2
diverse realtà produttive italiane, soffermandosi sull’analisi
dei caratteri strutturali e relazionali, che incidono sulle
modalità strategiche ed operative; modalità basate sulla
flessibilità e l’integrazione.
Pertanto, obiettivo del mio lavoro è stato quello di analizzare
la realtà distrettuale del CIS-Interporto-Vulcano Buono e di
confrontarla con i possibili contributi teorici dei distretti
industriali sul territorio italiano.
Da una prima descrizione di cosa sia effettivamente un
distretto industriale, si passa successivamente all'analisi
dell’organizzazione di un distretto per finire a confrontare una
struttura distrettuale generale come quella particolare del CIS-
Interporto-Vulcano Buono.
Il lavoro inquadra, quindi, nella prima parte le caratteristiche e
le dinamiche evolutive dei distretti industria locali
soffermandosi sulle logiche distrettuali per le aggregazioni
locali e sulle diverse tipologie di reti network.
Nella seconda parte, l’attenzione viene centrata sulle
dinamiche relazionali e le composizioni distrettuali,
analizzando nello specifico le componenti e gli attori presenti
nella creazione di un distretto.
Il lavoro continua, ponendo particolare attenzione al sistema
distrettuale atipo CIS-Interporto-Vulcano Buono, ma non per
questo di minore interesse e valenza distributiva, commerciale
e logistica.
Da come si evince dai tre capitoli a confronto, questa struttura
distrettuale rappresenta un volano di sviluppo dell’economia
del Sud Italia e una grande scommessa, quasi un miracolo, che
vede le necessità trasformarsi in opportunità. Esso costituisce
3
un esempio unico di sinergia tra infrastrutture logistiche,
terziario avanzato, servizi e retail.
Lo studio si completa con una panoramica dello scenario
competitivo in cui si analizza brevemente il Centergross di
Bologna e il Baricentro di Bari e con l’dentificazione del
Distretto CIS-Interposto-Vulcano Buono con una forma
organizzativa reticolare di carattere trans-settoriale e trans-
territoriale.
Tale evoluzione, dal distretto alla rete, non ha un valore
soltanto adattivo, ma costituisce un processo di cambiamento
che agisce in profondità sui modelli di business delle imprese
e sulla competitività dei territori.
Queste diverse struttura distrettuali costituiscono, in
definitiva, dei veri e propri motori propulsivi dell’economia,
in grado di favorire la crescita e lo sviluppo delle imprese
presenti al suo interno, migliorandone l’efficienza e la
competitività sui mercati internazionali.
4
Capitolo I
Caratteristiche e dinamiche evolutive dei
distretti industriali
1.1 La logica distrettuale per le aggregazioni locali
La tradizione distrettualista, sin dal contributo pionieristico di
Alfred Marshall
1
, ha identificato nell’esistenza delle economie
esterne all’impresa ma interne al distretto le fondamenta della
competitività di questi sistemi produttivi locali.
Esse consistono essenzialmente nel fatto che la pluralità degli
attori presenti nel distretto, operando in un contesto
concorrenziale mitigato dalla presenza di una subcultura
condivisa e radicata, conseguono a livello sistemico, peculiari
vantaggi competitivi che, altrimenti, singolarmente, non
sarebbero in grado di ottenere. In altri termini, l'aggregazione
spaziale di numerose imprese - ciascuna di esse operante in
condizioni di efficienza tecnica e organizzativa e
compenetrate tra di loro sul piano dei processi manifatturieri
e commerciali - determina una particolare condizione di
efficienza a livello di sistema produttivo complessivo.
La natura dei vantaggi economici
2
, che discendono da queste
economie esterne, possono rivelarsi sotto tre diversi profili: ri-
1.
Marshall A., The principles of economic, UTET, Torino,1972.
2.
Porter M., Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior
Performance, 1985, New York: The Free Press.
5
duzione dei costi di produzione, dei costi di transazione e
attivazione di dinamiche innovative di tipo incrementale.
Infatti, la localizzazione comune di molteplici imprese
compenetrate produttivamente tra di loro determina, per
l’operare di diversi fattori, una riduzione dei costi di
produzione (complessivamente e genericamente intesi) di
ciascuna di esse.
D'altro canto, i meccanismi di relazionamento delle imprese,
unitamente alle caratteristiche di funzionamento del mercato
comunitario - quali la trasparenza delle informazioni, la
marginalizzazione e penalizzazione di comportamenti
opportunistici, l'assenza di investimenti transaction-specific, la
frequenza delle transazioni ecc. - può assecondare una
riduzione dei costi transazionali
3
.
Resta, inoltre, da sottolineare che la circolazione rapida delle
idee e delle informazioni a livello orizzontale e l'interazione
attiva tra gli attori verticalmente o lateralmente compenetrati
può condurre all'implementazione di soluzioni innovative
incrementali di prodotto o di processo.
Marshall, descrivendo, quindi, quello che in seguito verrà
definito come distretto industriale, si riferisce ad un’entità
socioeconomica costituita da un insieme di imprese facenti
generalmente parte di uno stesso settore produttivo e
localizzate in un’area circoscritta, tra le quali vi è
collaborazione ma anche concorrenza.
Punto focale di simile impostazione è costituito dai richiami
alla categoria socioeconomica, da intendersi come fiducia
3.
Porter M., Il vantaggio competitivo, Einaudi, 2002.
6
reciproca tra i residenti di un certo territorio, alla
concentrazione territoriale ed alla possibilità di scomposizione
del processo produttivo in singole fasi, ognuna delle quali
affidata ad una singola impresa. In tal senso, la
specializzazione delle imprese in singole fasi produttive può
ben collegarsi all’odierno concetto di filiera produttiva, ovvero
di settore verticalmente integrato.
Grazie alla complessa considerazione dei valori etici, sociali e
territoriali, che nel caso del distretto marshalliano si associano
a quelli economici, ogni singola impresa beneficia di
particolari economie, esterne all’impresa ma interne
all’industria, generate dall’agglomerazione delle stesse in uno
specifico ambito territoriale e dalla presenza congiunta di
soggetti legati tra loro da relazioni durature di produzione e
scambio. L’impresa localizzata gode di tali economie esterne
in virtù dell’insieme di valori e comportamenti fiduciari
instaurati tra le imprese e tra queste e le istituzioni locali,
attraverso cui la società interagisce con l’organizzazione
industriale compiutamente considerata.
All’interno del distretto industriale, dal contributo combinato
dei vantaggi della concentrazione territoriale delle imprese e
della specializzazione della produzione, emergono, inoltre,
nuove possibilità di innovazione, connesse con la più agevole
circolazione delle idee e delle informazioni, lo sviluppo di una
serie di attività sussidiarie e di industrie complementari alle
principali, dettate dalla necessità di supportare la varietà della
produzione, e le condizioni di genesi di una specializzazione
della manodopera locale.
Il distretto industriale viene a configurarsi come un’area
7
produttiva che, consentendo lo sviluppo di sinergie tra le
imprese insediate in uno stesso territorio, permette a tali
complessi di piccole dimensioni di comportarsi, ed apparire
all’esterno, alla stregua di una grande impresa, verticalmente
integrata, potendo fruire delle stesse economie di scala
connesse alla più ampia dimensione organizzativa e
produttiva.
L’unità territoriale cui Marshall fa riferimento non è
l’industria considerata nel suo complesso ma un sistema di
relazioni tra imprese, il distretto industriale appunto,
caratterizzato da un ispessimento localizzato delle relazioni,
stabili nel tempo, tra le imprese che vi appartengono. Ciascuna
di esse diviene sempre meno autosufficiente e, di contro,
dipendente dalle altre per il raggiungimento del proprio
benessere e della propria sopravvivenza.
1.1.1 Il modello classico di sviluppo distrettuale italiano
A partire dagli anni Sessanta i distretti industriali hanno
apportato un contributo rilevante in termini di produzione,
occupazione ed esportazioni all’economia italiana.
La teoria classica definisce il distretto come “un sistema
produttivo locale caratterizzato dalla compresenza attiva di
una comunità di persone e di una popolazione di piccole e
medie imprese specializzate in una o più fasi di una stessa
filiera produttiva
4
”.
Ruolo centrale è svolto dal territorio, il quale rappresenta un
4.
Marshall A., Principles of economic, McMilliam & Co., London, 1890
[Trad. It., Campolongo A., Principi di economia, UTET, Torino,1972].
8
potente mezzo di relazione e di scambio di informazioni e
risorse tra le diverse imprese distrettuali. Il territorio risulta
infatti essere una “infrastruttura” in grado di organizzare un
sistema efficiente di produzione laddove la variabilità della
domanda è alta, integrando in modo flessibile la divisione del
lavoro realizzata da soggetti diversi.
Queste caratteristiche peculiari hanno permesso ai distretti di
avere una potenzialità di crescita e di sviluppo maggiore in
conseguenza delle più intense interdipendenze che si venivano
a creare tra soggetti diversi ma complementari, e di
rappresentare per lungo tempo un modello di crescita e di
sviluppo alternativo e più efficiente rispetto alla grande
impresa fordista.
La genesi storica del concetto di distretto industriale può
essere fatta risalire agli scritti di Alfred Marshall
(specificatamente ad Industry and Trade e a Principles of
Economy, testi risalenti alla fine del XIX secolo), nei quali
l’economista inglese contestava la teoria secondo la quale il
sistema di fabbrica (factory system
5
) sarebbe stato
sistematicamente superiore ai modelli organizzativi dispersi
sul territorio e quindi meno integrati. In realtà è possibile
produrre in maniera efficiente anche senza utilizzare la
fabbrica integrata, bensì sfruttando una concentrazione di
molte piccole imprese specializzate nelle diverse fasi
lavorative di un unico processo produttivo in un territorio
ristretto, supportate da manodopera specializzata nelle
5.
Il sistema di fabbrica teorizza la concentrazione di tutte le attività
produttive in un medesimo impianto ad alta integrazione verticale, come
soluzione ottimale per la produzione manifatturiera.
9
lavorazioni e da un insieme di imprese sussidiare che
forniscano tutto quello che le imprese manifatturiere non
riescono a procurarsi autonomamente (macchinari,
distribuzione dei prodotti e/o dei semilavorati, etc…). Il
pensiero di Marshall rimase qualcosa di “teoricamente
anomalo” per diversi decenni, principalmente perché il
modello fordista riscuoteva successi, creando ricchezza e
benessere ovunque questo paradigma si diffondesse, ma i
cambiamenti di contesto che seguirono e le performance che i
distretti furono capaci di ottenere (specialmente riguardo
produzione, occupazione ed export) fecero recuperare
interesse e valore a queste teorie.
Un distretto industriale
6
prende forma quando in un
determinato luogo si addensa un numero consistente di
imprese, appartenenti alla stessa filiera produttiva o a filiere
collegate, che sfruttano la contiguità territoriale come mezzo
di relazione e di scambio.
Dunque un distretto nasce e si sviluppa in un’area
geograficamente delimitata, le cui caratteristiche di insieme
sono spesso uniche (a livello di conformazione del territorio,
di origine etnica della popolazione, e così via),
differenziandosi rispetto ad altre aree anche vicine nelle quali
certe caratteristiche peculiari non trovano fondamento.
“Per mezzo del territorio” è così possibile interagire e
scambiare idee con migliaia di intelligenze decentrate ed
interdipendenti (formanti la cosiddetta impresa diffusa) e con
6.
Becattini G., Il distretto industriale, 2000. Si veda anche Rullani E. e
Bacattini G., Sistema locale e mercato globale, in Economia e politica
industriale, 1993.
10
esse dare avvio ad un sistema organizzato, efficiente ed
innovativo.
Tuttavia, non è sufficiente la sola presenza di tante piccole
imprese in uno spazio limitato per costituire un distretto, anzi
deve essere presente prima di tutto una complessità “culturale”
fatta di valori, di conoscenze, di rapporti di fiducia e di
comportamenti emarginati altrove da una cultura industriale
massificante.
La comunità di persone
7
di un determinato luogo può giovarsi
di un sistema omogeneo di valori condiviso, tradizione e
cultura, come base per formare e sviluppare un distretto di
successo; nondimeno, ruolo determinante ha la formazione
graduale e regolare di una pluralità d’istituzioni locali, come la
famiglia, la comunità anche religiosa, le associazioni
imprenditoriali e non, le scuole tecniche, i consorzi di acquisto
e di vendita, e così via, che da un lato sviluppano le istituzioni
e i valori del luogo e dall’altro garantiscono e diffondono i
valori peculiari del sistema locale, trasmettendone l’identità di
generazione in generazione e permettendo al distretto di
crescere e rigenerare i suoi tratti caratteristici.
Ciò che contraddistingue il distretto rispetto agli agglomerati
di piccole e medie imprese è il meccanismo di competizione e
collaborazione: dalla pura e semplice concorrenza tra piccole
7.
In generale nel distretto vi è una tendenza incorporata a ridistribuire
continuamente le risorse umane: le imprese accedono ad un mercato del
lavoro in cui esiste una professionalità diffusa e qualificata, offerta dai
continui movimenti delle persone (elevata mobilità all’interno del sistema
distrettuale, per cercare il lavoro più adatto alle proprie capacità e far
crescere imprese e distretto) e dagli spin off di dipendenti che si mettono in
proprio e tentano l’avventura imprenditoriale.
11
imprese di un semplice agglomerato produttivo locale che
producono beni simili (se non uguali), si passa a forme sempre
più complesse di competizione-cooperazione tra imprese ed
allora si ha la comparsa del sistema distrettuale. I distretti
offrono un esempio concreto di come sia possibile realizzare
una ragionevole sintesi tra organizzazione e complessità.
Quest’ultima viene metabolizzata attraverso l’apprendimento
distribuito delle intelligenze dei molti attori presenti nel
sistema locale e capaci di comunicare ed interagire tra di loro.
Nessuno dei partecipanti al processo innovativo ha troppo
potere, quindi si impara attraverso prove ripetute, esplorando
autonomamente e intelligentemente una parte di complessità
ed assumendosi il rischio (ed il beneficio) imprenditoriale sui
risultati esplorativi fatti.
Chi non innova direttamente è viceversa capace di imparare
imitando l’esperienza fatta dagli altri, poiché i circuiti della
comunicazione locale (integrazione clienti-fornitori, copia dei
prodotti dei concorrenti, spin off per costituire nuove imprese,
turnover lavoratore in diverse imprese, famiglie che lavorano
per imprese diverse) consentono che il successo realizzato da
un singolo soggetto possa essere emulato (e magari
migliorato) da altri.
Questa cooperazione involontaria, con novità introdotte da
alcuni soggetti che vengono sfruttate da un numero maggiore
di essi, è un apprendimento peculiare dei sistemi locali e
permette di produrre conoscenza ed innovazione in un modo
del tutto particolare: attraverso la condivisione del contesto di
esperienza ed attraverso un metodo “prova ed errore”
(apprendimento evolutivo), senza orientamenti preventivi,
12
mettendo in conto tanti errori da parte di tanti soggetti, ma
anche qualche buona soluzione, cosicché l’investimento ed il
rischio connessi a ciascun esperimento sono limitati e si
potranno fare molti tentativi basati su decisioni rapide ed
intuitive, dato che l’errore costa poco e si è incentivati a
provare.
Nei distretti si innova contando sulle capacità di tante teste
decentrate, e quando la soluzione vincente emerge tutti gli
attori del sistema locale saranno in grado di sapere, in poco
tempo ed a basso costo, quale è la risposta efficiente al
problema, adeguandosi di conseguenza. In altre parole, le
conoscenze e le innovazioni si autogenerano emergendo da
processi spontanei e progressivi di apprendimento, collettivo e
non predeterminato, accessibile attraverso la condivisione del
contesto locale. L’impresa specializzata distrettuale ha nel
tempo imparato a lavorare in rete, “acquisendo” le
competenze specialistiche di cui non dispone da altri soggetti
specializzati, il più delle volte territorialmente vicini. Dunque,
l’impresa è più povera di funzioni ed intelligenze interne
(come l’ufficio tecnico o quello di marketing) rispetto alle
imprese non radicate in un determinato contesto territoriale,
ma tanto la struttura interna è semplice, quanto invece le
relazioni con l’ambiente distrettuale sono complesse.
Il collegamento tra l’apparato produttivo e la comunità non si
limita alle istituzioni formali classiche, il distretto è anche un
sistema al cui interno raggruppa tante altre diverse istituzioni
che garantiscono la riproduzione del sistema socioeconomico.
Oltre agli scambi tra imprese specializzate di fase e quelle di
supporto, esistono vari mercati secondari, come quello degli
13
scarti di produzione oppure quello dei macchinari usati,
compratori specializzati di materie prime, listini di prezzi
(tariffe) che normalizzano i costi delle operazioni in modo da
garantire agli operatori locali un importante punto di
riferimento per i calcoli economici e per le decisioni
produttive, di investimento e di specializzazione, garantendo
stabilità sui redditi e costi di produzione certi. Per quanto
concerne il processo produttivo, all’interno dei distretti non si
crea solo output partendo da degli input, ma si rigenerano i
fattori umani e materiali da cui prende avvio il processo
produttivo stesso. La riproduzione, cioè, non riguarda solo
macchine e professionalità, ma si spinge al contesto sociale,
alle regole istituzionali, ai valori, agli atteggiamenti, cioè
unisce il lato economico-produttivo a quello socio-culturale.
La produzione delle merci e la riproduzione dell’organismo
produttivo caratterizza il cosiddetto processo produttivo
completo, un fenomeno spiraliforme che relaziona e rigenera
gli aspetti tecnico-economici e quelli socioculturali. Il distretto
ha dentro di sé il nucleo essenziale delle condizioni sociali,
economiche e culturali della propria riproduzione e del proprio
sviluppo. Per collocare la propria produzione e reagire alle
modifiche ed alle insidie dell’ambiente competitivo, il
distretto deve quindi mutare di continuo la propria struttura
interna mantenendo stabile un nucleo specifico di entità,
appartenenti all’area dei valori, delle conoscenze e delle
istituzioni. La riproduzione implica, quindi, l’evoluzione del
sistema, ma non una rivoluzione dello stesso: per adattarsi, le
strutture devono essere sì flessibili ma allo stesso è necessario
conservare l’identità collettiva. Cambiano velocemente i
14
processi, i prodotti ed i mercati, ma le caratteristiche di fondo
del distretto si modificano molto lentamente. In questa
accezione, il sistema locale, o meglio il territorio, può venir
considerato una ecologia
8
, ossia un sistema che è il risultato di
un lento apprendimento evolutivo attraverso selezioni e
riproduzioni, realizzate da un intreccio complesso di
interdipendenze (organizzazioni, persone, idee e culture) che
sono riuscite a rendere coerente ed ordinata la costruzione
economica e sociale: anche il distretto industriale ha un
proprio ordine interno, frutto di un apprendimento evolutivo
compiuto nel tempo, e quando avvengono dei turbamenti
esterni è intrinsecamente capace di ricostituire e modificare sé
stesso.
C’è una precisazione da fare: nonostante si recuperino forme
artigianali di professione e di impresa e si richiamino consumi
esistenti ante rivoluzione industriale, i distretti hanno
costituito nel tempo una modernità industriale che utilizza
intensamente le capacità e le intelligenze dell’individuo.
Essi non avrebbero avuto successo in campi dove la tradizione
si ripete in forme costanti ed a-problematiche, terreno fertile
per le grandi imprese e le loro grandi serie standardizzate, ma
divengono “vincenti” dove bisogna saper adattarsi
rapidamente e creativamente ai cambiamenti non controllabili,
e sono “vincenti” perché questo non viene realizzato da una
master mind bensì esiste una intelligenza diffusa che
attraverso tentativi, imitazioni e adattamenti reciproci crea
apprendimento, innovazione, successo.
8.
Rullani E.,Economia della conoscenza. Creatività e valore nel
capitalismo delle reti, Carocci,Roma, 2004.