con una metrica sempre più
essenziale affronta il tema dello sdoppiamento. El manuscripto de Brodie
del 1970, invece, vide il ritorno di Borges alla prosa dopo diciassette anni
in cui si era occupato esclusivamente di poesia. Il motivo di tale scelta era
da attribuirsi alla cecità dello scrittore: “(…) Il fatto è che, poiché sono
cieco e sono spesso solo, mi è più facile comporre un abbozzo mentale in
versi che in prosa. Voglio dire, sono solo e mi arriva un verso, poi un
altro. Poi rifinisco questi versi. Li ricordo a memoria a causa delle rime.
Quindi la poesia mi riesce più facile. (…) E poi, naturalmente, il grande
vantaggio della poesia è che quando scrivete in prosa riuscite a vedere
solo una parte di quello che state scrivendo, mentre se scrivete una
poesia vedete tutto.”
12
In seguito alla morte della madre, avvenuta nel 1975, Borges
pubblicò la sua ultima raccolta di poesie, La rosa profunda, e in ambito
prosistico ritornò al tema del fantastico con i racconti contenuti ne El
libro de arena.
Il 14 giugno 1986 Jorge Luis Borges si accomiatò dalla vita. Lascia
in eredità il suo genio rinchiuso nelle sue opere, ma soprattutto il ricordo
di un grande uomo. Al di là del suo essere scrittore, infatti, visse una vita
12
Willis Barnstone, op. cit., pag. 92
di amicizie profonde, a partire da Macedonio Fernández per arrivare fino
a Bioy Casares, con cui condivise anche parte del suo lavoro letterario
13
;
visse le sue ideologie politiche, mai accennate tra l’altro nella sua
letteratura, e ne subì le conseguenze (il suo antiperonismo lo condannò a
perdere il lavoro alla biblioteca municipale e a vedersi declassato a
ispettore di pollame); visse il rapporto con le donne, sua madre su tutte e
poi le due mogli, Elsa Astete e María Kodama; visse il suo carattere
schivo e provocatorio allo stesso tempo.
Nel maggio 1980, ospite al The Dick Cavett Show, gli era stato
chiesto se avesse mai sentito come un inconveniente l’essere così famoso;
nella risposta si condensa tutto Borges: “Mi fa piacere anche se nello
stesso tempo sento che è tutto un enorme sbaglio, e che da un momento
all’altro posso essere scoperto. Prima o poi, verrò scoperto. Comunque,
non so proprio perché sono famoso. Diciamo che sono famoso malgrado
i libri che ho scritto.”
14
3. L’estetica borgesiana
Parlando dell’emozione suscitatagli dalla lettura delle opere di
Borges, Emir Rodríguez Monegal ebbe a dire che a partire da quel
momento per lui “finì la letteratura e iniziò Borges”. Tralasciando una
certa esagerazione dovuta alla grande ammirazione che Monegal nutriva
nei confronti dello scrittore argentino, è indubbio che lo stile di Borges
trascenda i vari generi e le tradizioni letterarie, arrivando a costituirsi
come un mondo a sé stante: “ si potrà mostrare come (…) tutti i ‘generi’
13
Fra le numerose opere nate dalla collaborazione fra Borges e Bioy Casares ricordiamo la
raccolta di ritratti letterari pubblicata nel 1967, intitolata Crónicas de Bustos Domecq
14
Willis Barnstone, op. cit., pagg 51-52
praticati da Borges confluiscano in un tipo tutto nuovo di scrittura, che
precorre le esperienze più recenti e baldanzose, indiscretamente
propagandate dalle varie ‘avanguardie’, e silenziosamente le
ridimensiona e le supera”.
15
3.1 Tra Barocco e Classicismo
Borges dichiarò più volte la sua avversione nei confronti delle
scuole letterarie e della catalogazione delle opere in periodi storici,
dichiarandone la sostanziale inutilità: “Le scuole letterarie sono fatte per
gli storici della letteratura, ossia l’opposto degli uomini di lettere.(…)
Non si studiano le scuole, le date, le relazioni filiali tra uno scrittore e
l’altro. (…) oggi si cerca di apprezzare testi dal punto di vista storico, che
è un po’ falso. (…) Sono stato professore di letteratura inglese per venti
anni e alla fine ho preferito rinunciare alla storia. Ho fatto in modo che i
miei studenti amino la letteratura inglese per se stessa, al di là delle date
e delle scuole”
16
.
Nonostante la decisa posizione dello scrittore argentino, la critica
letteraria non si è risparmiata negli studi sulla sua opera e il suo stile,
arrivando a produrre numerosi saggi sulle sue influenze letterarie e sulla
sua appartenenza a un certo tipo di scuola letteraria piuttosto che a
un’altra. Gli studi critici concordano nell’evidenziare una sostanziale
dicotomia stilistica nell’opera di Borges; da una parte c’è il Borges degli
anni giovanili, caratterizzato da uno stile prettamente barocco, mentre
dall’altra emerge il classicismo della maturità. Senza affermare né negare
questa posizione si potrebbe sostenere che l’opera di Borges sia
essenzialmente barocca nei temi e classica nell’impostazione stilistica.
15
Gérard Genot, Borges, La Nuova Italia, Firenze 1969, pag 7
16
AA.VV., Jorge Luis Borges. Io, poeta di Buenos Aires. Interviste, cit., pagg 103-104