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Questo dato di fatto incalcolabile è un’esperienza non riconducibile a quel tipo di
conoscenza che mette in gioco le categorie di soggetto e oggetto
1
: se il piacere non è un
oggetto, la sua esperienza non può in nessun modo derivare dalla conoscenza oggettiva,
così come esso non può dar luogo ad una conoscenza propriamente detta. Del resto non è
possibile provare piacere se non entrandovi, lasciandoci prendere, abbandonandoci ad esso
(è quindi impossibile farne esperienza restandone fuori). Come dice Nancy, “la scienza del
piacere è impossibile”
2
, ed è impossibile non tanto (o non solo) perché il piacere è per
essenza eccessivo (e quindi eccede ogni determinazione), è fuggevole, irrazionale, ma
(anche) perché il metodo di ricerca adottato dalla scienza non può che mancarlo
costitutivamente: il tentativo di appropriarsene, di afferrarlo, lo dissolve magicamente
senza lasciarne traccia.
Il piacere è per sua natura immediato e radicale (non conosce sconti, né pre-cauzioni, né
rimandi o ritardi): esso implica un abbandono (un lasciarsi andare), un abbandono di sé (e
del proprio auto-controllo), un abbandono delle proprie difese, un esporsi. Il piacere
sovverte l’autorità del soggetto su se stesso: abbandonarsi ad esso significa esserne presi,
significa rinunciare al ruolo della volontà e dell’Io, che alimentano l’illusione di avere il
controllo su noi stessi e sulla nostra vita, significa uscire dalla logica di dominio e di
possesso, significa accettare che (per larga parte) non possiamo gestire ciò che siamo e ciò
che ci accade, significa riconoscere la nostra impotenza, la nostra instabilità, la nostra
fallibilità, la nostra debolezza, la nostra fragilità. Il piacere è quella apertura che lacera
l’identità. È l’apertura di una ferita: l’abbandono che esso richiede apre al piacere quanto al
dolore. Si potrebbe dire che partecipiamo al piacere nostro malgrado: nonostante noi, il
piacere ci investe. Il piacere è quel punto dove letteralmente cediamo, è il punto debole,
dove manchiamo a noi stessi. Non siamo noi a cercarlo, a gestirlo, a possederlo, a
provocarlo. Potremmo dire piuttosto che c’è (come dato di fatto) una tendenza generale a
frenarlo, nei confronti della quale qualche volta falliamo, cediamo, sconfitti (o forse
piuttosto colti di sorpresa: più che presi, siamo sorpresi dal piacere). Il piacere è un eccesso
cui noi cediamo soltanto nostro malgrado.
1
L’esperienza è ciò che mette in crisi la categoria stessa di soggetto.
2
Jean-Luc Nancy, Il senso del mondo, Milano, Lanfranchi editore, 1997 (p. 165).
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Il piacere è anche un modo di stare nel tempo, una temporalità, una dimensione
temporale. Il problema del tempo è sempre un nodo difficile da dissipare, un enigma che
merita di essere rivelato (più che svelato, giacché svelare un enigma è sempre svilire un
enigma). Il piacere mette in gioco l’istante che si perde, si consuma, l’adesso che non
consente rimandi, rinunce, trattenimenti, esitazioni. È l’istante che si contrappone al
progetto salvifico, alla promessa (la promessa di riscossa, di riscuotere, di un riscatto, di un
risarcimento): il qui e ora, contro la pesantezza delle nostalgie del passato e delle
appropriazioni indebite del futuro.
Non credo che si possa fare del piacere una bandiera, una religione, una risposta, e credo
che il piacere sia fondamentalmente indifendibile. Non credo sia nemmeno possibile vivere
una vita interamente ed esclusivamente nella dimensione del piacere, anche perché non
ritengo sia eliminabile (e nemmeno auspicabile eliminare) la dimensione produttiva
dell’esistenza: quello che credo è che produttività e piacere siano (un po’ come conoscenza
oggettiva e sentimento, come attività e passività) due forze interne all’essere umano,
connaturate ad esso e quindi di principio ineliminabili. Ritengo che un essere umano senza
uno di questi due elementi, senza una di queste due forze, senza una di queste due
dimensioni, (sempre ammesso che possa esistere) sarebbe un essere umano mutilato,
monco, troncato in uno dei suoi aspetti più intimi. Non credo sia più umano (o più
rappresentativo dell’umano) il piacere rispetto al lavoro, ma nemmeno viceversa… Credo
però che il nostro tipo di società, e il nostro tipo di cultura che la difende e la sostiene,
abbiano promosso, enfatizzato, esaltato, la dimensione produttiva (ed escatologica), e per
contro abbiano biasimato, colpevolizzato, dimenticato, nascosto, condannato, sminuito (o
comunque travisato) la dimensione del piacere.
Il piacere ha a che fare con la vita. Le pulsioni vitali infatti richiedono un enorme (e per
molti versi ingiustificato) dispendio di energia: un vero e proprio spreco. Inoltre c’è
un’eccedenza costitutiva nella vita, un’esuberanza che ci impedisce di oggettivarla
(malgrado il nostro tentativo di controllarla e normalizzarla). La vita tende all’eccesso,
all’anarchia. Come il piacere, essa è un puro accadimento: succede, insiste, avviene. La
vita è essenzialmente movimento, irrisarcibile perdita: tentare di afferrarla, di fissarla, è già
tentare di negarla. Per questo, al di là di ciò che si propone esplicitamente, la logica
immunitaria vorrebbe preservarci dalla vita stessa. Così il tentativo della biopolitica di
fondare la vita, di darle una forma, di darle un senso, non è che il tentativo di espellerla dai
corpi, in quanto eccedenza, per creare dei corpi perfetti. La biopolitica, in nome della vita,
vorrebbe sacrificare la vita stessa, promettendo in cambio stabilità e continuità. Così la
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produttività rappresenta anche un tentativo di normalizzare, di regolamentare il movimento
(di per sé caotico, disordinato e sincopato) della vita. Ogni vita infatti è,
contemporaneamente, piacere e dovere, ossia caotica e irrefrenabile danza, e fonte di
profitto: la società tenta di estirpare l’eccesso, l’elemento osceno, l’indecenza della vita per
poterne fare un’efficace strumento di profitto, ossia perché essa non si perda, non si
consumi. Ma in questo modo, con la scusa di dare dignità alla vita, e di proteggerla da se
stessa, dal proprio scomporsi e consumarsi, il potere sacrifica la vita in nome della
sopravvivenza.
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1. La fragilità affettiva: P. Ricoeur
1
Trovo veramente interessante e assolutamente appropriato che il tema del piacere sia
stato “racchiuso” da Ricoeur nel capitolo dedicato alla fragilità affettiva. Come dire che
parlare di piacere è parlare di fragilità e di affetti, come una specie di punto debole o
qualcosa che ci affligge, qualcosa da cui siamo presi, invasi, investiti: si tratta di qualcosa
che possiamo provare, sentire, solo a patto di lasciarsi prendere (più che di afferrare e
capire), ed ogni piacere è in fondo qualcosa come una ferita, uno squarcio, una debolezza
manifesta, un cedimento. Del resto, la capacità di provare piacere, è interamente
condizionata alla capacità di essere affetti, di patire: se fossimo infallibili, completamente e
costantemente presenti a noi stessi, senza buchi, se fossimo pura volontà e calcolo, se
avessimo il pieno controllo di noi stessi e di ciò che ci succede, se non fossimo altro che
sovranità soggettiva agente, non ci sarebbe possibile alcun piacere. Il piacere agisce
proprio là dove non siamo più padroni di noi stessi, se e nella misura in cui il soggetto
razionale composto ed efficiente ha un cedimento; altrimenti il calcolo dell’utile, del
convenevole e del conveniente, preoccupati innanzitutto di immunizzarsi di fronte al
rischio, alla perdita, e all’instabilità, impediscono di fatto l’accesso a quella particolare
ferita che è il piacere. E in effetti, una delle cose che più mi hanno incuriosito e insospettito
in questo studio, è proprio l’atteggiamento di difesa che caratterizza ogni riflessione
intorno al piacere (perfino di quelli che si proclamano suoi apologeti, come i famigerati
edonisti epicurei, o il loro corrispettivo contemporaneo Michel Onfray
2
): ovunque e
sempre il piacere evoca una sensazione di pericolo, in esso è inscritta come una minaccia
latente, che impone prudenza e spirito vigile per chi vi si avvicina con sincerità senza
l’intenzione di demonizzarlo o condannarlo.
Il celebre dualismo soggetto-oggetto che contraddistingue e fonda la conoscenza,
manifesta una incolmabile frattura fra io e non-io, fra io e altro, ovvero tra io e mondo,
frattura di cui la parola, con la sua ambiguità di fondo e la sua incapacità di aderire alle
cose designate come pelle sulla carne, costituisce insieme il simbolo e il sintomo
esemplare. Il conoscere oggettivo è movimento di appropriazione che non può affondare
nelle cose ma solo misurarne la distanza.
1
Questo capitolo fa riferimento esplicito e costante a Paul Ricoeur, La fragilità affettiva, in ID., Finitudine e
colpa,libro primo, cap. quarto, Bologna, Il Mulino, 1970, pp. 163-181.
2
Michel Onfray, Teoria del corpo amoroso, Roma, Fazi Editore, 2006. Onfray sarà oggetto di trattazione più
specifica nel terzo capitolo di questo lavoro.
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Fragilità e passività sono luoghi del sentire umano, luoghi in cui il soggetto non è tale in
quanto agisce, bensì in quanto è agito, in quanto patisce, in quanto “è soggetto a…”. La
dinamica stessa del sentire sfugge al controllo e al sapere tradizionale
1
, e apre lo spazio per
una questione fondamentale: in che rapporto sta la fragilità affettiva (e quindi il piacere
stesso), con la conoscenza? Che rapporto c’è tra il sentire e il sapere? Se il conoscere
istituisce (o è istituito) da una frattura (tra io e non-io, tra io e mondo), il sentire è invece
“manifestazione di una relazione col mondo che restituisce incessantemente la nostra
complicità, la nostra inerenza, la nostra appartenenza”
2
, come dire che siamo nel mondo, e
che nel sentire c’è contatto, contingenza, partecipazione, oppure, meglio ancora, il sentire
stesso è istituito (o istituisce) la prossimità di io e mondo, la compassione inestricabile,
quasi incapace di parlare, che non dice quanto tocca e affonda nelle cose senza possibilità
che tale affondo possa mantenere illeso, impassibile, intatto ogni uno complice di questo
affondo; e dico complice per sottolineare l’indecidibilità tra chi compia e chi subisca
l’azione, tra agire e patire, in questo affondo che mescola affondare ed essere affondati,
dove l’uno non può mai darsi senza l’altro. La prima inquietudine sembra derivare proprio
da questa prossimità e da questa ambiguità tra il fare e il subire un evento, una situazione:
la passività stessa, in tutti i suoi sensi, è qualcosa che ci angoscia, come una specie di
rischio incalcolabile nascosto dietro ad ogni azione, che ci ricorda e ci sussurra che le cose
ci possono capitare, che non ci possiamo fare niente, che non possiamo controllare, gestire,
calcolare la nostra vita: che essa ci sfugge, per lo più, e ci trascina, e ci sorprende. Se il
conoscere oggettivo è caratterizzato (o per lo meno vorrebbe esserlo) da distanza, distacco,
oggettività, neutralità, polarità, il sentire invece presuppone sempre contatto, contingenza,
partecipazione, compassione inestricabile. Essere affetti, patire, significa essere implicati:
nel sentire è implicita l’impossibilità di affondare nelle cose e risalire da questo affondo
intatti, illesi, puliti, riemergendo asciutti, perfettamente pettinati (come nei migliori film
d’azione); come dire che non è possibile penetrare rimanendone fuori…restando immuni,
neutri…. Mentre la conoscenza oggettiva insegue l’ideale del portatore sano, che trasforma
il mondo e le cose senza venire esso stesso trasformato (senza implicazioni), la fragilità
affettiva testimonia dell’impossibilità di ferire senza macchiarsi di sangue,
dell’impossibilità stessa di ferirsi senza sanguinare, o senza provare alcun dolore.
1
Paul Ricoeur, La fragilità affettiva, p. 167: “L’aspetto affettivo…sprofonda in un’indicibile oscurità”; e p.
168: “A questa relazione col mondo, irriducibile ad ogni polarità oggettuale, possiamo bensì dare un nome,
ma non possiamo afferrarla in sé”.
2
Ibid., p. 168.