sistema moda), descrivendo le tipologie e gli elementi essenziali che lo
caratterizzano anche secondo un’ottica di marketing.
Nella seconda, (capitolo III e IV), mediante lo studio e l’osservazione
di dati e rilevazioni quantitative, si descrivono i recenti sviluppi delle
imprese della moda del nostro paese e in particolare, attraverso una
ricerca empirica, si cerca di dimostrare la validità delle aziende italiane
che utilizzano volutamente brand apparentemente non italiani.
Nello specifico, nel primo capitolo si presenta:
ξ il made in Italy (soprattutto il sistema moda) secondo una
prospettiva economico aziendale, dove vengono analizzate le 4
A dell’eccellenza manifatturiera, l’importanza dei distretti
industriali, l’export e le occupazioni dei suoi settori portanti;
ξ il ruolo della comunicazione nella moda italiana, sottolineando
l’importanza che assume il brand nello scenario mondiale;
Nel secondo capitolo, considerando che sono sempre più numerose le
imprese italiane capaci di organizzare a livello mondiale le loro attività
di commercializzazione, si esamina la politica internazionale del
prodotto, l’effetto prisma e il ruolo del paese di origine. Si analizza
l’effetto made in (una determinante dell’effetto prisma) specificando
che il posizionamento del prodotto sul mercato dipende sia dall’intento
strategico dell’impresa, sia da percezioni a priori dei consumatori, in
quanto anche all’origine della marca è riconosciuto un valore
economico perché influenza le percezioni del consumatore e quindi le
sue decisioni di acquisto e consumo.
Nel terzo capitolo si effettua un’analisi quantitativa che ha posto a
confronto le performance economico-finanziarie delle aziende della
moda italiana che utilizzano brand che evocano un’origine diversa da
quella reale e brand made in Italy. Prima della presentazione e del
commento dei risultati si è ritenuto opportuno descrivere il processo e
la metodologia seguita per la selezione dei brand, condotto perlopiù
6
attraverso l’acquisto di riviste e consultazioni dei siti internet delle
aziende stesse.
Infine il quarto capitolo si cala ulteriormente nella realtà presentando
un’azienda che fa parte di uno dei dieci “brand made in” presi in
esame: Meltin’Pot.
L’obiettivo perseguito è quello di, attraverso un’analisi di natura
economica, capire se le imprese che utilizzano dei brand che evocano
un’origine straniera, quindi un’origine volutamente diversa da quella
reale, ottengono delle performance superiori rispetto alle aziende che
puntano sul riconoscimento del loro paese di origine.
7
CAPITOLO I
IL MADE IN ITALY
1.1. Le origini del made in Italy
Per made in Italy è da intendersi l’insieme dei settori operanti nelle
aree moda, arredo-casa, tempo libero ed alimentazione mediterranea
(Fortis, 1998). Questa definizione enfatizza la spiccata specializzazione
italiana nel vestir bene, nel proporre prodotti per il tempo libero e lo
sport. Elementi distintivi di queste attività sono il collegamento delle
relative produzioni industriali con specializzazioni tradizionali di tipo
artigianale.
Il made in Italy è stato un fenomeno multidimensionale, capace di
combinare con particolare efficacia l’innovazione del prodotto, quella
del processo, insieme alla promozione di un’immagine
immediatamente riconoscibile sui mercati internazionali. La
comunicazione ha avuto un’ importanza rilevante anche agli inizi
dell’industria italiana, quando ancora il business di riferimento era la
mera produzione di tessuti.
Merlo (2003) ha evidenziato come i primi attori della filiera produttiva
a insistere sulle potenzialità del brand furono le aziende di produzione
tessile.
Nel caso del marchio della ditta G. B. Galimberti, punta di diamante del
distretto di Como, spiccano alcuni elementi tipici del contesto locale
che sono capaci di agevolare l’identità e la riconoscibilità del prodotto
8
rispetto alla concorrenza francese come anche rispetto al sostanziale
anonimato delle altre produzioni italiane.
Allo stesso modo il marchio di fabbrica del cotonificio F. Fossati
giustapponeva un immagine della fabbrica con riferimenti aulici alla
romanità classica. Mentre il marchio della fabbrica della ditta Centenari
e Zinelli sperimentava sul piano della costruzione iconografica,
anticipando alcuni tratti della futura immagine del made in Italy.
La rinascita postbellica fu dominata dalla moda francese e a quel
tempo l’ Italia era un mero epifenomeno rispetto alle dinamiche del
mercato internazionale. Ciò nonostante, l’evento di lancio nel 1951
dell’esperienza di Pitti gettò le basi per la nascita e la successiva
affermazione del pret-a-porter italiano. Un processo catalizzato dalle
relazioni di alcuni imprenditori con il mercato statunitense che fu il
primo a recepire la nuova moda, comoda e a prezzi abbordabili,
proposta dalle firme italiane. Tuttavia l’Italia rimase arretrata per due
decenni rispetto alle potenzialità di innovazione offerte dai nuovi
procedimenti produttivi.
Il passaggio dal regime dell’alta moda a quello del pret-a-porter
determinò l’abbandono del concetto di novità in favore del concetto di
innovazione. Tale processo ha implicato la nascita di una modalità
intermedia di elaborazione delle forme dell’abbigliamento più vicina
alle pratiche della vita quotidiana, ai nuovi stili di consumo emersi in
seno alle società industrializzate. L’innovazione nell’abbigliamento
abbandonava l’aura di unicità e sacralità che possedeva nell’ambito
della haute couture, per sposare la causa della nascente cultura pop.
Da allora la moda iniziò a sposare la causa di un nuovo concetto
d’innovazione: la capacità di conciliare ricerca tecnologica e creatività
in proposte che si rivolgevano a fasce intermedie di popolazione.
Lo slittamento dell’asse del pret-a-porter da Firenze a Milano coincise
con una netta trasformazione dell’idea stessa di made in Italy,
dall’artigianato artistico all’industrial design. Una nuova visione che si
fondava sulla capacità di alimentare il circolo virtuoso tra la sua
immagine pubblica, la nuova visione della marca, l’idea di un lifestyle
9
più moderno e innovativo che nasceva nel contesto milanese. Questa
nuova concezione decollò nella seconda metà del decennio grazie alla
figura di Armani e alla sua abilità. Sono gli anni Settanta quelli
dell’affermazione del made in Italy.
Gli anni Ottanta decretano il trionfo definitivo dell’immagine e di una
moda ispirata al cosiddetto dress for success. Gli stilisti ritennero
opportuno insistere sull’estensione delle loro firme sino ai territori
limitrofi in cui incominciava ad essere avvertita la necessità di raffinare
il design ed il gusto. Molti titolari di griffe di successo hanno iniziato a
concedere licenze su qualunque prodotto senza valutare le
conseguenze negative che tale passaggio poteva comportare. Un
esempio riguarda le licenze relative alle piastrelle realizzate da Laura
Biagiotti, Enrico Coveri, Krizia, Missoni, Trussardi e Valentino che si
rivelarono puramente speculative.
Gli anni Novanta esordirono con la proclamazione della crisi dell’intero
sistema in quanto le aziende hanno dovuto fare i conti con le nuove
esigenze dei consumatori che, divenuti particolarmente esigenti e
competenti, non sono più incapaci di difendersi dal cosiddetto
obsoletismo (teoria e pratica elaborata dal marketing statunitense per
ridurre progressivamente i cicli di vita e di prodotti e la loro
permanenza sul mercato al fine di incrementare la produzione e il
consumo).
Nel corso del nuovo decennio il made in Italy è oggetto di un profondo
ripensamento che da un lato ha dato vita a campagne di acquisizione
che hanno raccolto molteplici marchi sotto l’insegna delle nuove
holding del lusso, dall’altro invece si sono affermate aziende
posizionate su segmenti intermedi, che hanno raggiunto successi
elevati nel campo dello street wear e del casual. L’affermazione di
nuove politiche di brand attiva processi contraddittori. Se alcune griffe
continuano a insistere sull’idea di made in Italy inteso come “talento
locale” in altri casi tale concetto si sgancia dalla connotazione storica e
territoriale che ne aveva garantito il successo nei due decenni
precedenti. Così, si afferma un’immagine cosmopolita e transculturale
10
che solo implicitamente suggerisce il radicamento in un humus
culturale e produttivo caratterizzato dall’idea di qualità.
A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta una certa letteratura definita
“distrettuale” ha insistito sull’importanza di un modello competitivo che
è stato peculiare dell’Italia. Il tipo di organizzazione industriale che
nasce dai distretti ha rappresentato l’infrastruttura da cui sono nate le
estetiche immateriali del made in Italy. L’apologia dei distretti ha
vissuto per un clima euforico del glocale, del “piccolo è bello”, del
vantaggio competitivo legato all’autenticità dei prodotti e dei
produttori. Tutto ciò contro l’idea della globalizzazione tout court.
Nel frattempo, però, le aziende italiane delocalizzavano la produzione,
alla ricerca delle best performance, correndo il rischio di una
sostanziale perdita delle loro specificità manifatturiere.
Il recente processo di delocalizzazione produttiva che ha interessato
numerose aziende del settore moda, ha messo in definitiva discussione
il valore del radicamento e la sostanziale culturalità del sistema dei
distretti industriali. Allo stesso modo, l’affermazione nel dibattito
internazionale del concetto di classe creativa, rispetto alla quale l’Italia
dimostra un ritardo significativo, impone la necessità di ripensare il
valore cognitivo e comunicativo del made in Italy che deve
trasformarsi da marca-territorio in metamarca. Da stereotipo
comunicativo che esalta i tratti caratteristici di una idea logora
d’italianità, a dispositivo di comunicazione elastico che assegna il
medesimo valore di qualità e di creatività a marche e a nuovi stili di
consumo. Si tratta di una sostanziale reinvenzione del made in Italy sia
come marca territoriale sia come indicatore di nuovi fermenti culturali
che s’iscrivono nel perimetro della cultura nazionale, rinnovandola.
Quindi, nasce spontanea una domanda: ma quale sarebbe la cultura di
riferimento del made in Italy?
La moda italiana è rimasta troppo a lungo costretta entro l’orbita
referenziale della produzione. In pratica, solo da una decina di anni
stanno fiorendo studi interdisciplinari che mirano a comprenderne il
funzionamento nei termini di una nuova “cultura della moda”. Una
11
cultura che si produce e si sedimenta principalmente nel contesto del
consumo. Tale sistema culturale e produttivo si fonda sull’idea che il
made in Italy sia o possa diventare un metabrand.
Nell’identità della marca convergono molteplici storie, competenze,
economie e tecnologie che danno vita a combinazioni sempre diverse,
singolari, idiosincratiche. Da ciò deriva la sostanziale unicità di ogni
marca che la rende riconoscibile e distinguibile rispetto alle altre.
Una metamarca o un meta brand, dunque, rappresenta un’entità ben
più complessa che raccoglie tutte le molteplici marche singolari in una
categoria più estesa. Così, anche se tutte le aziende italiane possono
considerarsi appartenenti al made in Italy, solo alcune di queste
raggiungono, per eccellenza o per congruenza con determinati settori
la piena potestà di riconoscersi e di essere riconosciute come
espressioni eminenti di un dato talento locale. Il passaggio dall’idea di
marca territorio a quella di metamarca ci consente di capire i limiti di
una letteratura che ha sin troppo enfatizzato il nostro “made in” come
un ancoraggio all’italianità tout court, senza invece cogliere la vena
prettamente sperimentale e innovativa che ha contraddistinto tale
orientamento.
Il concetto di metabrand consente così di ragionare nei termini di
un’identità multipla che raccoglie:
ξ marche disperse su molteplici segmenti;
ξ marche che producono trasversalmente;
ξ marche che producono in diversi settori;
ξ marche italiane che delocalizzano la produzione ma che,
attraverso il branding più o meno esplicito insistono sulla
comunicazione della loro italianità;
ξ marche estere che delocalizzano in Italia per rinforzare alcune
caratteristiche dei loro prodotti.
Le aziende italiane posseggono competenze distintive che permettono
ai nostri prodotti di affermarsi all’estero, di essere riconosciuti e
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apprezzati, superando il confronto con produzioni anonime e imitative.
Una profonda conoscenza dei sistemi di lavorazione dei materiali ed
una grande attenzione al design hanno storicamente determinato il
successo dei prodotti italiani, permettendo alle nostre imprese, anche
se piccole e medie, di competere alla pari con le principali realtà
multinazionali.
Talvolta può sembrare che all’estero ci sia un vero e proprio culto dei
nostri prodotti. A Hong Kong, per esempio, qualsiasi articolo ben
pubblicizzato con un nome italiano abbia notevoli possibilità di
successo. Ma non è certo un caso unico, anche negli Usa e in Australia
la moda italiana è oggetto di vero culto. Da molti segnali si potrebbe
desumere dunque che il made in Italy non abbia difficoltà ad essere
apprezzato all’estero, soprattutto quando ci si muove in certi settori.
Eppure non è sempre così: il prodotto italiano è anche vittima di alcuni
pregiudizi che ne ostacolano il marketing, in particolare quando il
target è rappresentato da consumatori esigenti in termini di qualità e
affidabilità.
I dati più recenti sul marketing internazionale italiano non sono
particolarmente confortanti. Nel 1999 il saldo commerciale è sceso da
63.000 a 37.000 miliardi e, a fronte di una crescita del commercio
mondiale del 5%, le quantità esportate dall’Italia sono diminuite
dell’1,6%, portando la loro quota di mercato mondiale al punto più
basso del decennio (ICE 2000). I conti sono peggiorati in quasi tutte le
aree geografiche e in quasi tutti i settori.
La perdita di slancio che il made in Italy sta manifestando è in buona
parte dovuta a tre caratteristiche peculiari della nostra produzione, che
sembrano non essere più in linea con gli attuali scenari:
1. La forte prevalenza nei settori tradizionali che sono tipici dei
paesi in via di sviluppo e del tutto marginali nei mercati a
maggiore valore aggiunto.
2. L’Italia (Valdani, 2001) è poco presente nelle categorie “science
based” nonché in quelle “scale intensive” (cioè a forte economie
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di scala), che sono i mercati in cui la competizione si fa sempre
più intensa e che saranno determinanti per lo sviluppo del
sistema paese.
3. Il made in Italy si basa su imprese di ridotte dimensioni e questa
caratteristica, in un momento in cui la filosofia del “piccolo è
bello” è sempre meno adatta ad interpretare l’evoluzione
competitiva del paese nei mercati globali, rischia di essere un
ostacolo difficile da superare.
Tra i fattori che ostacolano il marketing del made in italy un discorso a
parte merita il concetto di “sistema paese”. Infatti, ciò che sembra
penalizzare di più le imprese italiane all’estero è il fatto di non poter
contare su un supporto nazionale analogo a quello degli altri paesi:
sotto vari punti di vista il sostegno pubblico appare frammentario,
eterogeneo, scoordinato e talvolta conflittuale.
Le debolezze del sistema paese dipendono da fattori di tipo culturale,
sociale e politico (Pratesi, 2001):
ξ Dal punto di vista culturale non è difficile notare in Italia la
mancanza di una vera identità nazionale. Fare marketing senza
un chiara identità è difficile per un paese tanto quanto lo
sarebbe per una marca o per un singolo prodotto.
ξ Alla mancanza di una identità nazionale si aggiunge un sistema
delle informazioni e dell’educazione caratterizzato da eccessiva
autoreferenzialità. C’è poca propensione dei media a parlare di
se agli altri paesi e c’è poco interesse a spostare all’estero i
propri orizzonti.
ξ Persiste una limitata propensione all’innovazione. Prova ne è la
scarsità degli investimenti in ricerca, come (Colombo, 2001).
ξ Ad una scarsa propensione all’innovazione non corrisponde,
purtroppo, una capacità nella manutenzione di ciò che si è
realizzato, né una tendenza alla continuità nelle cose che si
intraprendono.
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ξ Infine, si rileva l’inefficacie valorizzazione della nostra offerta
culturale che, invece, se venisse percepita come la nostra
competenza distintiva, potrebbe diventare una sorta di
”passaporto” per tutte le aziende che si internazionalizzano e
non solo per quelle legate al mondo della moda.
Tutti questi elementi contribuiscono notevolmente a danneggiare
l’immagine italiana nei mercati internazionali. Basti pensare che
Transparecy International, in termini di affidabilità negli affari,
classifica l’Italia al 38° posto su 99 paesi esportatori.
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1.2. Il made in Italy in generale: le 4 A dell’eccellenza
manifatturiera
Fortis (1996) identifica il made in Italy con il sistema moda (tessile,
abbigliamento, calzature, occhiali, oreficeria e gioielleria), con i
prodotti di arredamento e per la casa (mobili, piastrelle, apparecchi di
riscaldamento e condizionamento, elettrodomestici, lampade,
casalinghi) e dieta mediterranea. Il tutto integrato da consistenti
comparti della meccanica non elettrica. Possono esserci, ovviamente,
diverse definizioni di ciò che compone il made in Italy, ma ciò che
conta è riunire nello stesso concetto prodotti merceologicamente
diversi, accomunati solo dal fatto di essere legati ad una comune
matrice territoriale, l’Italia.
I vantaggi comparati dell’Italia sono fondamentalmente concentrati in
due grandi raggruppamenti di settori. Utilizzando la tassonomia di
Pavitt (1984), si tratta dei settori “tradizionali” e dei settori ad “offerta
specializzata” (le cosiddette “4 A” dell’eccellenza manifatturiera
italiana).
Tabella 1- Il made in Italy manifatturiero
SETTORI Numero
di
imprese
Numero
di
addetti
Incidenza
sull’occupazione
manifatturiera
(percentuale)
Esportazioni
(miliardi di
euro)
Incidenza
sull’export
manifatturiero
nazionale
(percentuale)
Importazioni
(miliardi di
euro)
Abbigliamento-
moda
108.164 891.210 18,2 50,5 19,0 21,8
Arredo-casa 93.948 494.644 10,1 17,8 6,7 5,1
Automazione-
meccanica
141.620 1.334.913 27,3 68,6 25,8 27,1
Alimentari-
bevande
66.936 446.785 9,1 14,0 5,3 17,0
Totale 410.668 3.167.552 64,7 150,9 56,8 70,9
Fonte: elaborazione Fondazione Edison su dati Istat
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