6
rimando al primo capitolo di questa tesi, si ripropone di recuperare questo potenziale
partendo dall’insegnamento nei confronti dei più piccoli.
Inoltre l’aggettivo “altra” sottende il rapporto con l’altro. Un elemento basilare della
danza educativa risulta infatti la relazione, cioè il rapportarsi con il compagno ed il suo
corpo, rispettando differenti creatività e modalità espressive. La socializzazione con il
“diverso” rappresenta un proposito fondamentale di questa disciplina,
indipendentemente dalla natura di tale diversità: un bambino può entrare in contatto
fisico o verbale con un compagno che differisce da lui in base all’etnia, al sesso, alle
capacità. Ciò che conta è che questo contatto, anche se non facile ed immediato,
avvenga e costituisca un input nella formazione di un gruppo coeso ed in grado di
lavorare insieme, di essere una squadra, di formare un’équipe per usare un termine
caro a Goffman. La relazione poi non si limita ai compagni ma, come vedremo
coinvolge anche figure adulte, quali la maestra di classe e la danzaeducatrice. In
questo caso la danza educativa può essere vista per il bambino come un’ulteriore
occasione, al di fuori della classe, di interagire con due tipologie differenti di
insegnamento e di insegnanti; la prima più vicina al ruolo di “autorità indiscussa” ma in
questo caso decontestualizzata, la seconda più vicina al ruolo di “presenza nuova”
docente di una “materia nuova”.
Il mio lavoro è stato quello di osservare da vicino questa materia nuova, rivestendo il
ruolo di etnografo, ed analizzarla con l’utilizzo di categorie prese in prestito dalla
sociologia classica e dalla sociologia della comunicazione. Per far ciò ho condotto
un’osservazione presso la Scuola Elementare Giovanni Prati di Vicenza per un periodo
di due mesi, assistendo al laboratorio proposto dalla danzaeducatrice Daniela
Rossettini intitolato “Lo spazio fantastico”. Munito della mia cassettina carica di “attrezzi
sociologici”, tra i quali i concetti di liminale/liminoide in Turner (1982), di realtà multiple
in Schutz (1962), di rituale in Durkheim (1912), solo per citarne alcuni, mi sono
avventurato all’interno della palestra della scuola, dove venivano tenute le lezioni di
danza educativa, e mi sono lasciato ispirare da quello che stava accadendo. Proprio
qui sta la peculiarità dell’etnografia: non sono partito con una rigida ipotesi da
confermare , ma con un’idea di fondo ed ho lasciato che questa maturasse in me poco
alla volta. Questo procedimento non mi ha portato a verità assolute, ma ad alcuni
spunti per interrogativi che ho potuto approfondire durante ed in seguito alla ricerca sul
campo.
Procedo quindi con un breve elenco di quali elementi della disciplina in questione ho
deciso ed ho cercato di approfondire nel mio elaborato: una sorta di dichiarazione di
7
intenti, che potrà fungere da mappa di riferimento per il lettore, mostrandogli i punti nei
quali ho deciso concentrare la mi attenzione.
In breve, mi ripropongo di:
1) capire il ruolo delle regole all’interno della danza educativa. Analizzare che tipo
di prescrizioni sono previste, da chi sono fatte rispettare, a cosa porta tale
rispetto e, viceversa, cosa accade a non rispettarle;
2) osservare le dinamiche rituali che la situazione propone ed i loro risultati.
Focalizzare l’attenzione sul maggiore o minore grado di produzione di energia,
fiducia,emozione.
3) studiare come si svolge l’interazione e si costruisce la comunicazione tra i tre
protagonisti della danza educativa, cioè i bambini, la danzaeducatrice e la
maestra di classe, utilizzando uno sguardo relazionale che si focalizzi sulle
azioni di soggettività diverse all’interno dello stesso spazio educativo.
Questi tre assi di riferimento non corrispondono precisamente ai capitoli dell’elaborato,
ma sono piuttosto degli argomenti trasversali che riemergono in vari punti della mia
trattazione. Quest’ultima è composta, a livello strutturale, da un primo capitolo
introduttivo, in cui illustro l’oggetto della mia ricerca, e da tre capitoli analitici in cui lo
prendo in esame con le categorie sociologiche sopracitate.
Detto questo, propongo dunque di addentrarci in questo territorio creativo tra corpo e
parola; un universo comunicativo di gesti, sguardi e sensazioni chiamato danza
educativa.
8
L’ A L T R A D A N Z A
Regole, rituali ed interazione nella danza educativa
9
PERSONE DANZANTI
La mia idea in fatto di danza
era che bisognava esprimere
i sentimenti dell’umanità
(Isadora Duncan)
10
1.1 Danzaeducando
La danza contribuisce all’educazione di ogni studente, poiché utilizza il
movimento, elemento fondamentale dell’espressione umana. L’impiego di elementi
di comunicazione non verbale permette loro di partecipare in un modo che
differisce da qualsiasi altra area di apprendimento. Questa area di esperienza
umana non dovrebbe essere ignorata da nessun curricolo aperto ed equilibrato.
(Gough 2002, 5)
Tra le varie interpretazioni che vengono date della danza primeggiano quelle che la
considerano come una forma d’arte, una traccia della cultura di un popolo, un
momento di spettacolo o di divertimento personale. Non va dimenticato però, che la
danza è prima di tutto un linguaggio non verbale emergente dal corpo e dalle relazioni
che questo instaura, tramite i sensi, col mondo che lo circonda. L’individuo ne è sia
strumento che creatore: strumento nel momento in cui si fa suggestionare da tale
linguaggio, creatore quando contribuisce alla sua produzione ed innovazione,
trasformando il semplice movimento in una manifestazione individuale, sociale ed
artistica. In tali trasformazioni sta la ricchezza di interpretazioni e di sfumature della
danza.
Nelle parole iniziali di Marion Gough si può cogliere invece un approccio che, senza
negare le precedenti sfumature, ne aggiunge una nuova al disegno complessivo:
quella che vede la danza come strada per la formazione della persona
1
tramite l’utilizzo
del suo linguaggio corporeo, capace di stimolarne la creatività oltre che di trasmettergli
delle competenze fisiche, di conciliarne lo sviluppo motorio con quello comunicativo.
In poche parole una danza educativa, cioè in grado di contribuire all’educazione di
ciascuno di noi. Educazione intesa etimologicamente come ex-ducere, cioè
“condurre/tirare fuori” dall’individuo qualcosa e non, paradossalmente, imporgli o
sedimentare in lui un modello standard: la danza non è fatta solo di scarpine, sbarre,
tutù e sorrisi di scena, come la tradizione accademica ci insegna ed il senso comune ci
suggerisce. Con ciò, sia ben chiaro, non è mia intenzione intraprendere una battaglia
antidogmatica nei confronti del passato di questa disciplina, ma solamente mostrarne
un lato potenzialmente sottovalutato.
1
Marion Gough parla di studente, ma nel medesimo testo dopo poche righe usa il termine ragazzo.
L’accezione del termine studente è quindi da intendersi come “inserito in un corso di studi o in un contesto
comunque scolastico”, da qui il suo invito alla danza nelle scuole rivolta ai bambini ed ai ragazzi.
11
In base a questo presupposto la danza può essere vista come momento di educazione
all’arte o meglio all’esperienza artistica
Le arti non servono solo per comunicare idee. Sono modi per avere idee, per creare
idee, per fare esperienze e modellare la nostra coscienza in forme nuove. (Calouste
Gulbenkian Foundation 1989, 22)
Continuo ad usare il termine educazione perché sottende la presenza di regole da
insegnare e rispettare, in assenza delle quali più che di danza potremmo parlare di
libertà motoria ad uno stato anarchico o animale.
È un po’ come quando definiamo una persona “educata”, nel senso di soggetto che ha
ricevuto un’educazione familiare o scolastica che gli permette di stare in compagnia
degli altri senza sembrare un selvaggio e lo aiuta nella gestione delle relazioni sociali.
Lo stesso avviene con l’educazione nella danza educativa: questa non si prefigge,
come la danza classica o accademica, di creare dei danzatori, ma delle persone
danzanti, anche se un approccio non esclude l’altro; non degli specialisti del galateo,
insomma, ma delle persone che sappiano stare a tavola decorosamente.
La danza educativa si preoccupa di offrire esperienze di esplorazione e di sviluppo
di sensibilità che possano essere utili e piacevolmente condivise sia da chi non si
dedicherà mai allo studio di uno specifico stile di danza, sia da chi deciderà di
farlo. (Zagatti 2004, 18)
La scelta dell’aggettivo “educativa” da parte della sua creatrice italiana, cioè Franca
Zagatti
2
(direttrice del centro Mousikè di Bologna), riguarda principalmente il contesto
in cui quest’attività, fin dai primi anni ’90, ha avuto luogo, cioè quello scolastico. Le
proposte di danza educativa vengono attuate sottoforma di laboratori all’interno delle
scuole primarie e secondarie, coinvolgendo diverse fasce d’età (dai 4 ai 13 anni).
Il laboratorio di danza educativa è strutturato generalmente in una serie di lezioni
inserite all’interno dell’orario scolastico e tenute da un danzaeducatore. In genere la
durata complessiva si aggira attorno alle 10-15 ore annuali con lezioni settimanali da
un’ora, come nel caso della mia osservazione, ma vi possono essere laboratori più
2
La stessa Zagatti sottolinea l’ambiguità concettuale del termine. Ogni tipo di danza, infatti, possiede una
componente educativa, cioè non esiste una danza “non educativa”. Il successo di tale aggettivo sta nel
fatto che è immediato, “arriva”, sottolinea con un etichetta la valenza formativa di questa danza ed il
contesto in cui viene proposta.
12
brevi (4-5 ore) o più lunghi (30 ore). Viene operata in base ai tempi ed al progetto
scolastico una scelta di metodologie didattiche adatte al contesto, che stimolino i
bambini tenendo conto del percorso intrapreso in classe con le insegnanti delle varie
materie. Queste sono libere di accettare o meno l’esperienza del laboratorio.
Alle maestre di classe che accettano, nella maggior parte dei casi, è rivolto un corso di
aggiornamento condotto dal danzaeducatore per “sensibilizzarle” nei confronti di
questa nuova disciplina ed esporre loro le proposte del laboratorio. Di solito, all’interno
di questo, è prevista la presenza di un tema conduttore, nel caso della mia
osservazione si è trattato della storia di Pippi Calzelunghe, che collega tra loro le varie
lezioni. Il soggetto scelto può essere più o meno aderente al programma scolastico
della classe, questo dipende dall’età dei bambini/ragazzi e dalle idee del
danzaeducatore; può capitare di lavorare con scenari tratti dalla favola o dal mito,
come di ripercorrere con l’aiuto della danza educativa un episodio storico realmente
accaduto, ad esempio una battaglia degli antichi Romani.
A volte, oltre alla sequenza delle lezioni, è contemplata una rappresentazione finale
che può essere richiesta dalla scuola o proposta dal danzaeducatore. Sotto il termine
rappresentazione si celano però due performance differenti: la lezione dimostrativa e lo
spettacolo. La prima, detta anche “lezione a porte aperte”, consiste in una
dimostrazione riassuntiva, presentata in palestra ai genitori degli allievi, del lavoro
svolto durante il laboratorio. Lo spettacolo, che invece presuppone una
alfabetizzazione maggiore dei bambini alla materia ed uno spazio scenico adatto (per
esempio un teatro), è maggiormente orientato verso una performance coreografica e
prevede l’uso di costumi, la cura delle luci e l’attenzione a nessi narrativi non sempre
così curati nella lezione dimostrativa. Ciò che differenzia queste due modalità di
rappresentazione in sostanza è l’apparato formale in quanto la matrice dei contenuti è
la medesima: sono due tra le varie espressioni che la danza educativa permette
3
.
La figura di riferimento da cui dipende in buona parte l’esito del laboratorio è quella del
danzaeducatore. Egli deve sapersi relazionare con la maestra e con la classe. Nei
confronti della prima deve instaurare un rapporto, o meglio un patto, collaborativo, che
prevede, sempre nel caso questa scelga di collaborare attivamente, un aiuto ed uno
scambio di opinioni reciproco sull’andamento della lezione. Nei confronti dei bambini
3
Resta ancora da chiarire quanto sia insito nello “spirito” di tale disciplina il fatto di mettere in
scena/rappresentare degli esercizi e quindi dover tenere conto di una serie di obbiettivi che superano
quelli didattici relativi all’insegnamento e diventano scenici in senso stretto, in primis il fatto di avere un
pubblico.
13
viene attuato un patto performativo, che implica l’attenersi a determinate regole, come
quella del silenzio o del rispetto per il compagno e per l’insegnante, che permettono di
svolgere in condizioni ottimali gli esercizi proposti. L’attenzione del danzaeducatore
non è tuttavia catalizzata solo sul corretto svolgimento della performance/esercizio. A
differenza per esempio di un professore di matematica che interroga gli alunni sulle
tabelline, il suo interesse non concerne tanto il risultato quanto il procedimento
Insegnare in un laboratorio di movimento non significa fornire ai bambini gli
strumenti per tradurre in movimento una consegna verbale, significa piuttosto
fornire stimoli, approntare situazioni, nelle quali i bambini possano osservare e
conoscere il mondo che li circonda attraverso le emozioni che questo fa nascere in
loro ad esprimere tali emozioni attraverso una serie consapevole di movimenti.
(Zagatti 2004, 28)
Da queste parole si può cogliere che l’obbiettivo del danzaeducatore è quello di
suscitare nel bambino un procedimento corporeo ed emotivo che faciliti la sua
espressione.
Ma come si fa ad insegnare in questa prospettiva educativa? In che modo si possono
stimolare la sensibilità del bambino ed ex-ducere , tirare fuori, qualcosa da lui e dal suo
corpo?
La soluzione sta nel ribaltamento dell’approccio alla conoscenza dei bambini: invece
che comunicare delle verità, l’insegnante proporrà loro dei quesiti sui quali ragionare,
incoraggiando risposte in termini di movimento. Come detto prima non è la soluzione
ma il percorso scelto ciò che interessa. Se si chiede ai bambini “Come fa una foglia a
cadere dall’albero ed arrivare fino a terra?” non li si mette davanti ad un problema che
prevede una risoluzione univoca, un risultato, una risposta giusta. In realtà si va a
stimolare la loro osservazione di traiettorie e dinamiche espresse da una “foglia
cadente”, generando in loro intuizioni corporee e gestuali. Paradossalmente questa
pratica didattica è definita con l’espressione inglese problem solving, ma una
traduzione più adatta, che tenga conto di ciò che accade effettivamente, potrebbe
essere “stimolazione” o “stimolo creativo”.
Al danzaeducatore, infine, spettano alcune decisioni importanti per l’andamento del
laboratorio, tra le quali:
14
- la scelta delle musiche. La maggior parte degli esercizi prevedono l’impiego di
una musica di sottofondo per aiutare e sincronizzare i movimenti dei bambini.
Bisogna che sia adatta al tema della lezione o dell’esercizio, che non sia né
assordante né troppo bassa e che possibilmente sia strumentale; il cantato può
essere elemento di distrazione;
- la scelta del tema. Deve essere coinvolgente e abbastanza familiare,
soprattutto nel caso di bambini piccoli. Non è obbligatorio che sia una storia,
può essere anche un insieme di riflessioni su di una questione, per esempio la
divisione razziale, o sull’utilizzo di un oggetto, per esempio la scarpa. Il tema
viene generalmente supportato dalle proposte, cioè dagli esercizi: se questi
conquistano la classe il tema guadagna indirettamente validità agli occhi della
classe;
- la scelta delle parole e dei toni di voce. L’insegnante deve essere sentita dagli
allievi senza mai urlare, può usare vari registri vocali per trasmettere carica,
curiosità, dolcezza, rigidità in base all’esercizio. Cruciale è l’utilizzo di un lessico
facile e preciso, di modo da non dare luogo a fraintendimenti nel messaggio
rivolto alla classe.
Il danzaeducatore non ricopre un ruolo di “sostituto” didattico nei confronti dei docenti
scolastici; potremmo definirlo piuttosto come un mediatore artistico, nel senso che
attraverso le sue conoscenze
4
ed esperienze ha il compito di fare da ponte tra i
bambini e la danza, intesa primariamente come servizio formativo della persona.
Dopo questa panoramica generale passiamo ora ad approfondire strutturalmente
questo universo ancora seminascosto che è la danza educativa. Finora abbiamo
tracciato l’idea, l’ispirazione, “l’anima”, se così possiamo dire, di questa disciplina;
proviamo ora a dare un occhiata anche allo scheletro.
In sostanza, di cosa è costituita la danza educativa? Quali sono i suoi assi di
riferimento? Quali le sue finalità?
Per dipanare questa intricata matassa scelgo di avvalermi di alcuni schemi proposti da
Franca Zagatti nel suo libro “La danza educativa”.
Cominciamo dunque con l’elencare gli elementi principali della danza educativa:
4
Non c’è ancora in Italia un corso di laurea per formare questa figura. Spesso si tratta di insegnanti di
danza che ricorrono ad agenzie formative private per ottenere un diploma col quale lavorare nelle scuole.