2Toutefois, nous ne considérons pas ces formes (quelle dell’arte médiévale n.d.r.) du même re-
gard que ceux qui les premiers les virent. Pour nous, ce sont des œuvres d’art, et nous n’en at-
tendons, comme de celles qui sont créées de notre temps, qu’une délectation esthétique. Pour
eux, ces monuments, ces objets, ces images étaient en premier lieu fonctionnels. Ils servaient.
Dans une société fortement hiérarchisée, qui attribuait à l’invisible autant de réalité et davan-
tage de puissance qu’au visible et qui n’imaginait pas que la mort mît un terme au destin indi-
viduel, ils remplissaient trois fonctions principales. 4
Lo storico francese prosegue poi indicando quali, a suo giudizio, sarebbero state le tre
funzioni principali dell’arte medievale: l’offerta a Dio (o ai santi, ai defunti) per propi-
ziarsene l’indulgenza e i favori, la mediazione con l’aldilà del quale le opere d’arte
intendevano essere un pallido riflesso, e, infine, costituire, in qualche modo, una
“affirmation de puissance”. Queste considerazioni, seppur valide in generale per tutte le
arti figurative, sembrano particolarmente calzanti se si considera, in particolare,
l’architettura; questa, tra le varie forme artistiche, è forse quella che più è radicata nel
contesto storico, per la complessità delle tecniche e dei metodi ad essa inerenti e gli stretti
legami che la produzione architettonica ebbe con le singole personalità e i gruppi sociali
ai quali erano destinati e di essa fruirono per periodi storici anche abbastanza lunghi.
Queste sono le ragioni fondamentali per le quali lo studio dell’architettura deve
necessariamente travalicare la mera attenzione ai caratteri specifici del linguaggio
architettonico, dell’architettura come linguaggio, come sistema di segni; lo sforzo di
costruire una teoria semiotica dell’architettura 5 è certamente lecito, ma lo studio
dell’architettura, come disciplina, parte necessariamente dall’analisi dell’intenzionalità,
spesso di natura pratica (quindi calata nella realtà storica) che ha presieduto alla
progettazione o alla ristrutturazione di ogni edificio secondo canoni architettonici, cioè
entrare nel vivo di processi, eminentemente storici, gli attori dei quali sono, con diversi
gradi di responsabilità, essenzialmente la committenza, i gruppi sociali a vario titolo
interessati e chi sovrintendeva materialmente alla costruzione degli edifici; in qualche
raro caso uno di questi ultimi poteva ambire a rientrare nella categoria paolina del sapiens
architectus 6. Ne segue che non è possibile prescindere dai tre fattori principali che
intervengono, in generale, nella definizione di una qualsiasi architettura; ma a maggior
ragione se si tratta di un luogo di culto, secolare o monastico 7:
3 funzione; è il motivo istituzionale: si tratta di stabilire se l’edificio ecclesiastico che
si sta analizzando sia una cattedrale, una pieve, un oratorio oppure un monastero,
una cella monastica.
Destinazione; si tratta di individuare le categorie di utenti per le quali l’edificio di
culto è stato progettato; gli utenti sono diversi a seconda del quadro istituzionale. È
appena necessario osservare che, entro un edificio sacro, venivano sempre previsti
spazi determinati per determinate categorie di utenti.
Uso liturgico; la valutazione di questo fattore implica che si abbia la possibilità
concreta di conoscere quali fossero gli aspetti liturgici delle funzioni sacre che ve-
nivano celebrate in una certa chiesa. È ben noto che ciò non accade sempre e che
spesso occorre invece cercare di leggere la liturgia nell’architettura dell’edificio.
In altri termini, appare evidente che se si vuole comprendere il senso di una architettura,
esistente o, ancor più, di un’architettura della quale rimangono poveri resti, cioè se si vuo-
le fare della corretta filologia, non basta applicarsi alle strutture murarie rimaste, o alle
testimonianze archeologiche giunte fino a noi o faticosamente ritrovate, occorre mettere
insieme ragionamenti che tengano conto di tutte le fonti delle quali si può disporre, di
qualunque natura esse siano, e di estrarre da questo panorama disperso e vario una sintesi,
di fare cioè un’opera di storico, condotta secondo le concezioni e i metodi degli storici.
Ciò non significa evidentemente che i confini fra i vari campi in cui spazia l’interesse de-
gli storici, dall’analisi delle istituzioni alla storia della spiritualità, alla storia della cultura
nelle sue varie manifestazioni, fra cui quelle artistiche, debbano sbiadirsi fino al punto da
far rientrare queste ricerche nella categoria astratta “ricerca storica” senza alcuna altra de-
terminazione. Certamente la specificità dell’obiettivo di una ricerca deve orientare il tipo
di ascolto delle fonti, di qualunque natura esse siano; ma le metodologie con cui gli stessi
obiettivi vengono perseguiti, quelle sì, dovrebbero essere impostate con gli stessi criteri
qualunque sia, in concreto, l’obiettivo della ricerca storica.
Sembra ragionevole ritenere che queste considerazioni possano applicarsi, in senso
lato e con le dovute cautele, a ogni ricerca che abbia come obiettivo la storia
4dell’architettura del passato; è altresì evidente che appaiano ancor più valide per il perio-
do storico che si intende considerare nel seguito, del quale stati definiti i confini temporali
all’inizio di questa trattazione (cioè quello, in sostanza, dell’architettura monastica pre-
carolingia) e per il tipo di complesso architettonico cui si intende rivolgere l’attenzione: il
monastero. Anche perché è ovviamente arduo, e forse storicamente scorretto, studiare,
rispettando i confini disciplinari moderni, un prodotto culturale di un’epoca che ragionava
secondo categorie mentali completamente diverse dalle nostre e che tutte comunque or-
ganizzava in una sintesi governata da una concezione della realtà di tipo prettamente reli-
gioso.
La storiografia relativa all’architettura monastica
Dalla metà dell’Ottocento innumerevoli studiosi si sono dedicati a studiare
l’architettura monastica nel suo complesso, o per singoli periodi, per singola area geogra-
fica, oppure si sono applicati allo studio monografico di singoli monumenti. Per cercare
di isolare in questa enorme massa di contributi le linee concettuali lungo le quali si sono
collocati i contributi della maggior parte degli studiosi, cominceremo a concentrarci, al-
meno in questa prima fase in cui ci si limita essenzialmente a un’analisi di carattere sto-
riografico, su quelle opere che hanno cercato di inquadrare l’architettura monastica nel
suo complesso e partendo da concezioni del tutto generali. A tale proposito, prima di pro-
cedere oltre, conviene subito precisare che, tenendo soprattutto in considerazione i limiti
temporali entro i quali si intende circoscrivere la ricerca, per “architettura monastica” in-
tenderemo in seguito l’insieme degli edifici in cui i monaci hanno esperito fino in fondo
gli aspetti spirituali e materiali della forma di vita da essi prescelta. Si intende in sostanza,
anziché calare definizioni astratte su una realtà ricca e multiforme, di ascoltare, attraverso
le fonti - entro i limiti nei quali queste lo possono consentire -, quanto i monaci stessi, nel
volgere dei secoli, hanno ritenuto di affermare riguardo agli spazi, chiusi o aperti, che essi
hanno abitato, nel senso più pieno di questa parola. Questo modo di intendere e definire il
5concetto - architettura monastica - acquisterà un significato più pregnante nel prosieguo
della discussione.
Se ci rivolgiamo dunque soltanto agli autori che hanno studiato gli aspetti più gene-
rali dell’evoluzione dell’architettura monastica, escludendo quindi le ricerche di carattere
più monografico (anche se a qualcuna di queste, ovviamente, si farà riferimento nel segui-
to per trattare problemi specifici), è utile seguire le bibliografie riportate
dall’Enciclopedia dell’Arte Medievale alle voci “abbazia”, “chiostro” e “benedettini” (ar-
chitettura)”; nonché l’estesa ricerca di R. Legler sul chiostro 8 9, una forma architettonica
che è stata indagata da questo autore come un “Bautypus” dell’architettura monastica 10.
Lo studio della storia dell’architettura monastica può farsi risalire al contributo di Albert
Lenoir 11, “Architecture monastique”, del 1852; già questo semplice dato cronologico ci
permette di formulare alcune considerazioni. Le fonti sulle quali si appoggia una consi-
stente parte della storia dell’architettura monastica altomedievale sono state edite, in mol-
ti casi, dalla seconda metà del XIX secolo; per esempio, nella più imponente collezione di
fonti medievali, i Monumenta Germaniae Historica, i testi fondamentali, per gli scopi che
qui ci interessano, della raccolta Scriptores rerum Merovingicarum sono apparsi solo fra
il 1884 e il 1920; così come, solo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento l’esegesi
dei testi - narrativi e normativi (le “Regole”) - ha prodotto, specialmente ad opera di
Friedrich Prinz e Kassius Hallinger, analisi rigorose e approfondite sulle vicende del mo-
nachesimo in età merovingia 12 13 e ha gettato una nuova luce sui processi storici che han-
no condotto alla lenta e graduale affermazione della Regola di Benedetto nel mondo mo-
nastico altomedievale occidentale 14. Se a ciò si aggiunge che l’archeologia medievale ha
cominciato a produrre risultati scientificamente fondati sull’impiego di metodi stratigrafi-
ci rigorosi a partire dall’ultimo trentennio del XX secolo e che, per i periodi precedenti, si
dispone di risultati scarsi e spesso documentati in modo incerto, non ci si può meraviglia-
re che la storiografia dell’architettura monastica sia stata profondamente influenzata dal
fatto di disporre di un tessuto a maglie molto larghe di fonti e di rarissime edizioni di sca-
vi, nonché di lacerti murari a fatica riconoscibili nei monasteri esistenti che si presentano
oggi, in generale, in una veste che si avvicina a quella che avevano tra XI e XII secolo,
6ma che è stata, per di più, spesso ricostruita da “restauri” ottocenteschi mirati a riportare
strutture architettoniche monastiche a una purezza “romanica” esistente solo
nell’immaginario romantico. Da tutto ciò consegue che, in assenza di ogni altro dato cer-
to, dispiegandosi i monasteri, nella veste in cui sono giunti fino a noi e spesso così come
si presentavano agli occhi degli studiosi alla fine dell’Ottocento, quasi tutti intorno a un
centro ideale, il chiostro, gli storici dell’arte (anche quelli non propensi ad accettare l’idea
di un’evoluzione teleologica della storia dell’architettura) siano stati condotti, quasi natu-
ralmente, a chiedersi in quale momento e in quale luogo sia comparsa una struttura clau-
strale nell’architettura monastica; col tempo, perdurando la situazione di scarsità delle te-
stimonianze, archeologiche in primo luogo ma anche scritte, quasi tutte le ricerche sulla
storia dell’architettura monastica, specialmente di quella relativa ai primi secoli, si sono
perciò appiattite sul problema di individuare, nel tempo e nello spazio, l’origine del chio-
stro inteso come tipo architettonico. È necessario qui ribadire che queste valutazioni ri-
guardano più le trattazioni di carattere generale e meno le opere monografiche dedicate
alla descrizione di un singolo monumento. Del resto, come si è verificato anche in altri
campi della ricerca storica (per esempio, negli studi relativi al processo di formazione dei
comuni cittadini nell’Italia centro-settentrionale), è inevitabile che, trattandosi di indagini
relative ad aspetti profondi del Medioevo latino-germanico, si siano rapidamente delinea-
te due concezioni che si differenziavano essenzialmente nell’attribuzione di una paternità
“latina” piuttosto che “germanica” alla presunta nascita dell’idea di chiostro; concezioni
che si sono perpetuate quasi fino al tempo presente. A tale proposito, così E. Occhipinti
descrive in modo sintetico la situazione della storiografia, per quanto riguarda il Medioe-
vo, alla fine dell’Ottocento 15:
Nel complesso, però, la storiografia medievistica mise in luce la sua maturità di scienza. Il ri-
gore documentario non escludeva tuttavia la pluralità dei punti di vista e delle interpretazioni.
Se da un lato la storiografia tedesca con Georg Waitz (1813-86) individuava nella cultura
germanica gli elementi originali posti a fondamento dell’Europa e riconosceva nelle classi
dominanti germaniche un soggetto capace di rielaborare in maniera creativa la tradizione ro-
mana, dall’altro lato la storiografia francese con Numa-Denis Fustel de Coulanges (1830-89)
attribuiva all’Europa un impianto romano, rinvigorito nel rapporto tra la componente francese
e l’aristocrazia senatoria gallo-romana.
7Per una migliore comprensione delle idee che sono state finora discusse è utile riferirsi a
un brano di un testo, L’arte del Medioevo 16, di Julius von Schlosser (1923); il brano in-
troduce la trattazione che l’autore citato dedica alle fonti della storia medievale e lascia
filtrare in controluce una concezione della storia dell’architettura monastica, da questo
stesso autore sviluppata in un’altra opera 17, che mostra chiaramente come i limiti nella
conoscenza delle fonti avessero segnato profondamente i confini culturali entro i quali le
stesse concezioni dell’autore erano state costrette a formarsi:
Tra le fonti dirette stanno in primo piano le opere architettoniche, soprattutto, specialmente
per il primo Medioevo, quelle ecclesiastiche, le quali, conformemente al carattere dell’epoca
che abbiamo illustrato, si impongono quasi sole alla nostra considerazione, e per larghi tratti
rappresentano la vera e propria storia dell’architettura del Medioevo. Di più, esse contengono
in sé, soprattutto quando si tratta di quei grandiosi complessi che sono le antiche basiliche e le
cattedrali romaniche e gotiche, buona parte delle opere delle arti sorelle (pittura, scultura
ecc.), le quali solo lentamente e quasi contro volere si distaccano dall’architettura. … Una
forma d’architettura altamente significativa per il Medioevo è rappresentata dalla più antica
casa di abitazione a carattere religioso: i monasteri. Chiaramente definiti nella loro struttura
appaiono quelli occidentali, assai più inorganici e incerti quelli orientali. Pur essendosi diffe-
renziati dalle costruzioni sacre dell’epoca paleocristiana, i monasteri conservarono invariato
fino alla fine del secondo grande periodo della storia mondiale, la Rivoluzione francese, il lo-
ro caratteristico interno, il chiostro, antichissimo motivo ellenistico-orientale.
Si nota innanzitutto che viene fatto esplicito riferimento a “le antiche basiliche e le catte-
drali romaniche e gotiche”, questi erano i soli tipi di edifici dei quali l’autore poteva aver
avuto esperienza diretta, edifici peraltro separati da parecchi secoli apparentemente, per
lui e in parte anche per noi, vuoti. Condizione che influenza evidentemente il successivo
giudizio sull’evoluzione dei monasteri; per affermare, contro ogni evidenza archeologica
e sperimentale, una assai discutibile maggior “definizione” dei monasteri occidentali ri-
spetto a quelli orientali, sembra ragionevole ritenere che l’autore fosse forzato a istituire
un confronto mentale tra monasteri orientali tardoantichi e monasteri occidentali del pie-
no Medioevo (XI-XII secolo) dei quali poteva aver avuto esperienza diretta; monasteri
cui comunque però attribuisce un’evoluzione architetturale finalizzata essenzialmente alla
conservazione e alla trasmissione della tipologia claustrale “antichissimo motivo elleni-
stico-orientale”.
8Quando, nel 1889, von Schlosser diede alle stampe la sua dissertazione dal titolo
Die abendländische Klosteranlage des früheren Mittelalters poteva far riferimento soltan-
to a pochi lavori anteriori: quello di Albert Lenoir Architecture monastique (1852), di
Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l’Architecture Française du XIe au XVIe
siècle (1858-1875) nonché al contributo di J. Neuwirth, Die Bautätigkeit der
alamannischen Klöster St. Gallen, Reichenau und Petershausen (l884). Eppure era già
possibile, in queste primissime fasi, individuare le due tesi che avrebbero costituito il
fondamento della quasi totalità dei contributi che si sarebbero dipanati poi nell’arco di
circa un secolo: la prima, basata sulla continuità che avrebbe caratterizzato l’evoluzione
dell’architettura monastica a partire dalla Tarda Antichità, riguardandola quindi come il
portato della tradizione architettonica di matrice ellenistico-romana (quindi, in definitiva,
“latina”) contro la seconda, basata invece sul concetto di una qualche “rottura”, in qual-
che modo risultato degli apporti culturali germanici che si sarebbero innestati, soppian-
tandola, su una morente cultura antica; è appena necessario notare che l’età carolingia (la
“rinascenza” carolingia) apparve, nel prosieguo degli studi, dotata di tutti quegli elementi
di plausibilità storica che la qualificavano a rappresentare questo momento di rottura.
La linea della rottura, che considerava quindi il chiostro come un’invenzione me-
dievale ebbe subito un autorevole rappresentante in Viollet-le-Duc che, pur isolato, aveva
affermato che il chiostro stesso è, in senso proprio, un’architettura medievale: “Il doit y
voir une transition qui nous échappe, faute de monuments décrits ou bâti existant encore
... Cette disposition et le hauteur des colonnes caractérisent nettement le cloître
d’Occident, et en font un monument particulier qui n’a plus de rapports avec des cours
entourées de portiques des Romains” 18. Dopo un periodo nel quale ebbe una scarsa for-
tuna, questa tesi - in seguito anche gli studi di F. Prinz e K. Hallinger, cui si è già accen-
nato, relativi alla diffusione della regola benedettina - venne, opportunamente dettagliata
e arricchita, a costituire il centro delle argomentazioni di W. Braunfels e di R. Legler 19.
Su posizioni fondamentalmente simili, anche se con qualche distinguo, venne a collocarsi
pure W. Horn al momento di esplicitare sinteticamente la propria opinione nella conclu-
sione di un suo contributo sull’origine dei chiostri 20:
9If I were pressed to state my views in unequivocal terms, I would say that in the form in
which it appears in Lorsch and is adopted as a paradigmatic solution in the Plan of St. Gall,
the U-shaped cloister with its galleried porches and its monastic houses tightly locked around
them is an invention of the Age of Charlemagne. Its development was dependent, for one, on
the rejection of the semi eremitic forms of living of the Irish monks in favour of the highly
controlled and ordered forms of communal living prescribed by St. Benedict. It was an answer
also, on the other hand to the need for internal architectural separation of the monks from the
monastic serfs and workmen, who had entered into an economic symbiosis with the monks,
when the monastery, in the new agricultural society that arose north of the Alps, acquired the
structure of a large manorial estate. So far we do not know of a single square-shaped western
cloister that antedates the reign of Charlemagne.
Poiché gli scritti di questi tre autori (W. Horn, W. Braunfels e R. Legler) rappresentano,
più o meno, lo stato dell’arte nel campo degli studi storici sull’architettura monastica,
specialmente per quanto riguarda il problema delle origini della forma architettonica
“chiostro”, la discussione, diretta o indiretta, delle loro posizioni costituirà una buona par-
te della presente trattazione e quindi sarà ripresa in modo più puntuale, di volta in volta,
più avanti.
I sostenitori della linea della continuità partivano da alcune considerazioni la cui
forza sembrava inattaccabile. Innanzitutto la saldezza, la durata, la bellezza di alcuni rag-
giungimenti formali ponevano la tradizione architettonica di matrice ellenistico-romana,
quindi in definitiva mediterranea, su vertici che in nessun modo potevano essere avvicina-
ti da nessun altra tradizione culturale occidentale, né nell’Antichità né nella Tarda Anti-
chità. È sufficiente una conoscenza anche minimamente sommaria dei cento e cento siti
archeologici che affollano le coste del Mediterraneo o che si trovano nelle regioni finiti-
me per rendersi conto che la considerazione precedente non può essere seriamente revo-
cata in dubbio. Questa tradizione, inoltre, era essenzialmente di tipo urbano; le città, poste
sulle coste, o immediatamente vicine ad esse, costituivano la spina dorsale dell’Impero
romano e ciascuna di esse viveva in armonia con il proprio contado, armonia che si perse
per lunghi secoli nel Medioevo. Non ci si deve dunque meravigliare se la nascente gerar-
chia ecclesiastica, immediatamente dopo l’Editto di Milano, dispiegò sul territorio allo
stesso modo le sue istituzioni; i vescovi risiedevano quasi esclusivamente nelle città prin-
cipali e, per tutto il IV secolo, l’evangelizzazione del contado procedette in maniera e-
stremamente cauta, almeno in Occidente. Così pure le principali soluzioni architettoniche,
10
che erano state proprie delle istituzioni statali romane, furono adottate con poche modifi-
che dalle nascenti istituzioni ecclesiastiche.
Prima però di mostrare come queste considerazioni si traducessero in posizioni sto-
riografiche per quanto riguarda la storia dell’architettura monastica, è necessario, per
chiarezza, anticipare un’altra conclusione che sembra, considerando i raggiungimenti di
gran parte degli studi disponibili, altrettanto inattaccabile: in nessun singolo caso è stato
possibile, a nostra conoscenza, dimostrare una precisa intenzionalità dei committenti di
impostare la progettazione e la realizzazione di complessi monastici secondo canoni che
si rifacessero a monumenti antichi o tardoantichi 21. E ciò nonostante sia largamente noto
che buona parte delle fondazioni monastiche si fossero sovrapposte, nei tre secoli di cui
intendiamo occuparci, a preesistenti edifici, più o meno in rovina, romani o tardoromani.
Avendo presenti queste considerazioni ritorniamo ora alla storiografia
dell’architettura monastica; le teorie che intendevano presentare in modo dettagliato le
fasi secondo le quali si sarebbe passato dagli schemi architettonici tardoantichi alle strut-
ture monastiche occidentali si sono articolate mettendo in luce, di volta in volta, aspetti
diversi di questa presunta transizione. In primo luogo un peso determinante ebbe la cono-
scenza delle principali realizzazioni, in campo monastico, dell’architettura romana nelle
province, e soprattutto in Siria. Fin dal 1865 si impose all’attenzione degli studiosi il po-
deroso testo di Vogüé, Syrie Centrale, Architecture civile et religieuse du Ier au VIIe siè-
cle, che inaugurò un filone di studi che si sarebbe avvalso di una serie nutrita di contribu-
ti, fra i quali spiccano quelli di H.C. Butler 22 e infine di G. Tchalenko 23 alla metà del
Novecento. Questi lavori ebbero essenzialmente il merito, dal nostro punto di vista, di
mettere in evidenza un cospicuo gruppo di monasteri siriani che presentavano tutti una
pianta a carattere, in qualche modo, centrico; fra questi occorre ricordare almeno i mona-
steri di Shaqqa 24 (Figura 1), Ed-Deir 25 e Umm-es-Surab 26. In tutti e tre i casi gli edifici
monastici si distribuiscono lungo i lati di una corte circondata, su tre o quattro lati, da
portici colonnati; per quanto riguarda Ed-Deir si osserva che la corte occupa esattamente
la posizione dell’atrio nelle basiliche paleocristiane, cioè è posta davanti alla facciata (oc-
cidentale) della chiesa. È appena necessario rilevare che non è possibile qui definire la
11
corte “atrio”, o, meno che mai, “chiostro” perché non è agevole specificarne la destina-
zione o l’uso liturgico. Si potrebbe agevolmente immaginare come la conoscenza di que-
ste forme architettoniche, che si scaglionano quasi tutte fra il V e il VI secolo, sia potuta
pervenire in Occidente (basti pensare alle descrizioni dei semplici pellegrini o ai soggior-
ni che numerosi monaci, provenienti da varie regioni dell’Occidente, facevano presso le
comunità monastiche orientali, percepite come modelli autentici di vita monastica), tutta-
via non è stato mai possibile dimostrare, in concreto, come su questa stessa conoscenza si
sia potuta innestare un’effettiva volontà dei committenti di modellare, in tutto o in parte,
forme dell’architettura monastica occidentale su quelle orientali. Ciò nonostante, il fasci-
no indubbio esercitato dalle forme architettoniche dei monasteri siriani spinse von
Schlosser ad affermare: “In effetti i fondatori di monasteri in Occidente si sono, all’inizio,
collegati a un modello orientale. In questo senso, ha operato molto attivamente Giovanni
Cassiano. Nel caso dei monasteri rurali la struttura orientale rimane predominante fino
all’ottavo secolo.” 27 Nella successiva discussione si inserì, nel 1927, Joseph Fendel (Ur-
sprung und Entwicklung der christlichen Klosteranlage. Die frühmittelalterlichen Anla-
gen, 1927) riaffrontando di nuovo il problema attraverso il confronto fra le strutture mo-
nastiche altomedievali occidentali descritte da von Schlosser e Georg Hager 28 - che ave-
va recensito, criticandoli, nel 1901 i passi di von Schlosser che trattavano dei primissimi
monasteri occidentali - e le forme architettoniche orientali. Nella prefazione Fendel scris-
se: “Per quanto riguarda le strutture pre-benedettine siamo arrivati a una conclusione.
Dobbiamo accettare il fatto che quei monasteri che non vengono sistemati in edifici esi-
stenti, prendano per modello una delle strutture orientali.” 29 In seguito non mancarono
però di manifestarsi anche delle posizioni critiche, come quella espressa da R. Rey che,
riguardo alla possibilità di una diretta influenza orientale sulla formazione delle strutture
monastiche occidentali, osservò, non senza fondamento: “Est-il possible, dans ces ensem-
bles bien ordonnées, de découvrir l’origine du cloître proprement dit, tel que l’Occident
l’a conçu et propagé? Certain ont pense au portiques, continus ou discontinus, autour du
préau adjacent à l’église ou aux bâtiments réguliers. … Mais c’est toujours l’ordre disper-
12
sé qui règne ... Il y a plusieurs cours, il n’y a pas de cloître. Le cœur de la communauté
c’est le catholicon, la grande église située au centre du couvent.” 30
La difficoltà, tuttavia, di dedurre dall’impostazione sopra descritta una linea di svi-
luppo plausibile dell’architettura monastica occidentale spinse gli studiosi a ricercare altre
modalità secondo le quali questa architettura si sarebbe potuta sviluppare senza soluzione
di continuità a partire dalle forme architettoniche tardoantiche. L’attenzione degli storici
dell’arte si rivolse pertanto a quegli edifici romani, complessi, che si articolavano, più o
meno, intorno a un centro o, comunque, a uno spazio aperto; date le premesse non è sor-
prendente la constatazione che una notevole serie di studi abbia avuto per oggetto le nu-
merosissime ville romane scavate in ogni parte d’Europa, complessi urbano-rustici che si
dispiegavano attorno a uno o più peristili, e gli atri delle basiliche paleocristiane, che a
loro volta si collegavano all’atrio dell’architettura civile romana, sia pubblica sia privata.
L’elemento di connessione di tutte queste soluzioni architettoniche, la soluzione costrutti-
va da tutte impiegata con maggiore o minore eleganza, era evidentemente il portico co-
lonnato del quale la cultura ellenistica aveva contribuito a fare un elemento insostituibile
del paesaggio urbano e rurale (le ville) nel mondo mediterraneo.
La storia dei tentativi di stabilire una connessione fra il chiostro monastico e l’atrio
delle basiliche paleocristiane è molto corposa e lunga dal momento che occorre risalire
ancora una volta a von Schlosser; questi era giunto alla conclusione che l’origine delle
strutture architettoniche monastiche basate sui chiostri fosse da individuare nei grandi atri
colonnati delle basiliche paleocristiane 31. D’altra parte, la sua convinzione che le struttu-
re claustrali non si fossero sviluppate a partire dalle forme architettoniche proprie delle
ville romane si fondava sulla constatazione che in questi complessi non c’erano stati edi-
fici ecclesiastici, mentre invece gli atri si potevano trovare, più o meno frequentemente,
davanti alle grandi basiliche paleocristiane; questo tipo di argomentazione fu indebolito
osservando che, in realtà, i primi monasteri occidentali ospitavano piccoli gruppi di mo-
naci per i quali non sarebbero stati necessari oratori o chiese di grandi dimensioni, circo-
stanza poi ampiamente provata dagli scavi successivi, come vedremo in seguito.
13
Le conclusioni di von Schlosser tuttavia trovarono successivamente numerosi so-
stenitori; fra di essi, V. Flipo (1930) 32 e G. Bandmann (1949 e 1951) 33. Il primo di questi
studiosi ebbe a scrivere: “L’idée du cloître dérive de l’atrium chrétien qui précédait autre-
fois la basilique.” 34 Anche secondo G. Bandmann, che scriveva in tempi più recenti, sa-
rebbe possibile scoprire una connessione diretta fra l’atrio e il chiostro: “Con atrio si in-
tende, nell’architettura medievale, un qualcosa circondato in ogni direzione da edifici e
portici colonnati; è uno spazio aperto in alto davanti all’ingresso principale della chiesa.
Una simile definizione vale anche per chiostro (claustrum), solo che la sua diffusione è
limitata ai monasteri e alle collegiate.” 35 In un suo successivo lavoro, Mittelalterliche
Baukunst als Bedeutungsträger (1951), Bandmann trasse ulteriori spunti per rafforzare la
sua idea commentando la pianta, articolata, della “basilica di pellegrinaggio” di Tebes-
sa
36
(Figura 2); da una specie di corte in cui si intersecano, a forma di croce, due percor-
si, una gradinata monumentale conduce a un atrio che precede la chiesa. Tutto il comples-
so è circondato da una sorta di τέμενος. Dall’esame di questo insieme Bandmann traeva
la seguente conclusione: “Questa piazza antistante, che era posta vicina come un giardino
e che era intersecata da due percorsi a forma di croce, è una forma primitiva di chiostro
del quale rimane ancora oggi il residuo più antico, per scopo e struttura.” 37 Partendo dalle
varie configurazioni architettoniche che egli aveva potuto osservare nelle basiliche paleo-
cristiane in ambito mediterraneo, Bandmann cercò di costruire un ragionamento in grado
di far luce su un processo evolutivo che partiva dai recinti sacri (perìboli) e conduceva,
nelle sue intenzioni, ai chiostri medievali; dopo aver rilevato che, all’inizio
dell’architettura paleocristiana, lo schema, di matrice ellenistica, basato su una chiesa po-
sta al centro di uno spazio sacro era relativamente raro (“selten“), osservava che era inve-
ce molto più numeroso un gruppo di chiese, che pure continuavano una tradizione elleni-
stica, la facciata delle quali dava su uno spazio aperto mentre la restante parte
dell’edificio ne stava al di fuori. Egli così proseguiva: “Dunque la corte si trasforma in
atrio, in atrium, che si adatta molto meglio alle esigenze della liturgia e alla concezione
cristiana della chiesa. Che l’atrio non risulti niente di nuovo, bensì un residuo sempre più
sbiadito delle concezioni architettoniche ellenistiche, e sia da interpretare all’incirca come
14
una proiezione monumentale del portale principale della chiesa, lo dimostra la sua storia.
Non è affatto così ampiamente diffuso come i manuali vorrebbero far credere. … È una
caratteristica dei primi tempi paleocristiani l’aumentare della larghezza delle chiese; an-
che il fatto che il portico sulla facciata all’inizio non manchi mai e così la piazza risulti
centrata, ci fa pensare che l’atrio rappresenti il risultato del collassare del foro o del perì-
bolo. Anche qui ricompaiono le grandi strutture “claustrali” che tramandano fino
all’ottavo secolo specialmente le antiche reminiscenze della forma dei grandi atri.” 38
Dopo Bandmann persero vigore i tentativi di ricercare una connessione atrio-
chiostro basata in fondo soltanto sulla circostanza, idealizzata, di essere entrambi un tipo
di quadriportico e si affermarono invece le ricerche testuali e archeologiche, molto più
proficue e mirate, sull’atrio in quanto tale, sulla sua funzione, sulla sua destinazione, sugli
eventuali scopi liturgici 39. Tuttavia, pure in questa fase della storiografia caratterizzata da
un minore interesse per questa problematica, un’eccezione è rappresentata dall’autorevole
contributo di M. Mirabella Roberti 40 che, commentando l’atrio di San Lorenzo a Milano,
voleva vedervi una prova tangibile della connessione atrio-chiostro:
Mais, l’atrium de San Lorenzo présente un intérêt particulier pour notre. présente recherche.
Certains éléments encore existants et une gravure de 1608 … apportent la preuve que sur le
portique existaient une série de petites chambres auxquelles on accédait au moyen de deux es-
caliers inclus dans deux avant-corps de forme carrée, situés sur les deux côtés du petit porti-
que le plus proche de l’entrée principale, derrière les seize colonnes romaines. …. Ces petites
chambres n’ont pu servir de résidence qu’au clergé affecté à la basilique, à un xénodoque ou à
un monastère. Elles constituent ainsi un lien étroit entre l’atrium, antichambre de la basilique,
séjour de préparation spirituelle à l’accession au lieu du culte et la résidence de ceux qui
étaient affectés au service de l’église, variante moderne et fonctionnelle de l’antique «domus
ecclesiae». Le vaste enclos carré sur lequel s’ouvraient les petites fenêtres de ces chambres,
était à la fois atrium et cloître.
Con la citazione della conclusione del lavoro di M. Mirabella Roberti si chiude
l’esposizione delle posizioni della storiografia riguardo a una possibile derivazione dei
chiostri monastici dagli atri delle chiese paleocristiane e si passa un argomento a essa
strettamente collegato: lo studio dell’atrio in quanto tale. Il principale risultato di tali stu-
di, che è quello che qui interessa, è di avere dimostrato l’estraneità concettuale del motivo
architettonico “atrio” rispetto al motivo “chiostro”.
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Un punto di partenza degli studi sull’atrio, che hanno avuto un notevole impulso in
tempi recenti 41, può essere individuato nel lavoro di L. Joutz (1936), Der mittelalterliche
Kirchenvorhof in Deutschland; partendo dalla descrizione dell’atrio della basilica di Pao-
lino, vescovo di Tiro, che si trova nel X libro della Storia ecclesiastica di Eusebio di Ce-
sarea
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, Joutz osservò: “il classico atrio, posto davanti all’ingresso principale della chie-
sa, prefigura, per essere chiuso in tutte le direzioni da edifici e per avere sopra di lui uno
spazio aperto, le prove che la comunità deve attraversare per giungere nella casa del Si-
gnore.” 43 Egli prese anche una chiara posizione sul problema della presunta filiazione
delle forme claustrali da quelle degli atri, evidenziandone elementi di distinzione: “Innan-
zitutto si ricordi che il chiostro monastico (claustrum) è certamente affine all’atrio, tutta-
via presenta una forma architettonica diversa; all’atrio, in alcuni casi, corrisponde
all’inizio anche nella posizione rispetto alla basilica. Davanti al lato occidentale di alcune
basiliche monastiche c’era una corte, attorno alla quale si raggruppavano le celle dei sin-
goli fratelli, come i fabbricati rurali e quelli dedicati al culto (per esempio, come a Id-
Der). Successivamente questa posizione del chiostro scomparve per permettere ai fedeli
che appartenevano alla comunità parrocchiale l’accesso alla chiesa senza disturbare la vi-
ta monastica.” 44. Sulla diversa destinazione dei chiostri e degli atri intervenne in seguito
anche Rey che fece riferimento al caso particolare del monastero di San Martino di Tours,
definito “sanctuaire de pèlerinage”: “Il va de soi que l’atrium précédant la basilique
n’était pas un cloître, mais un refuge pour les pèlerins qui trouvaient asile dans les bâti-
ments adjacents.” 45 I più moderni studi sugli atri, fondati su analisi filologiche rigorose
dei testi e dei risultati degli ormai numerosi scavi archeologici, sono bene rappresentati
dal saggio di J.-C. Picard 46, L’atrium dans les églises paléochrétiennes d’Occident, e da-
gli atti del recente convegno di Auxerre 47, Avant-nefs & espaces d’accueil dans l’église
entre le IVe et le XIIe siècle. Un primo merito di questi approfondimenti è quello di aver
accertato che l’atrio non era destinato a raccogliere i catecumeni e i penitenti; conclusione
che gode ormai di un consenso quasi unanime; come pure non viene più revocato in dub-
bio il fatto che gli atri servissero molto spesso da area cimiteriale. Talvolta l’atrio poteva
fungere da elemento architettonico di raccordo fra la chiesa e un battistero, anche se sem-
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bra non essere stato mai, almeno in Occidente, un elemento essenziale dal punto di vista
liturgico. A parte ciò, l’atrio serviva essenzialmente a marcare, con la sua presenza spesso
monumentale, l’entrata della chiesa e a filtrarne gli accessi. In definitiva si trattava di un
motivo architettonico destinato a ospitare e a enfatizzare momenti di passaggio fisici o
spirituali: fra l’animazione degli ambienti cittadini e la raccolta atmosfera degli interni
delle chiese 48, fra il mondo profano e il mondo sacro, fra la morte corporale e la vita e-
terna. È agevole dedurre da ciò che il passaggio, che implica necessariamente un movi-
mento e, in certi casi, una metamorfosi 49, sia un qualcosa di un profondamente diverso
dalla stabilitas monastica, un concetto intrinsecamente associato a quello di una forma di
vita entro un claustrum, un recinto chiuso, qualunque sia poi la struttura architettonica
che permette di soddisfare questa esigenza.
Le evidenti somiglianze formali, anche se puramente esteriori, fra i peristili delle
ville romane e i chiostri monastici medievali hanno attratto, da lungo tempo, l’attenzione
degli studiosi nonché colpito la fantasia di coloro che si sono trovati a visitare le une e gli
altri. Fra gli studiosi che hanno voluto evidenziare la continuità di una tradizione comune
di cui farebbero parte, nelle rispettive epoche, i peristili e i chiostri è doveroso citare H.
Leclercq che, esaminando il chiostro che spicca al centro della famosa pianta di San Gal-
lo, osservava “Le grand intérêt du plan de ce Saint-Gall … est de nous montrer le monas-
tère occidental combinant les installations et les services de la villa romaine avec les
convenances et les nécessites monastiques. ... Le cloître est maintenant destiné à remplir
un rôle analogue à celui du péristylium dans l’ancienne maison romaine; il dessert les
lieux réguliers comme le péristyle desservait les «appartements nobles».” 50 Lo stesso au-
tore doveva però riconoscere, poco più avanti, che: “Aucun monument, aucun texte, à no-
tre connaissance du moins, ne nous a permis d’entrevoir la transition évidente entre la
maison romaine et le cloître monastique. Ce qui plaiderait en faveur de cette assimilation,
ce serait le caractère discret qui s’attache au péristyle dans lequel pénétraient seuls les pa-
rents et les amis et qui s’attache également au cloître réserve au moines et à de rares fami-
liers dont on peut répondre. Mais c’est là une ressemblance assez superficielle.” 51 Egli
esplicitava così la contraddizione fondamentale che indebolisce gravemente le teorie che