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Introduzione
Il presente elaborato nasce dal tentativo di esplorare lo sviluppo della
mente del bambino quando è sottoposto a maltrattamenti e violenze da parte
dei propri genitori.
L’interesse di approfondire questo argomento è nato dalla mia
esperienza di tirocinio nel quale mi sono imbattuta in molteplici casi di
maltrattamenti familiari, che spesso mi hanno portato a chiedermi perché
coloro che dovrebbero amare e proteggere i loro figli, sono in realtà le persone
più crudeli.
Questa tesi si pone quindi come obiettivo quello di capire quali sono i
meccanismi che si instaurano tra la relazione genitore-figlio e come queste
contribuiscano a favorire un buon sviluppo mentale, o creino al contrario delle
ripercussioni molto gravi sulla propria personalità.
Gli strumenti e le tecniche utilizzate dagli studiosi, che andrò ad
analizzare in questo elaborato sono molteplici e accompagnate da significativi
esempi.
La prima tecnica esaminata è la Strange Situation, necessaria per
valutare la qualità dell’attaccamento nel bambino tra i 12 ed i 18 mesi,
attraverso l’osservazione diretta del comportamento.
In seguito viene approfondito l’Adult Attachment Interview, che prevede
un colloquio di un ora con il genitore maltrattante, che racconta la sua
infanzia e il rapporto con i propri genitori, per spiegare e confermare che la
violenza è un fenomeno intergenerazionale.
Significativa è la tecnica che prevede l’osservazione del disegno del
bambino, da cui emergono le emozioni, le paure e le angosce, sentimenti che a
parole i bambini non riescono ad esprimere.
Inoltre vengono analizzate le scale di Bayley per valutere lo sviluppo
mentale e i test di Rorschach, nel quale le risposte forniscono le informazioni
sulle condizioni psicologiche e sulla struttura della personalità.
Esaminando singolarmente i tre capitoli, che compongono la tesi,
incontriamo i seguenti aspetti.
Nel primo capitolo viene descritto il concetto di mentalizzazione,
spiegato attraverso pensieri sviluppati da vari autori. Questo permette di
analizzare il termine da molteplici punti di vista, esaminandolo in tutte le sue
sfaccettature.
Il concetto di mentalizzazione viene poi approfondito attraverso lo
studio su come si sviluppa e in che modo viene compromessa.
Diventa quindi importante domandarci che impatto ha sulla mente dei
bambini vittime di trascuratezza, maltrattamenti e abusi sessuali.
La mentalizzazione viene influenzata dalla teoria dell’attaccamento,
tanto da creare un legame tra i due concetti.
I primi studi sul caso sono di Bowlby che spiega come si instaura
l’attaccamento madre-bambino, le varie tipologie di attaccamento che si
creano e come sia importante un attaccamento sicuro per uno sviluppo sano
del bambino.
Autori più recenti, però, come Fonagy e Gergely, sconvolgono un po’
questo legame mettendo a confronto punti di vista differenti, che portano a
riconsiderare l’unione tra attaccamento e mentalizzazione. Punti di forza e
debolezza esposti dagli autori, che inducono a domandarsi se questi due
elementi non debbano essere valutati separatamente.
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Nel secondo capitolo si delineano i concetti di maltrattamento e le varie
forme di violenza. Maltrattamenti consumati all’interno dei nuclei familiari,
dove le conseguenze sono ancora più devastanti a seconda dell’età, della
durata e del tipo di violenze subite, che quasi mai si presentano in modo
isolato.
A questo punto sorge spontaneo analizzare le cause che portano alle
violenze familiari, che oggi non vengono più associate a situazioni disagiate
delle famiglie ma vengono prese in considerazione le caratteristiche personali
dei genitori.
La violenza familiare ha delle sfaccettature talmente complesse, nel
quale il bambino si adatta a tal punto, da rimanere difficile anche per gli
esperti, evidenziare un maltrattamento e attivare un aiuto.
Un adattamento che porta ad attivare tecniche difensive per
proteggersi.
Ma che ripercussioni hanno le tecniche difensive sulla mente del
bambino?
Le risposte si ottengono analizzando due delle tecniche difensive più
comuni che sono: la dissociazione e l’iperattivazione.
La mia attenzione poi si sofferma sull’attaccamento disorganizzato, in
quanto varie tesi sostengono che, sia una forma particolare di attaccamento
che si crea in situazioni di maltrattamenti e violenze.
Nel terzo ed ultimo capitolo, mi concentrerò sulle emozioni, riportando
molteplici casi e studi per osservare come la sfera emotiva venga
compromessa quando i bambini subiscono maltrattamenti.
È interessante come un bambino impara a comprendere le emozioni ma
stupisce, come questa comprensione viene alterata quando il bambino ha
subito delle violenze.
La regolazione delle emozioni, si impara sin dai primi momenti di
attaccamento, che si instaurano con il caregiver, attraverso un buon
rispecchiamento. Solo così i bambini sono in grado di comprendere le proprie
emozioni ma soprattutto di capire anche quelle degli altri.
Una parte viene dedicata al Disturbo Borderline di Personalità, in
quanto vari studi dimostrano che, una delle cause dell’insorgenza di questo
disturbo sia proprio il maltrattamento subito all’infanzia.
Il Disturbo Borderline di Personalità viene spiegato attraverso un caso
tratto da Fonagy, per comprenderne meglio le dinamiche mentali al quanto
complesse.
Concludo la mia tesi con i sentimenti devastanti che vivono nei bambini
vittime di violenza, cioè la vergogna e la colpa. Il caso che riporto vuole
spiegare come vengono vissuti dai bambini questi sentimenti, che se non
elaborati, compromettono la loro esistenza in modo molto grave, non
riuscendo a condurre una vita serena, con loro stessi e gli altri.
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CAPITOLO 1
La mentalizzazione: aspetti teorici
1.1 Definizione del costrutto
La parola mentalizzazione deriva dal lessico anglosassone menta-
lization, sostantivo che si collega a Mentalizing cioè mentalizzare,
termini introdotti da Fonagy, Target, Gergely, Bateman, Jurist e Allen.
Tali espressioni provengono dall’aggettivo mental vale a dire mentale.
La teoria della mentalizzazione fu introdotta in psicoanalisi da Peter
Fonagy; essa ci permette di interpretare la mente degli altri e di com-
prendere i nostri stati mentali. Secondo Fonagy la mentalizzazione ha
origine nella relazione di attaccamento.
Bateman e Fonagy (2004) definiscono il termine mentalizzare
come: « il processo mentale mediante il quale una persona interpreta in
modo implicito ed esplicito le azioni proprie e quelle altrui, come signi-
ficative rispetto agli stati mentali intenzionali, ad esempio i desideri
personali, i bisogni, i sentimenti e le motivazioni»(p.21).
Da questa definizione si possono isolare quattro aspetti fonda-
mentali che compongono la capacità di mentalizzazione.
Il primo si può individuare come fenomeno meta-cognitivo, cioè la
capacità di considerare se stessi e gli altri esseri dotati di mente, capa-
cità descritta da Meins et al.(1998) con il termine mind-mindedness. Il
secondo aspetto riguarda il significato che diamo alle nostre azioni e a
quelle degli altri. Attività che può essere sia esplicita, come parlare e
pensare degli stati mentali sia implicita, cioè inconsapevolmente. Un
esempio di come mentalizziamo in modo implicito è quando parliamo
con altre persone perché percepiamo gli stati emotivi o vi reagiamo, an-
che senza esserne consapevoli. In qualche modo rispondiamo autono-
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mamente, aggiustando nell’interazione la postura, il tono di voce e
l’espressione del volto. Se cercassimo di fare tutto ciò in modo esplicito
si diventerebbe rigidi, legnosi e perderemmo la spontaneità (Allen,
2006).
Il terzo punto è la capacità di avere desideri, aspirazioni e proget-
ti, legato quindi all’intenzione.
Infine, il quarto ed ultimo aspetto, è il processo e la capacità della
mente di compiere azioni mentali, abilità che possono esserci o non es-
serci e svilupparsi a livelli minori o maggiori (Allen, 2006).
Il concetto di mentalizzazione apparse nella letteratura psicoana-
litica alla fine degli anni ’60, ma cominciò a modificarsi nei primi anni
’90, quando alcuni studiosi lo utilizzarono come riferimento ai deficit
dell’autismo. Studiare la mentalizzazione infatti è un’esigenza che na-
sce dal bisogno dei clinici di capire i pazienti che si dimostravano diffi-
cili durante la terapia.
Peter Fonagy e altri colleghi invece lo utilizzarono nella psicopato-
logia dello sviluppo, nel contesto delle relazioni di attaccamento che
non hanno esito positivo.
Un anticipatore del concetto di mentalizzazione è Wilfred Bion,
(Allen e Fonagy, 2006), che sosteneva che il pensare sorga come una ri-
sposta ad una assenza. L’assenza viene vissuta dal bambino come de-
vastante e cattiva ed è perciò necessario espellerla, proiettarla fuori dal
mondo interno. Per trasformare i pensieri cattivi in buoni c’e bisogno di
una madre che contenga e che trasformi i sentimenti cosiddetti cattivi,
in qualcosa di più tollerabile. Quando vi è una madre incapace di con-
tenere, il risultato è un’eccessiva identificazione proiettiva che porta a
un deficit della capacità di mentalizzazione. Oltre a Bion possiamo
analizzare altre tre radici concettuali che danno origine alla mentaliz-
zazione: la psicologia cognitiva, la psicoanalisi francofona e infine la
psicologia dello sviluppo influenzata dalla teoria dell’attaccamento
(Holmes, 2006).
La psicologia cognitiva nasce da una nozione filosofica. Essa so-
stiene che per poter operare nelle interazioni umane bisogna avere ben
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chiaro che gli altri hanno delle menti e che esse sono simili ma mai i-
dentiche alla propria. Questa teoria venne utilizzata per spiegare le
difficoltà incontrate dalle persone che soffrono di autismo e per chiarire
le differenze formali ed evolutive che si riscontrano tra il pensiero auti-
stico e quello normale. Proprio a questo proposito è stato rilevato, infat-
ti, che il disturbo autistico deriva dall’incapacità di concepire gli altri
come possessori di menti e perciò in grado di avere punti di vista diver-
si dai loro (Holmes, 2006).
Normalmente i bambini acquisiscono la consapevolezza che la
propria visione può essere diversa dalla loro, all’età di 5 anni, per cui si
deduce che questa teoria non sia innata. A 3 anni infatti il bambino
non ha ancora questa consapevolezza.
La psicoanalisi francofona, invece, ha un adesione maggiore nei
confronti delle prime idee di Freud, rispetto a quella anglosassone.
Nell’affrontare il concetto di mentalizzazione, la teoria parte
dall’idea di Freud che il pensiero emerga dalla possibilità di legare le
energie della pulsione che altrimenti rimarrebbero senza contenimen-
to. In assenza di questo legame l’energia psichica verrebbe scaricata in
processi somatici che emergono clinicamente come una messa in atto o
una somatizzazione. Il bambino nei momenti di angoscia e ansia può
ricorrere ai pensieri, alla memoria, all’immagine di figure di attacca-
mento amorevoli in caso di bisogno.
La psicopatologia dello sviluppo, infine, analizzata da Fonagy e
colleghi, dà al concetto di mentalizzazione un taglio empirico anglosas-
sone. Essi concentrano la loro attenzione sulle relazioni dolorose con se
stessi e con gli altri che sono caratteristiche del Disturbo di Personalità
Borderline.
Tornando quindi alla definizione che viene data alla mentalizza-
zione, è interessante capire come questa abilità della mente ci permet-
ta di avere presenti i propri desideri, sentimenti ed emozioni ma anche
i fini e i sentimenti dell’altro, quando si vuole comprenderne il compor-
tamento. Inoltre ognuno di noi fa delle esperienze come sentire freddo,