6
Capitolo I
“Immortalare” la morte
Per meglio organizzare il lavoro ho scelto di soffermare la mia
attenzione esclusivamente sulle immagini fotografiche che ben si
distinguono dalle altre forme di rappresentazione quali video o pittura.
3
Questa scelta è stata dettata anche dalla necessità di restringere il campo
d’azione altrimenti troppo vasto che avrebbe portato a divagazioni
eccessive.
Il termine “immagine”, paradossalmente ha insito in sé il significato
di morte: l’etimologia della parola imago, in latino, designa, fra le altre
cose, la maschera mortuaria portata durante i funerali nell’antica Roma.
4
Ma
non ho intenzione di iniziare a parlare di antichità romana né tantomeno di
maschere mortuarie. Per questo sarà necessario fare un salto in avanti nel
meno remoto 1839, quando Daguerre si apprestò a perfezionare – se non
stravolgere e rendere propria
5
– la tecnica di impressione della luce su lastre
di rame. A partire da questo momento si ebbe uno sviluppo sistematico del
mezzo fotografico e con esso le modalità di rappresentare la morte – e il
dolore – subirono dei cambiamenti. Se fino ad allora l’unico modo per
perpetuare l’immagine di qualcuno – ricco – era farsi fare un ritratto, adesso
era possibile farsi fotografare. Ci fu una vera e propria riorganizzazione del
mercato in tal senso: gli studi fotografici modificarono il loro assetto
interiore, organizzando zone in cui predisporre “set” appositi per
3
M. Joly, Introduzione all’analisi dell’immagine, Lindau, Torino, 1999. Secondo il senso
comune, l’utilizzo contemporaneo del termine “immagine” rimanda, per la maggior parte
delle volte ed in modo erroneo, al concetto di immagine mediatica, quale sinonimo di
televisione.
4
Imago può essere anche l’anima o lo spettro del defunto.
5
http://www.storiadellafotografia.it/2009/10/23/niepce-e-daguerre/. Le vicende dietro la
nascita della fotografia trovano le loro radici agli inizi dell’800 con una serie di esperimenti
portati avanti da Joseph Nicéphore Niépce, che, nel Dicembre del 1829, stilò un contratto
decennale con Daguerre per una collaborazione di studi sulla fotografia, senza però riuscire
nell’intento a causa della sua morte. Daguerre si prese tutto il merito dell’invenzione visto
che perfezionò le idee di Niépce tanto da renderle proprie. Utilizzò per l’impressione una
lastra di rame con applicato un sottile strato di argento, il quale esposto a dei vapori di iodio
reagiva formando ioduro d'argento. L'esposizione aveva luogo nella camera oscura dove la
luce rendeva lo ioduro d'argento nuovamente argento in proporzione alla luce ricevuta.
L'immagine non risultava visibile fin tanto che veniva esposta ai vapori di mercurio; infine
un bagno in una soluzione di sale comune fissava l'immagine.
7
immortalare – che paradossalmente vuol dire “rendere immortale la
memoria di qualcuno”
6
– i defunti.
Con l’apparizione e lo sviluppo delle tecniche fotografiche, il ritratto
mortuario divenne molto popolare, si potrebbe azzardare “alla moda”. Le
prime foto post mortem rappresentavano essenzialmente il viso del defunto,
senza particolari “stravaganze” nella sua posa o collocazione.
Successivamente si pensò bene di rendere “meno morto” il morto:
prevalentemente in America si sviluppò l’usanza di fotografare il defunto
all’interno del suo contesto domestico abituale.
7
La pratica prevedeva la
vestizione del morto, l’abbellimento del morto e il suo posizionamento
seduto ad un tavolo, sul divano ecc. Come se non bastasse per avere un
miglior risultato nello scatto si truccavano le guance per eliminare il pallore,
si raccomandava alla famiglia di non far chiudere gli occhi al loro caro, e se,
malauguratamente, si chiudevano si poteva dipingerli sulle palpebre. Non
era strano trovare dei veri e propri tableau – poco vivant – in cui il defunto
era addirittura in piedi, sorretto da un’asta nascosta, legata dietro ai vestiti e
posta su un basamento. In Europa la pratica era, forse, un po’ più sobria: ci
si limitava prevalentemente a ritrarre il defunto steso a letto, con le mani
esposte o nascoste; sopra o sotto le lenzuola, con dei fiori sparsi attorno.
Non era strano vedere nella foto degli elementi religiosi
8
. Esempi di questo
genere li troviamo nelle fotografie di Nadar che ritrasse in questo modo, fra
gli altri, Victor Hugo sul letto di morte nel 1885
9
.
Tale pratica, secondo degli studi recenti
10
, potrebbe essere fatta
risalire alla tanatometamorfosi (il trattamento delle spoglie), secondo cui
l’abbellimento del corpo – morto – corrisponderebbe all’abbellimento
dell’anima; per converso se il corpo si abbruttisce lo farà anche l’anima.
Quindi queste rappresentazioni impongono delle sembianze “vitali” appunto
perché si possa esprimere lo “stato di salubrità” dell’anima del defunto.
Abbiamo visto come la pratica di fotografare i defunti fosse legata
6
www.treccani.it/vocabolario/immortalare/
7
A cura di E. Romano, introduzione di M. Vallora, Nadar fotografie, Tea fotografia,
Milano, 1996.
8
A cura di E. Romano, op. cit.
9
P. Dubois, L’atto fotografico, a cura di B. Valli, Quattroventi, Urbino, 1996. André-
Adolphe-Eugène Disdéri, l’inventore del ritratto carte de visite nel 1855 scrive:
“(…)abbiamo vestito il morto(…)lo abbiamo seduto ad un tavolo, e per operare abbiamo
atteso sette o otto ore. In questo modo abbiamo potuto cogliere il momento in cui le
contrazioni dell’agonia sparivano e ci era dato così riprodurre un’apparenza di vita”.
10
http://www.neteditor.it/content/159352/tanatometamorfosi-la-fotografia-post-mortem
8
all’esigenza di perpetuare la loro immagine nel tempo. Spesso – in
particolar modo quando si trattava di bambini defunti – quella fotografia era
l’unica posseduta dalla famiglia e, come tale, veniva custodita come fosse
un “pezzo” di anima della persona morta. Il dolore, in queste circostanze,
sembra lasciare spazio alla necessità di conservazione. Mi sono sempre
domandato quale fosse il clima all’interno di uno studio di posa durante la
creazione del “tableau mourant”, si dialogava? Si preparava il morto
assieme ai familiari o in momenti diversi, più “intimi”? Cosa provavano i
parenti a rivedere – e a volte a rivedersi con – il proprio defunto in
fotografia?
La concezione della produzione di immagini fotografiche ha da
sempre avuto un rapporto con l’arrestarsi del tempo, e forse è per questo che
attraverso le foto si è cercato di cristallizzare l’istante prima dell’oblio, il
momento prima del precipizio definivo e irreversibile. L’attimo fotografico,
nel preciso istante in cui viene catturato fa “trasmigrare” nell’altro mondo
tutto quanto ripreso, una sorta di lasciapassare verso l’infinito immobilismo.
L’istante di tempo che si blocca perde il rapporto che diversamente avrebbe
intrattenuto col tempo reale, fluido e inarrestabile. Si varca la porta del
tempo per passare in una dimensione nuova che sarà altrettanto infinita ma
paradossalmente non continua. Ed è significativo come la foto del dolore,
della morte abbia qui la funzione di “riportare alla vita” quando in realtà
quello che sta facendo è infierire ideologicamente sul cadavere bloccandolo
in un eterno riposo su carta. L’atto fotografico secondo questa prospettiva
aiuterebbe ad abbattere il muro tra vita e morte, ma probabilmente non ci si
rende conto del fatto che in realtà il fotografo “tanatografa” attraverso il suo
obiettivo e il desiderio di vita che vorrebbero rappresentare queste foto non
è nient’altro che «il segno della paura della potenza mortifera dell’atto
fotografico»
11
. Si capovolge così la tradizionale concezione della fotografia
come eternità ed entità auto generante. Proponendo invece una lettura
dell’immagine come reliquia, come oggetto che trasuda vita ma solo
apparentemente. Non la rappresentazione di una cosa ma una sua stessa
11
P. Dubois, op. cit., p. 159.
9
parte
12
. Così facendo si evidenziano i limiti della nozione di indice proposta
da Ch. S. Peirce.
Se secondo la prospettiva indicale l’immagine risulta essere
l’impronta del segno, e si caratterizza per contiguità – fisica – con esso, non
potremmo dire che sia lo stesso per questo tipo di rappresentazione:
l’immagine del dolore non sarà qui indice della presenza fisica del morto ma
sarà prova della sua volontà di immortalità, della sua immaterialità nel
tempo. Se la volontà è quella di cristallizzare il momento prima dell’oblio
praticando una tanatometamorfosi che renda il “più vivo possibile” il
defunto non ci troveremo davanti all’indice, alla traccia reale di ciò che è
stato lì in quel momento, ma ci troveremo davanti alla traccia della volontà
di perpetuare un’immagine che non ha nulla di reale, almeno nelle
intenzioni. Cosa c’è di reale in un morto in piedi con gli occhi dipinti e
collocato all’interno di un set fotografico costruito di proposito? Facendo
uno sforzo si potrebbe sorvolare sull’aspetto di senso e volontà della foto
ma risulta essere inevitabile creare un collegamento fra queste due entità. La
foto può attestare l’esistenza in quel luogo, in quel determinato momento, di
ciò che rappresenta, ma non può dirci nulla sul senso proprio della realtà che
ci mostra. Essa si limiterà a dirci: “io sono stato lì, in quel momento, in
quella circostanza”, ma a proposito del suo senso, significato, della sua
intenzione non ci dice nulla. La realtà umana non sarà nella fotografia,
poiché essa - la realtà - è significato, ma si troverà nell’intenzione di chi
fotografa. Essa non potrà mai dirci «ciò vuol dire questo»
13
. In tale tipo di
rappresentazione sarà più giusto parlare di immagine-simbolo, la quale
definisce il suo oggetto-soggetto secondo delle convenzioni generali
culturalmente intese. Qui il medium fotografico si fa messaggio di sé
stesso
14
, si autorappresenta secondo una prospettiva simbolica e
culturalmente codificata. Si evidenzia la forza della fotografia come
restituzione di una visione antropica modellata in termini culturali. In tale
prospettiva la fotografia non sarà l’immagine dell’immagine
fenomenologicamente percepita e percepibile, ma si tratterà dell’esito finale
di un processo di costruzione culturale. In queste circostanze la fotografia
12
C. Marra Forse in una fotografia – teorie e poetiche fino al digitale, Clueb, Bologna
2002
13
P. Dubois, op. cit., p. 56.
14
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, prefazione di P. Ortoleva, Il Saggiatore,
Milano 2008.
10
appare naturale, “normale” perché la sua fruizione e percezione viene
presentata attraverso strategie di enunciazione culturalmente intese. Per
questo probabilmente la pratica di fotografare i defunti era considerata
comune, non fuori luogo, ma anzi, quasi necessaria al fine di far riposare in
pace chi era morto – e chi era vivo. Secondo questa prima analisi il dolore –
di chi è vivo? – e la morte, rappresentati in fotografia non sono altro che
metafore attive atte a tradurre l’esperienza vissuta in forme nuove.
L’apparato culturale, e quello sociale determinano la concezione di tali
rappresentazioni nell’ambito della normalità, del non sconvolgente o
macabro, iscrivendo tale pratica in una logica di condivisione e
perpetuazione delle congruenze segniche
15
. Sarà così che il ruolo
dell’osservatore-spettatore si legherà indissolubilmente a quello del
fotografo, che a sua volta rimanda al soggetto fotografato e al contesto
culturale. La produzione di senso della rappresentazione del dolore sarà
determinata dalla congruenza di questi elementi/agenti
16
. L’indicalità
dell’immagine va intesa come fenomeno non universalistico ma
intraculturale. Quindi ogni prassi di enunciazione si presenterà come
naturale, normale, accettata e condivisa da tutti. Questo concetto sembra
perfettamente coincidere con le parole di P. Bourdieu il quale afferma che
“conferendo alla fotografia un brevetto di realismo, la società non fa che
confermarsi della certezza tautologica che un immagine del reale conforme
alla sua rappresentazione dell’obbiettività é veramente obbiettiva”.
17
Secondo queste costatazioni il risultato sarà un’immagine atta a fissare su
carta un agglomerato di tensioni sociali, speranze divine e convenzioni
culturali.
15
U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975. La definizione di
cultura in senso antropologico si definisce secondo la compresenza di quattro elementi:
produzione di strumenti d’uso comune; beni di scambio; linguaggio verbale condiviso;
relazioni parentali. La definizione di congruenze o calchi indica tutti i punti nello spazio
fisico dell’espressione che corrispondono a quelli dell’oggetto reale, per esempio le
maschere mortuarie.
16
F. Marano, Camera etnografica – storie e teorie di antropologia visuale, Franco Angeli,
Milano, 2007.
17
P. Bourdieu
11
Capitolo II
Dal carro di Roger Fenton a “Youreporter”
L’immagine del dolore è passata attraverso la storia come
testimonianza di fatti ed eventi indelebili nella mente di molti. Fin dalla
seconda metà dell’ottocento la fotografia era scientificamente, anche se in
modo ingenuo, usata come mezzo per documentare le situazioni umane e i
problemi sociali.
18
Spesso è proprio la sua rappresentazione figurativa ad
essere ricordata e a giocare un ruolo di rimando e fissaggio nella memoria
collettiva: noi ci ricordiamo qualcosa perché l’abbiamo vista in foto, noi ci
ricordiamo la sua immagine. E spesso, il fatto di ricordare solo le fotografie,
può risultare problematico.
Il primo reportage fotografico viene fatto risalire al 1855, quando
l’avvocato-fotografo Roger Fenton fu inviato dal Times di Londra per
scattare delle fotografie durante la guerra di Crimea.
19
Il suo compito non
era quello di documentare, come si vorrebbe che oggi facesse un buon
reporter, ma doveva controbilanciare con delle immagini rassicuranti quanto
veniva riferito attraverso le lettere di William Howard Russel, primo inviato
al fronte, il quale paradossalmente, lavorava anche per il Times.
20
Il compito
di Fenton fu portato avanti grazie all’utilizzo di un carro che gli serviva sia
per gli spostamenti sia come base per il lavoro. Il carro inoltre era utile a
trasportare la pesante attrezzatura che serviva a produrre le sue immagini;
successivamente il Times pubblicava le litografie derivate dalle foto
21
. Un
po’ per gli intenti ideologici che muovevano il suo modo di rappresentare,
un po’ per i lunghi tempi d’esposizione necessari per immortalare i soggetti
delle sue foto, noi ci troviamo davanti ad alcune immagini del tutto fuori
dall’odierna concezione di reportage di guerra. Roger Fenton studiava a
fondo la posa dei suoi soggetti, manipolava la composizione per creare
l’effetto che più si addiceva ai suoi intenti mitiganti rispetto ai ben più
allarmanti – e realistici – resoconti di guerra. Emblematiche le circostanze
18
F. Ferrarotti, Dal documento alla testimonianza, la fotografia nelle scienze sociali,
Liguori Editore, Napoli, 1974
19
http://www.storiadellafotografia.it/2009/11/22/roger-fenton/
20
E. Menduni, La fotografia, dalla camera oscura al digitale, Il Mulino, Bologna, 2008.
21
Non era ancora possibile stampare le fotografie sui giornali assieme alle righe di piombo
con le quali si imprimevano i caratteri tipografici.
12
nelle quali realizzò una delle sue foto più famose, La valle dell’ombra della
morte datata 1855. Questa foto rappresenta uno scenario di guerra, un
paesaggio semi collinare, asciutto, senza alcun elemento escluso per un
sentiero vagamente tracciato dall’andirivieni dei mezzi bellici e una grande
quantità di palle di cannone abbandonate sul suolo. Siamo a conoscenza del
fatto che Fenton abbia realizzato due differenti lastre per questa fotografia,
solo una è stata pubblicata.
22
Nella prima la disposizione delle palle di
cannone era più ordinata e forse meno “spontaneamente drammatica”, così
il fotografo pensò di realizzare una seconda lastra – quella resa pubblica –
nella quale le palle di cannone erano ben sparpagliate sulla terra bruciata dal
fuoco di guerra. Così facendo aveva composto sin nei minimi dettagli la
scena. Le sue immagini sono quasi teatrali, perlopiù si tratta di placide
composizioni piene di uomini in divisa catturati in momenti di riposo.
Queste fotografie corrispondono tutt’ora alla memoria collettiva legata alla
guerra di Crimea.
Un simile lavoro di “manipolazione” dell’immagine fu fatto da
Felice Beato, sempre in merito alla stessa guerra. Questa volta però l’intento
non era quello di annacquare la tragedia attraverso immagini statiche e
rilassate: Felice Beato mostrava i cadaveri. Una sua famosa foto fu scattata
all’interno del Secundra Bagh dopo il massacro di 2.000 ribelli da parte del
93º Reggimento Higlanders e del 4º Reggimento Punjabafter a Lucknow in
India.
23
Nell’immagine sono visibili i resti del palazzo sullo sfondo e quattro
soldati che guardano verso l'obiettivo fotografico: uno a cavallo, uno
appoggiato ad una colonna dell’edificio, uno seduto sul gradone dello stesso
edificio e l’ultimo accovacciato per terra; in primo piano e sparse per tutto
lo slargo antistante al palazzo sono presenti delle ossa umane che a
malapena si distinguono dalle macerie presenti. Attraverso dei resoconti di
guerra sappiamo che degli abitanti locali sono stati posti di fronte
all'obiettivo e che queste ossa sono state accuratamente disposte all'interno
del cortile del palazzo, il tutto per realizzare un'immagine nella quale
l'orrore della guerra veniva ricomposto esteticamente secondo una logica
arbitraria e macabra
24
.
22
S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.
23
Ivi.
24
Ivi.
13
Altro esempio potrebbe essere quello della celeberrima immagine di
Joe Rosenthal che nel 1945 fotografò sei marines americani nell’atto di
issare la bandiera degli Stati Uniti sul monte Suribachi. Questo gesto fu
legato alla vittoria contro i giapponesi e alla successiva conquista dell’isola
di Iwo Jima considerata, grazie alla posizione, di alta importanza dal punto
di vista strategico. La foto, diventata famosissima in breve tempo, fu usata
da subito per scopi propagandistici da parte governo americano: si
organizzò una vera e propria tournée per permettere la raccolta di fondi
tramite i buoni di guerra. I sopravvissuti rappresentati nella foto
dell’alzabandiera, loro malgrado, furono allontanati dal campo per portare
questa immagine in giro per gli USA come protagonisti e testimoni diretti
della vicenda rappresentata.
25
Poco dopo però il suo autore fu accusato di
aver messo in posa l'epico alzabandiera. In realtà quella di Joe Rosenthal è
stata una foto “vera” ma di un evento falso: quella che ha documentato fu in
realtà la sostituzione della bandiera che avvenne prima del drammatico
scontro di Iwo Jima. Il motivo per il quale quella foto sia diventata un
simbolo è facile da individuare: la posa infatti si presta perfettamente ad
essere utilizzata come una metafora concreta di uno sforzo patriottico
collettivo emblema degli ideali americani. Tutta questa vicenda ebbe seguito
anche in epoca moderna con la pubblicazione del libro di James Bradley
"Flags of our Fathers" e l’omonimo e successivo film di Clint Eastwood.
26
Queste foto, simbolo di grandi avvenimenti mondiali, hanno la pretesa di
essere identificate come piene di reale. Non ci si rende conto che sono frutto
di una soggettività che troppo spesso viene messa da parte quando si parla
del mezzo fotografico. Sin dalle origini la fotografia è stata marchiata dal
“senso di realtà” che troppo spesso si dà per scontato. È importante
intenderci su cosa voglio indicare con il termine “reale”: il fatto che la
fotografia sia una prova del “qui è stato” può essere accettato solo in termini
fisici, materici, solidi. L’hic fotografico non ha nulla a che vedere con la
rappresentazione, con il suo senso di reale. La traccia fotografica della quale
ci parla Peirce è, a mio avviso, solo una prova materica della presenza fisica
che, probabilmente, con l’avvento del digitale finisce per vacillare
25
E. Menduni, op. cit.
26
La controversia narrata nel film di C. Eastwood nasce da un equivoco, causato dal fatto
che l'alzabandiera ritratto da Rosenthal era il secondo sull'isola, non il primo, che era stato
infatti ripreso qualche ora prima dal sergente Lou Lowery.
14
anch’essa. Queste immagini, sulle quali ho argomentato, ne sono
testimonianza: la loro rappresentazione risulta essere legata al controllo e
dominio propri del fotografo, che ha deciso dove disporre chi e che cosa. La
dimensione ideologica sovrasta quella del reale dando vita a
rappresentazioni culturalmente codificate. Un’eventuale raffinatezza tecnica
si potrebbe scontrare con la consapevolezza del significato, rischiando così
di avere un’immagine perfetta ma priva di scopo. La questione del reale,
quale presenza indiscutibilmente insita nella fotografia, inizia a sgretolarsi
di fronte all’imponente mostro ideologico che si cela dietro alcune
immagini. L’ideologia sembra essere più forte della realtà, la realtà viene
messa in secondo piano ed improvvisamente tutte le parole spese a tal
proposito sembrano evaporare e perdersi nell’immensa nuvola del
soggettivismo.
La macchina fotografica non può più essere considerata un agente
riproduttore neutro, esclusivamente meccanico. Ma va intesa come una
«macchina ad effetti deliberati»
27
. Essa non sarà allora nient’altro che uno
strumento di interpretazione e analisi del reale.
A partire dall’automatismo della sua genesi tecnica la fotografia ha
avuto una credibilità che le si è riconosciuta come indiscutibile.
28
D’altronde
il senso comune la identifica come mezzo che non può mentire. Ma di fronte
alle immagini di R. Fenton, F. Beato e Joe Rosenthal ne siamo ancora
convinti? E che dire di oggi, del digitale, della manipolazione taciuta delle
immagini? A questo punto viene a cadere anche la sua concezione in
opposizione all’opera d’arte intesa come frutto del genio, del lavoro e del
talento innato
29
. Se la fotografia veniva contrapposta all’arte sulla base della
sua possibile e perfetta riproduzione della realtà adesso a cosa ci si appoggia
per giustificare tale affermazione? Dicendo che la fotografia è frutto della
creatività, che essa sia ideologicamente spinta o meno, non si finisce per
dire che anch’essa appartiene al mondo dell’arte? È forse necessario
ricorrere all’hic et nunc benjaminiano e riferirci al concetto di unicità e
autenticità per dire che la fotografia non è arte?
27
P. Dubois, op. cit., p. 43.
28
Ivi.
29
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, con una nota
di P. Pullega, Einaudi, Torino, 1966.