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Introduzione
La nozione di inconscio ottico fu coniata da Walter Benjamin. La critica d'arte
statunitense Rosalind Krauss ne stravolge molti anni dopo il significato
"originale". Ho deciso di seguire l'evoluzione di questo concetto rispettando
l'ordine cronologico della sua apparizione e analizzando, in due parti ben
distinte, il diverso significato che assume tra le pagine dei due autori. Diverso
è anche il campo di applicazione in cui i due autori confinano questo
concetto. Benjamin si concentra sull'immagine fotografica e filmica, mentre la
Krauss sul campo visivo in quanto tale e sull'arte pittorica e scultorea.
Nella prima parte chiarirò come, per Benjamin, solo attraverso gli ausili
tecnici di fotografia e cinema si ha accesso a quella che in Replica a Oscar
A. H. Schmitz del 1927 chiama "una nuova regione della coscienza". In
Piccola storia della fotografia, breve scritto del 1931, sostituirà questa
espressione con il termine "inconscio ottico". L'ingrandimento e il rallentatore
consentono di isolare un frammento di vita di cui non eravamo consapevoli e
studiarlo da un punto di vista laico e con spirito analitico e distaccato.
Benjamin, teorizzando la decadenza dell'aura, ha infatti partecipato a
velocizzare il processo di secolarizzazione del mondo artistico e culturale. Il
concetto di inconscio ottico viene applicato solo alle opere tecnicamente
riproducibili, ormai prive di quella dimensione religiosa, magica, irrazionale di
cui era permeata l'opera d'arte tradizionale. Nel paragrafo 1.1. dimostrerò
l'inconciliabilità delle due esperienze visive, dell'aura e dell'inconscio ottico.
La prima lascia il posto alla seconda in seguito al miglioramento della tecnica
di riproduzione dell'immagine, ma entrambe si possono sperimentare
nell'incredibile eccezione rappresentata dai primi dagherrotipi.
In Piccola storia della fotografia si apprende l'idea forse banale, ma
fondamentale, che tutte le fotografie - e, aggiungo io, tutti i media che si
basano sulla fotografia - ci consegnano un'immagine del mondo che è
diversa da quella che possiamo esperire ad occhio nudo. La capacità della
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macchina fotografica di imprimere sull'emulsione fotosensibile una porzione
di mondo ha portato a una trasformazione del sensorio umano e delle nostre
capacità cognitive. Fissando una sezione di spazio in un istante di tempo,
abbiamo un'inedita percezione dei fenomeni e delle loro relazioni spazio-
temporali. L'immagine fotografica va quindi pensata come un'espansione
protesica della nostra conoscenza percettiva, rivelatrice di microstrutture del
reale sconosciute ad uno sguardo immediato, ovverosia senza la mediazione
dell'obiettivo.
Nel suo lavoro ben più famoso, L'opera d'arte nell'epoca della sua
riproducibilità tecnica, Benjamin riprende alcune delle riflessioni sulla
fotografia, ma se ne serve soprattutto in riferimento al cinema, strumento
privilegiato per sperimentare l'inconscio ottico.
In questo scritto l'esperienza dell'inconscio ottico non ha solo un valore
conoscitivo ma sembra possedere, soprattutto nella prima versione del 1936,
anche un potenziale politico: quello di mobilitare le masse di lavoratori.
L'intuizione di Benjamin, che è anche un auspicio, presuppone a sua volta
l'assunto psicologico per cui la visione di se stessi in foto o al cinema, nei
videogiornali o nei giornali illustrati offrirebbe ai lavoratori la possibilità di una
presa di coscienza della propria classe sociale, primo passo verso una lotta
operaia.
Nel paragrafo 1.2. mi occuperò dell'evidente coloritura politica dello scritto e
più indirettamente della valenza politica che acquista la nozione di inconscio
ottico. Il paragrafo 1.3. sarà dedicato ad una disamina degli aspetti di
carattere psicologico, di cui è intriso il ragionamento di Benjamin, che
andavano a mio avviso esplicitati.
In ogni modo, credo che il concetto di inconscio ottico, in generale, nella sua
declinazione benjaminiana, ci fornisca innanzitutto spunti importanti nel
dibattito sempre attuale sul rapporto tra l'arte e la conoscenza in senso lato,
di noi stessi, degli altri, del mondo. Benjamin, in sostanza, ci dice che
fotografia e cinema non dipingono un mondo già dato, ma rendono un
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mondo visibile e conoscibile per la prima volta; vanno oltre l'apparenza del
dato visibile; ci mostrano l'invisibile, o meglio il non-visto. Il non-visto e
l'inconscio - questo deve essere chiaro - per Benjamin sembrano essere
sinonimi.
Ma c'è dell'altro: fotografia e cinema per Benjamin promuovono anche una
particolare convergenza tra l'arte e la conoscenza scientifica. In un
ingrandimento fotografico ad un fiore così come in una ripresa a rallentatore
del movimento di un muscolo, «è difficile dire cosa sia più affascinante: il suo
valore artistico o la sua applicabilità scientifica»
1
.
Nella seconda parte farò una sorta di recensione del libro L'inconscio ottico
(1993) di Rosalind Krauss, tradotto in italiano solo nel 2008. La Krauss fu
allieva della scuola formalista di Clement Greenberg fino agli anni '60,
quando uccise metaforicamente il suo "padre intellettuale" segnando una
rottura nell'allora più influente corrente critica americana. Nel 1976 fonda la
rivista October, attribuendole un taglio critico alternativo a quello
accademico. David Carrier, nel suo Rosalind Krauss and American
Philosophical Art Criticism non ha alcun dubbio sulla sua posizione attuale
all'interno del mondo dell'arte americana: «Krauss is our greatest
philosophical art critic»
2
. Carrier insiste sull'importanza dell'aggettivo
"philosophical" per evidenziare come la Krauss non sia una critica d'arte
convenzionale, ma un'originale scrittrice e pensatrice asistematica, che
attinge con disinvoltura dal ricco inventario di strumenti concettuali e di
categorie riconducibili alla filosofia cosiddetta continentale (con una
predilezione per lo strutturalismo francese) della quale rielabora e rimescola
alcune tematiche («art critics tend to be bricolours»
3
).
Nel paragrafo 2.1. provvederò a introdurre e a contestualizzare brevemente il
libro e la sua autrice, nel tentativo di sopperire alla mancanza di un adeguato
1
W. Benjamin, "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" (1936), trad. it.
della II ed. (1939) di E. Filippini, in Opere complete di Walter Benjamin, a c. di E. Ganni,
Einaudi, Torino, 2006, p. 323.
2
D. Carrier, Rosalind Krauss and American Philosophical Art Criticism, Praeger, Westport (CN),
USA, 2002, p.120.
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Ivi, p. 7.
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approfondimento critico, almeno in Italia, della sua produzione. E' stata
necessaria un'ulteriore parte integrativa (paragrafo 2.3) per comprendere
quale sia la concezione della visione che ha in mente la Krauss e a quale
corrente filosofica si può ricondurre il suo pensiero.
Nel suo libro L'inconscio ottico la Krauss prende dichiaratamente in prestito il
termine da Benjamin ma lo investe di un significato sostanzialmente diverso.
Mentre Benjamin fa una distinzione tra il visibile e l'invisibile, come se le cose
avessero una parte inconscia che solo la tecnica può rivelare, la Krauss
sostiene che lo stesso campo della visione sia attraversato da molti punti di
eterogeneità e frammentazione proprio come il soggetto della psicoanalisi è
frammentato al suo interno. Il meccanismo della rimozione entra in gioco
anche e soprattutto nella visione, che dovremmo quindi pensare come un
processo di rielaborazione spesso traumatica e non come un atto immediato
di riconoscimento (cognitivo prima che percettivo) di una forma sullo sfondo,
come vorrebbe la psicologia della Gestalt. Il materiale rimosso
dall'osservatore riappare nel campo della visione, ritorna in forme
enigmatiche e cifrate, e trova espressione nell'arte.
Per capire alcune opere dei grandi promotori delle più importanti
avanguardie artistiche del '900, quali Ernst, Duchamp, Picasso, o di
innovatori assoluti come Jackson Pollock e Eva Hesse, la Krauss mette in
discussione la perfezione e la trasparenza dello schema "modernista" della
visione, di tipo gestaltista (si veda il paragrafo 2.2) sovrapponendovi, non
senza una certa forzatura, lo schema L di Jacques Lacan (paragrafo 2.4.).
Nel lavoro di questi artisti è evidente uno sforzo mirato a raffigurare ciò che
la visione immediata e "pura" concepita dal modernismo reprime per potersi
conservare nella sua purezza e cioè la temporalità (non lineare, ma fondata
sul concetto freudiano di retroazione), la ripetitività, l'automatismo, la
corporeità, tutti elementi insiti nell'atto di vedere e di rappresentare per
immagini ciò che si vede. In altre parole, questi artisti forniscono dei mezzi
espressivi all'inconscio ottico, non fanno che esprimere e proiettare in forme
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artistiche il funzionamento stesso del nostro inconscio, tentando di dare
forma a ciò che è informe o con il preciso intento di distruggere la forma.
La concezione modernista del campo visivo sembra tradire l'esigenza di
"sublimare"
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ed elevarsi dalle imperfezioni e impurità di uno sguardo (che è
sempre lo sguardo di un osservatore empirico calato in un contesto naturale)
per arroccarsi nei piani più alti di un'impalcatura metafisica che ha al suo
vertice una facoltà cognitiva disincarnata, «una sorta di assoluto
impersonale, il punto in cui la visione è inscritta nello schema come un
insieme di leggi e come rapporto dell'io trascendentale con queste leggi»
5
.
Così la Krauss ribadisce la sua prospettiva anti-cartesiana dell'esperienza
percettiva (si pensi a come l'intelletto guadagni una posizione di autonomia e
di dominio nella distinzione tra res extensa e res cogitans): «La corteccia
cerebrale non sta al di sopra del corpo in un grado di parentela ideale o di
idealità; al contrario, è parte del corpo, cosicché l'arco riflessivo a cui
appartiene la connette a un intero campo di stimoli tra cui non può
scegliere»
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. Oltre agli stimoli luminosi che gli permettono di vedere gli oggetti
colorati e tridimensionali, il soggetto si costruisce una rappresentazione del
mondo esterno anche grazie ad altri dati sensoriali, dacché è bombardato su
tutti i fronti da segnali esterni (acustici, olfattivi, tattili ecc.) ed interni (la
Krauss fa l'esempio dei colori fisiologici di Goethe, ma ovviamente fa
costante riferimento anche alla "libido", l'investimento energetico che l'Io
dirige sugli oggetti dei suoi impulsi sessuali) dei quali solo alcuni
oltrepassano il livello della coscienza. Molti altri subiscono la rimozione
rimanendo in uno stato di latenza, o perché non abbastanza intensi e
prolungati (come nel caso dei messaggi subliminali di cui faccio un breve
accenno) o perché minacciano l'equilibrio psichico per la loro incompatibilità
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La Krauss parla di «sublimazione modernista». In S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi
(1915-17/1932), trad. it. di M. Tonin Dogana ed E. Sagittario, Bollati Boringhieri, Torino,
1978, p. 315, Freud scrive che la sublimazione «consiste nel fatto che la tendenza sessuale
abbandona la sua meta rivolta al piacere parziale o al piacere riproduttivo e ne accetta
un'altra che è geneticamente connessa a quella lasciata».
5
R. Krauss, L'inconscio ottico, cit., p. 17.
6
Ivi, p. 126.