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L’accesso al bene casa:
un nuovo strumento di Welfare
CAPITOLO PRIMO
“LA NUOVA SFIDA DELLO STATO SOCIALE IN ITALIA: DISOCCUPAZIONE
STRUTTURALE E PRECARIATO DELLE CONDIZIONI DI VITA E DI LAVORO
DELLE GIOVANI GENERAZIONI”
….
1.1 VULNERABILITA’ SOCIALE E CONDIZIONE GIOVANILE: QUALI RISCHI
SOCIALI PER I GIOVANI
La crisi e il cedimento dei sistemi nazionali di welfare, la crescente instabilità e difficoltà
di funzionamento della famiglia, istituzione centrale del tradizionale modello di società e
di welfare, e il tramonto del modello economico - fordista con la connessa de
standardizzazione del mercato del lavoro sono i tre processi di trasformazione che
complessificano il quadro generale dello stato sociale in Italia.
Punto di partenza della presente indagine, considerata anche la ratio istitutiva delle varie
misure di sostegno al reddito e di protezione sociale dell’individuo, non possono che essere
la disoccupazione, considerata nella sua poliedrica e mutevole fenomenologia, la
segmentazione del mercato del lavoro (a seguito della diffusione dei rapporti di lavoro
atipici) e l’invecchiamento della popolazione (con importanti ripercussioni generazionali
sui sistemi previdenziali).
I temi in esame, infatti presuppongono una serie di considerazioni preliminari su fenomeni
che, come qualsiasi altra manifestazione legata al contingente, devono essere intesi non
tanto nella loro dimensione prettamente “statica”, in qualità di mero dato statistico, quanto,
piuttosto, come realtà “dinamica” in continua evoluzione.
8
Nel caso della disoccupazione è noto, al riguardo, che la scarsità della risorsa – lavoro
disponibile sul mercato rispetto alla domanda occupazionale costituisce un dato di fatto
nella società post-industriale, specie se si concepisce il lavoro nella sua più tradizionale
accezione di occupazione stabile e a tempo pieno, secondo l’impostazione sottesa
all’assunzione del contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato quale
modello contrattuale predominante.
A rilevare, in particolare, è un tasso di disoccupazione che, sia pur in diminuzione rispetto
al passato, si attesta ancora su livelli elevati, secondo un’aliquota che oscilla intorno al
8,5% sul piano nazionale
1
, ma con differenziazioni sostanziali assai marcate sia a livello
territoriale, sia tra i soggetti interessati dal disagio occupazionale, concentrandosi
quest’ultimo su quelle categorie di persone che scontano una debolezza endemica nel
mercato del lavoro (in primis, i giovani e le donne)
2
.
A ben vedere, indipendentemente dalla più o meno ampia diffusione del fenomeno, ciò che
realmente conta è che sono cambiati i termini di valutazione della disoccupazione.
L’esperienza della disoccupazione è correlata strettamente al contesto di differenti strutture
sociali, economiche e politiche, e pertanto può svilupparsi secondo dinamiche peculiari a
seconda del sistema di regolazione sociale cristallizzato in ciascun contesto nazionale. E la
severità delle conseguenze della disoccupazione sulla vita delle persone dipende da tre
fondamentali fattori, ovvero la natura e le forme di intervento dei sistemi di protezione
sociale, la tipologia della struttura familiare, il modello di mutamento economico-
produttivo
3
.
Oggi si è di fronte a una protezione sociale declinante, nel quadro di una tramonto del
modello welfarista-keynesiano che porta con sé l’esaurimento della piena congruenza tra
domanda e offerta di lavoro del modello produttivo taylor-fordista.
I sistemi di welfare europei sono stati modellati sulle condizioni sociali, economiche e
demografiche prevalenti nell’era fordista del pieno impiego. Una delle caratteristiche più
importanti di questi sistemi – imperniati sul modello della “famiglia del lavoratore
1
Dati Istat al 3° trimestre 2011.
2
Negri N., Saraceno C., 1996, Le politiche contro la povertà in Italia, cit., 135 e ss.
3
Gallie, D., Paugman, S., Welfare regimes and the experience of unemployment in Europe. Oxford: Oxford
University Press, 2000.
9
standard” – è stata la relativa latitanza rispetto alle fasi attive del ciclo di vita, essendo essi
orientati prevalentemente a quel ruolo protettivo che faceva fronte a situazioni di malattia,
invalidità, nonché ai rischi, marginali e tutto sommato contenuti, della disoccupazione
(oltre evidentemente al nucleo forte della previdenza sociale, poiché si specificano come
modelli del pensionato).
Il problema è che i mutamenti recenti sul fronte socio-demografico (ridefinizione dei cicli
di vita standard, che prevedevano, almeno per i maschi, ingressi precoci al lavoro, lunga
vita attiva, e relativamente breve periodo di pensionamento), sul versante della famiglia
(cambiamenti nei comportamenti, crescente instabilità dei rapporti coniugali, ampliamento
della tipologia delle famiglie) e su quello del mercato del lavoro (flessibilità dei rapporti di
lavoro e nuovi profili e dimensioni della disoccupazione), impongono in qualche modo di
ripensare l’attenzione residuale dedicata dai sistemi di welfare alla fase attiva del ciclo di
vita. È del tutto evidente, infatti, che la distribuzione dei rischi sociali va spostandosi, nel
ciclo vitale delle persone, proprio verso i periodi della vita adulta attiva, coinvolgendo
peraltro in modo differenziato, le donne e gli uomini. Ciò che, da una parte, crea rigidità
nei comportamenti delle persone adulte, nel corso del loro ciclo di vita e, contestualmente,
frena l’incremento dei livelli di partecipazione della forza lavoro al mercato.
“Lavoratori poveri” e “poveri abili” appaiono, poi, come categorie particolarmente fragili
nel sistema di protezione sociale italiano che non si è ridefinito rispetto alle situazioni
nuove generate dai cambiamenti del mercato del lavoro e della stessa organizzazione
familiare, e che non ancora introdotto forme di sostegno del reddito sganciate dalla
posizione lavorativa degli individui. Allo stesso tempo, va ribadita l’attenzione che le
politiche devono prestare alla rimozione delle disuguaglianze, le quali si ridefiniscono, nel
loro rapporto con la precarietà lavorativa, in tre direzioni, e cioè:
o La destabilizzazione di chi è stabile: è il caso dei lavoratori con una solida
posizione professionale espulsi dai cicli produttivi, troppo vecchi da riciclarsi e
troppo giovani per la pensione;
o L’insediamento della precarietà: ovvero l’alternanza di periodi di disoccupazione
a periodi di lavoro temporaneo, lavoretti, ricorso ad aiuti sociali, che per alcuni
può diventare la condizione normale;
10
o La ricomparsa di una popolazione in “soprannumero”, costituita dai disoccupati
di lunga durata o dai beneficiari delle politiche di inserimento sociale, che non
riescono a reinserirsi nel circuito ordinario del lavoro
4
.
Proprio per i nuovi caratteri della situazione odierna viene sempre più utilizzato il concetto
di vulnerabilità sociale, che esprime invece la forte probabilità di realizzazione dei
fenomeni indicati e la frequente continuità nel corso del tempo. Essa è stata definita come
«una situazione di vita in cui l’autonomia e la capacità di autodeterminazione dei
soggetti è permanentemente minacciata da un inserimento stabile dentro i principali
sistemi di integrazione sociale e di distribuzione delle risorse. Essa sorge dunque
all’incrocio tra tre dimensioni essenziali: la scarsità di risorse di base disponibili e
necessarie alla sopravvivenza e alla riproduzione familiare (reddito, abitazione,
sussidi sociali, ecc.); la debolezza delle reti sociali in cui si è inseriti (reti di
integrazione sociale afferenti alla posizione occupazionale e alle relazioni familiari); e
la difficoltà di sviluppare strategie appropriate di fronteggiamento delle situazioni
critiche (istruzione, salute, informazioni, uso dei servizi di pubblica utilità,
partecipazione alla vita sociale)
5
.
La nuova questione sociale appare dunque il frutto dell’indebolimento dei due principali
meccanismi di protezione dei soggetti dai rischi di impoverimento e di esclusione sociale,
ovvero l’inserimento stabile nel mercato del lavoro e la familizzazione delle protezioni,
prima fra tutte quella della disoccupazione, dei giovani in particolare.
6
Per cui in ragione di alcuni fenomeni quali la flessibilizzazione del mercato del lavoro,
l’allungamento del periodo di istruzione e formazione, la pluralizzazione degli stili di vita,
la diminuzione dell’occupazione della coorte più giovane della popolazione, (ecc.), le
tappe che segnano i passaggi cruciali verso l’età adulta sono di fatto sempre meno lineari e
standardizzate.
Se in parte ciò è attribuibile a una serie di mutamenti culturali che hanno reso meno
irreggimentate le fasi di questo passaggio, ciò che in questo contesto si prende in
4
Zucchetti E., “La disoccupazione. Letture, percorsi, politiche”, Vita e pensiero, Milano 2005.
5
Costanzo Ranci, Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002.
6
Rosanvallon P., La nuova questione sociale. Ripensare lo stato assistenziale, Edizioni Lavoro, Roma, 1997.
11
considerazione sono gli ostacoli strutturali che hanno reso il raggiungimento di una
condizione di autonomia sempre più tortuoso, nonché caratterizzato da un alto grado di
reversibilità (ad esempio, a una fase di indipendenza economica e abitativa può seguire una
fase di disoccupazione o sotto-occupazione con conseguente ritorno in carico alla famiglia
di origine). A seguito di tali mutamenti la condizione di adulti non è più la tappa finale di
un cammino prefissato che va dall’educazione al lavoro, alla formazione di una propria
famiglia, ma un processo definito attraverso continue negoziazioni.
7
La negoziabilità di
tale percorso, tuttavia, non è indolore perché si accompagna ad un’instabilità che non
intacca solamente la sfera lavorativa ma in generale precarizza e rende labile tutte le sfere
della vita privata.
A questo quadro si aggiungono le caratteristiche proprie del sistema di welfare italiano, che
ha storicamente trascurato di investire in politiche che permettessero ai giovani di
sperimentare la propria autonomia.
Come si caratterizzano quindi i rischi che i giovani si trovano ad affrontare in questo
contesto? Una prima osservazione attiene alla frequenza e alla durata di tali rischi: se nelle
economie fordiste i rischi sociali erano caratterizzati da una frequenza limitata e da una
circoscrizione nel tempo
8
, ora tali rischi non sono più identificabili come “incidenti di
percorso”, quanto piuttosto come ostacoli sistematici nel sistema di accesso a opportunità e
risorse di scegliere la propria vita in autonomia.
Certamente la possibilità di attraversare tali momenti, non comporta automaticamente di
rimanervi intrappolati: tale rischio resta infatti più strettamente correlato alle condizioni di
partenza e interessa solo una minoranza della popolazione giovanile. Il dato rilevante,
tuttavia, è l’ampliamento dello spettro di persone che possono trovarsi ad affrontare tali
situazioni nella propria vita e l’incremento del peso della variabile familiare, che si traduce
inevitabilmente in un accentuarsi delle disuguaglianze in ambito sociale.
Tali cambiamenti nella struttura di transizione alla vita adulta sono stati in gran parte
negati dalle politiche , che continuano a fondare unicamente sul lavoro le opportunità di
7
Bendit R., Youth Sociology and Comparative Analysis in the European Union Member States, in Papers:
Revista de sociologia, n° 79, pp. 49-76, 2006.
8
Rosanvallon P., La nuova questione sociale. Ripensare lo stato assistenziale, Edizioni Lavoro, Roma,
1997.
12
integrazione dei giovani
9
nonché l’accesso a entitlements, indennità e servizi. Se
l’allungamento dell’età giovanile è stata assunta anche all’interno delle politiche pubbliche
che tendono a promuovere azioni che interessano i “giovani” fino a 34 anni – e talvolta
fino a 40 anni -, non altrettanto si può dire per le restanti difficoltà sopra richiamate.
Nel sentire corrente la categoria di giovani sembra essersi dilatata fino a comprendere età
che in passato non lontano erano incluse addirittura nella maturità; tuttavia, a parità di
classi d’età considerate, l’incidenza numerica dei giovani sulla popolazione complessiva è
andata sensibilmente diminuendo.
In Italia la più forte contrazione della quota dei giovani si è registrata nella prima metà del
decennio, mentre in seguito la dinamica negativa è andata progressivamente attenuandosi.
Rispetto ai maggior partner europei l’Italia è il Paese in cui si osserva la più bassa
incidenza giovanile (pari nel 2010 al 10,1%) e al contempo la più alta quota di ultra
80enni (5,8%).
TABELLA 1.1 - POPOLAZIONE PER CLASSE DI ETA’ E PAESE DI RESIDENZA
ANNI 2000-2010 (% SUL TOTALE POPOLAZIONE)
Fonte: elaborazioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali su dati Eurostat
Il perdurare della vulnerabilità giovanile per oltre un decennio ha creato un gruppo sempre
più ampio e sempre meno giovane di cittadini che soffrono di un deficit sistematico di
opportunità, e che sperimentano un ritardo strutturale dell’ingresso nell’età adulta
10
: le
donne italiane sono tra quelle che fanno figli più tardi (l’età media al parto di 31,1 anni
9
Walther A., “Regimes of Youth Transitions. Choice, Flexibility and Security in Young People’s Experience
across Different European Contexts”, in Young: Nordic Journal of Youth Research, 14(2)2006, pp. 119-139.
10
Censis, 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2011.
13
rilevata in Italia rappresenta una delle età più avanzate in Europa al 2008), mentre il tasso
di fertilità totale pone il Paese vicina al fondo (20ª posizione su 27) della graduatoria Ue.
Non accennano ad arrestarsi la diminuzione dei matrimoni (-6,5% nel 2009 rispetto
all’anno precedente) e l’aumento dell’età media in cui gli italiani lo contraggono per la
prima volta (33 anni gli uomini e 29,9 le donne, circa 2 anni in più rispetto al 2000).
In questo trend giocano un ruolo centrale il mercato del lavoro e le modalità con cui la crisi
si è abbattuta sui giovani, ed è probabile che la società italiana si stia privando di energie
che potrebbero offrire un contributo sostanziale. L’Italia è infatti tra i grandi Paesi dell’Ue
quello in cui è più bassa la quota di under 30 sul totale degli occupati. I fattori della
crescita economica sono molteplici, tuttavia il confronto di questo dato con quello relativo
al Pil 2010 espresso in numero indice rispetto al 2000 (per cui 100 è uguale al Pil dell’anno
2000) evidenzia come i Paesi che hanno potuto contare su una forte occupazione giovanile
sono quelli che più sono cresciuti nel medio periodo, e quelli che sono riusciti a tutelarla
negli anni sono quelli per cui le previsioni di crescita per il prossimo futuro sono più rosee
(Grafico 1.1).
GRAFICO 1.1 – OCCUPATI DI 15-29 ANNI SUL TOTALE DEGLI OCCUPATI NEL
2000 E NEL 2010, CRESCITA ECONOMICA 2000-2010 E PREVISIONI 2011 E 2012
(VAL. % E NUMERI INDICE: 2000=100)
(1) Numero indice: 2000 = 100
(2) Previsione
Fonte: Elaborazione Censis su dati Eurostat
14
La contrazione della numerosità relativa dei giovani può limitare il rilievo economico e
sociale riconosciuto alle loro esigenze specifiche e il ruolo ad essi attribuito nelle decisioni
collettive, oltre ad esercitare effetti rilevanti anche per la costruzione del futuro che,
naturalmente, appartiene più a loro, indipendentemente dal peso numerico che essi hanno
oggi.
La condizione dei giovani è influenzata da una pluralità di problematiche, alcune collegate
direttamente al loro presente, altre a come si profila il loro domani.
Tra le prime ci sono quelle che riguardano la formazione e quelle connesse all’entrata nel
mondo del lavoro; in seguito, nel periodo di vita lavorativo, gli occupati assumono il
compito di provvedere non solo a se stessi, ma anche a chi non lavora e, in particolare, agli
anziani; viene così praticato quel patto sociale che per ogni generazione prevede, nell’età
attiva, di dare sostegno a quella precedente e poi di riceverlo da quella successiva.
La situazione dei giovani di ciascuna generazione è dunque legata in primo luogo a
questioni che si pongono nella loro contemporaneità; ma dipende anche dalle prospettive
che il presente lascia intravedere per il futuro; ad esempio, quelle connesse ai trasferimenti
passivi e attivi che li riguarderanno, rispettivamente, prima nella loro vita lavorativa e poi
da pensionati
11
.
Pur scontando un normale grado di miopia giovanile, le aspettative per il futuro hanno un
lontano peso nella condizione presente. A questo riguardo, va sottolineato come la crisi
globale abbia smentito le illusioni alimentate negli scorsi decenni dalle teorie economiche
secondo cui, accrescendo il ruolo delle scelte individuali razionalmente improntate alla
logica di mercato, sarebbero aumentati fortemente la prevedibilità del futuro, la stabilità e
il benessere individuale e collettivo.
I fatti hanno invece riproposto la centralità dell’incertezza e la conseguente accresciuta
necessità di strumenti istituzionali per sopperire all’instabilità e alle inefficienze derivanti
dalle scelte individuali e dalla loro interazione nell’ambito dei mercati lasciati a se stessi.
La crisi economica esplosa nel 2008 non ha stimolato un’accelerazione del processo
d’unificazione europea, che pure sarebbe stata una reazione possibile ed efficace; è
accaduto invece che rinnovate idiosincrasie nazionali e contraddizioni crescenti nel modo
di perseguire il progetto unitario hanno indebolito l’Unione e interagito negativamente con
11
Pizzuti R.F., “Rapporto sullo Stato Sociale 2011 – Questione giovanile, crisi e welfare state”,
Dipartimento di Economia e Diritto di “Sapienza”, Università di Roma.
15
la crisi accentuandone gli effetti.
Nel nuovo Patto di Stabilità in discussione per rilanciare l’Unione, stanno prevalendo
indicazioni derivanti da una ruvida e improbabile composizione di preoccupazioni
nazionali e dalla conferma della visione analitica dominante prima della crisi. Permane
cioè l’approccio che privilegia essenzialmente le condizioni dell’offerta e trascura quelle
della domanda e il ruolo della distribuzione del reddito; si mira ad accrescere le capacità
competitive dei sistemi produttivi nazionali puntando essenzialmente sull’aumento della
flessibilità del lavoro e sulla riduzione dei costi, tra i quali vengono evidenziati quelli per le
prestazioni sociali, sanitarie e pensionistiche, sottovalutando il ruolo che esse hanno avuto
e possono continuare ad avere sia per migliorare i presupposti sociali della capacità
dell’offerta sia per sostenere le non meno rilevanti condizioni della domanda.
Nelle politiche comunitarie prevale dunque una certa linea di continuità con il recente
passato che risulta particolarmente incongrua se si pensa al contributo che la visione
analitica dominante ha dato alla profonda crisi che sta interessando sia l’economia sia il
processo unitario dell’Unione Europea.
Nel 2010, a dieci anni di distanza dagli impegni pianificati a Lisbona dagli allora quindici
Capi di Stato dell’Unione, è stata varata la nuova strategia in campo economico,
occupazionale, ambientale e sociale definita «Europa 2020».
Durante il passato decennio, rimanendo le politiche sociali nella piena responsabilità degli
Stati membri, in mancanza di meccanismi sanzionatori a sostegno di una linea condivisa,
come quelli previsti negli accordi di Maastricht, la Strategia di Lisbona
12
aveva
essenzialmente mirato a incrementare il coordinamento tra le politiche nazionali per
favorire la convergenza degli indicatori sociali coordinati.
L’azione comunitaria, pur esprimendosi con oscillazione d’intenti, si era sviluppata
richiamandosi implicitamente all’esistenza di un «Modello sociale europeo» - non ben
definito, ma comunque fondato su sistemi di welfare pubblici. Tuttavia, barcamenandosi
tra periodiche riqualificazioni, la Strategia di Lisbona aveva riconosciuto alle politiche
12
L’art. 3 del Trattato di Lisbona, che enuncia gli obiettivi, parla di una “economia sociale di mercato
fortemente competitiva, intesa a conseguire la piena occupazione e il progresso sociale”, e precisa che
“l’Unione combatte l’esclusione sociale e la discriminazione, promuove la giustizia e la protezione sociale,
l’eguaglianza tra i sessi, la solidarietà tra generazioni e la protezione dei diritti dei minori”.
L’art. 9, noto come “clausola sociale orizzontale”, prevede che “nella definizione e nell’ esecuzione delle sue
politiche e delle sue azioni, l’Unione deve tener conto delle esigenze legate alla promozione di un alto tasso
di occupazione, alla garanzia di una protezione sociale adeguata, alla lotta contro la povertà e ad un alto
livello di educazione, formazione e protezione della salute umana”.
16
sociali un rilievo che solo a tratti era stato posto sullo stesso livello delle politiche
occupazionali ed economiche, e comunque come mero fatto propositivo privo di riscontri
fattuali.
La crisi ha accentuato gli aspetti di contraddittorietà nell’atteggiamento comunitario verso i
sistemi di welfare pubblici. Da un lato, ha evidenziato il ruolo positivo di ammortizzatori
sociali che ha consentito ai cittadini europei di affrontare la caduta occupazionale e
l’accresciuta insicurezza propagata dai mercati meglio dei cittadini americani; dall’altro
lato, ha introdotto a interpretare il costo delle politiche sociali essenzialmente come un
aggravio della sostenibilità dei debiti pubblici e, dunque, come motivo di contenimento
sociale.
Questa ambivalenza è stata trasmessa anche alla rinnovata strategia «Europa 2020
13
» che
nella definizione degli obiettivi ha riservato spazio rilevante a quelli del welfare - dalla
riduzione della povertà alla maggiore diffusione dell’istruzione - ; tuttavia li ha subordinati
al più stringente coordinamento delle politiche di bilancio per le quali le indicazioni sono
improntate a percorsi di risanamento finanziario che, di fatto, riducono lo spazio delle
politiche sociali e il contributo che esse possono dare anche alla crescita e allo stesso
miglioramento dei bilanci pubblici.
1.2 LA NUOVA REALTA’ IN ITALIA TRA LAVORO, DISOCCUPAZIONE E
PROSPETTIVE PENSIONISTICHE
Se i nuovi rischi sociali derivano dal posizionamento degli attori tra lavoro, famiglia e
sistemi di welfare, pare opportuno prendere in considerazione alcuni indicatori che,
all’interno di queste macro-aree, siano in grado di rendere visibile in quali ambiti si
concentrino le principali sacche di vulnerabilità.
Il punto di partenza dell’analisi sulla condizione giovanile non può che riguardare il
mercato del lavoro e le sue profonde mutazioni economico-sociali sviluppatesi nel corso
13
Sullo sfondo dell’entrata in vigore del nuovo Trattato di Lisbona e in coincidenza con l’Anno europeo
contro la povertà e l’esclusione sociale, la nuova strategia dell’Unione per il prossimo decennio ha gettato le
premesse per un significativo rafforzamento delle dimensione sociale dell’integrazione europea. Lo ha fatto
in primo luogo ricomponendo i vari processi di coordinamento esistenti – in materia economica,
dell’occupazione, dell’educazione incluso quello riguardante le politiche sociali. E lo ha fatto fissando per la
prima volta un obiettivo quantitativo per la riduzione della povertà e dell’esclusione sociale, che impegna
l’Unione a ridurre di almeno 20 milioni il numero di persone in situazione di povertà o di esclusione.
17
degli anni.
Il mercato del lavoro italiano, non diversamente da quanto è accaduto negli altri paesi
avanzati, ha subìto profondi cambiamenti che hanno portato una modifica non solo nel
livello dell’occupazione, ma anche nella sua composizione. La crescente domanda di
flessibilità da parte tanto delle imprese quanto da alcuni segmenti dell’offerta di lavoro ha
portato alla diffusione dei contratti di lavoro c.d. atipici.
Volendo descrivere brevemente quanto accaduto in questi anni, si può dire che, al periodo
di forte espansione dell’economia italiana della seconda metà degli anni ’80, fa seguito, nei
primi anni’90, un periodo di recessione che scarica gran parte del suo peso sui giovani,
riducendo notevolmente il ricambio generazionale
14
sui posto di lavoro.
L’età media della forza lavoro da allora è cresciuta ininterrottamente, le aziende, infatti,
hanno reagito alle difficoltà non solo con l’espulsione di lavoratori adulti ma anche e
soprattutto riducendo il turn over.
Il tasso di occupazione giovanile (15-24 anni) si riduce fino al 1996. A bloccare il ricambio
occupazionale in quegli anni hanno contribuito, e continuano a contribuire, le difficoltà del
sistema pensionistico e le relative riforme.
In particolare, la scelta operata dal legislatore italiano del 1969, che con la L. n. 153 aveva
introdotto (con notevolissima discontinuità rispetto alla precedente evoluzione del sistema
di protezione sociale, maturata in una lunga gestazione tra le due guerre, non senza
asimmetrie ed errori di prospettiva), il sistema pensionistico con metodo di calcolo
retributivo
15
, è stata foriera, da un lato, di aspettative di percezione dei redditi di natura
pensionistica sovradimensionate rispetto alle dinamiche di accumulo, dall’altro di
contorsionismi normativi, una volta che la dura realtà dei numeri portati dalle proiezioni
demografiche aveva palesato come indifferibili le necessarie riforme nel campo
14
Si è riscontrato come, uno dei fattori principali che condiziona la vitalità di un sistema economico, sia la
capacità di un continuo ricambio tra coloro che fanno ingresso nel mondo del lavoro e gli individui che,
sopraggiunti il limite di età, fuoriescono dalla vita attiva alimentando in tal verso l’erogazione delle
prestazioni pensionistiche.
15
In realtà la “formula retributiva” per il calcolo della pensione è stata introdotta con il D.Lgs 488/1968,
stabilendo una pensione pari al 65% della retribuzione dell’ultimo triennio; nel 1969 la L. 153 rafforza il
retributivo stabilendo la percentuale al 74 dei migliori 3 anni degli ultimi 5; attenua il divieto di cumulo;
introduce la pensione sociale ai cittadini bisognosi che hanno compiuto 65 anni, ripristina la pensione di
anzianità con 35 anni di contribuzione.
18
previdenziale
16
.
Nel corso degli anni ci sono stati delle grandi trasformazioni demografiche che hanno non
di meno alterato popolazione e società in Italia. Tra gli anni ’70 e ’80 in campo
demografico si sono verificati netti mutamenti di tendenza: dopo il baby-boom degli anni
’60, culminato nel 1964, la fecondità si è progressivamente ridotta e ha negli anni recenti
registrato i livelli più bassi del mondo (1,3 - 1,4 figli per donna); la durata media della vita
si è allungata al di là di ogni ottimistica previsione, superando i 74 anni per gli uomini e gli
81 per le donne; ed infine l’emigrazione verso l’estero ha lasciato il posto a consistenti
flussi d’immigrazione dal Terzo Mondo e dai Paesi dell’Europa orientale.
Con il ridursi delle nuove leve e il sempre più accentuato permanere in vita delle vecchie
generazioni uno dei principali problemi del Paese - comune peraltro a tutti i Paesi a
sviluppo avanzato - è diventato quindi quello dell’ invecchiamento della popolazione, per
l'incremento sia del numero delle persone anziane e vecchie, sia della loro proporzione sul
complesso della popolazione. Un processo questo demograficamente inevitabile che
prende le mosse da fatti straordinariamente positivi - il sempre maggiore e vincente
controllo sulle nascite indesiderate e sulla morte precoce - ma che ha tante e tali
ripercussioni a livello macro e micro (sistema previdenziale, assistenziale, sanitario, dei
consumi, per fare solo qualche riferimento).
Per l'Italia al 1990 risulta evidente la riduzione della base della piramide dell'età a causa
della denatalità, mentre la parte centrale appare rigonfiata in conseguenza del baby boom
degli anni ’60.
Quindi si può notare dal grafico come l’intensità e la velocità dell’invecchiamento hanno
determinato la forma della piramide delle età, dove la parte bassa è alimentata da un flusso
di nascite che si riduce anno dopo anno, e che va assumendo una forma di fuso
17
.
16
Proietti F., - Studi in onore del Prof. Tiziano Treu - Proposte di un percorso di creazione di misure di
welfare dedicate ai giovani, dattiloscritto, destinato agli studi in onore di Tiziano Treu, Dipartimento di
Diritto ed Economie delle Attività Produttive, Facoltà di Economia Università degli Studi “Sapienza di
Roma.
17
Livi Bacci Massimo., Introduzione alla demografia., Loescher Editore, 2009.
19
GRAFICO 1.2 – PIRAMIDE DELL'ETA' DELLA POPOLAZIONE ITALIANA
Fonte: U. S. Census Bureau, Internacional Data Base
Ma l’attuale assetto demografico della popolazione italiana è assimilabile, in termini
dinamici, ad un’ “onda” e non, come spesso viene descritto, ad una statica “gobba”.
Da una tale distribuzione deriva la certezza all’insostenibilità del sistema a ripartizione a
cui si è affiancata l’ulteriore certezza che le generazioni future si troveranno
inevitabilmente ed in numero sempre maggiore con pensioni al di sotto della soglia di
povertà
18
.
Per cui, una volta preso atto, anche a livello di assetto legislativo generale (con
l’emanazione della L. 335 del 1995
19
), della necessità di una decisiva inversione di
tendenza, con il passaggio – mediato e non generalizzato, ma di sicuro impatto sulle
generazioni – ad un sistema di base a ripartizione ma con metodo di calcolo contributivo il
18
Attias A., ”Flessibilità dell’aliquota contributiva e consapevolezza del futuro tasso di sostituzione: un
legame indissolubile”, Providence- periodico trimestrale dell’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza
della Professione Infermieristica, n° 2 aprile/giugno 2007.
19
La L. 335/95, legge Dini, introduce il sistema di calcolo contributivo per la sola pensione di vecchiaia;
stabilisce che il diritto a tale pensionamento è condizionato alla risoluzione del rapporto di lavoro, al
compimento di 57 ani di età o al raggiungimento di un’anzianità contributiva di 40 anni, al versamento di
almeno 5 anni di effettiva contribuzione e alla maturazione di una pensione di importo non inferiore
all’assegno sociale maggiorato del 20%.
20
legame tra generazioni si è ancora più affievolito, poiché l’elemento unificante (anche sul
piano finanziario-attuariale) del preesistente sistema a ripartizione, costituito dalla comune
alimentazione di un unico coacervo (il Fondo pensioni lavoratori dipendenti) è stato via via
depotenziato dalle successive dinamiche normative che hanno reso più “appetibile” (per i
datori di lavoro) il ricorso a forme di lavoro atipico, in primis nella veste dei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa e poi dei rapporti di collaborazione a progetto.
Nel nostro Paese ci si riferisce in particolare ai processi di deregolamentazione dei contratti
a termine realizzati prima con il cosiddetto “Pacchetto Treu” (L. 196/1997), poi con
un’ulteriore riforma del lavoro rappresentata dalla “Legge Biagi” (L. 30/2003).
L’attenzione principale di tali norme è stata dedicata alla definizione di forme contrattuali
flessibili
20
, mentre un’ enfasi di gran lunga inferiore è stata attribuita all’aspetto della
sicurezza (social security), con la parziale eccezione di alcuni provvedimenti e linee guida
individuate nel cosiddetto Protocollo sul Welfare del 2007 (Legge n. 247 del 2007).
In particolare, mentre si è registrato, soprattutto durante il quinquennio di governo centro –
sinistra 1996-2001, un tentativo di ampliare il ruolo delle politiche attive, non è stato
intrapreso nessun serio tentativo di riforma complessiva del sistema degli ammortizzatori
sociali, che – con l’eccezione relativa ai lavoratori della grande impresa, i quali possono
accedere a istituti generosi quali cassa integrazione e mobilità – è rimasto assolutamente
inadeguato, oltre cha altamente frammentario con tre principali tipi di strumenti:
o Indennità di disoccupazione ordinaria e a requisiti ridotti;
o Cassa integrazione guadagni (ordinaria e straordinaria);
o Indennità di mobilità.
Si può dedurre che è del tutto assente una copertura universale (ossia rivolta a tutti i
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A partire dagli anni ’90 si assiste, da un lato, al riconoscimento di nuove tipologie contrattuali (il lavoro
interinale, ad esempio), e dall’altro all’estensione di forme contrattuali già esistenti, ma meno utilizzate (i
contratti a tempo determinato e i contratti di lavoro part-time). Parallelamente alla liberalizzazione di fatto di
questo tipo di contratti, che ricadono nell’ambito del lavoro alle dipendenze, si diffondono rapidamente, e a
larga scala, rapporti contrattuali che non rientrano nella sfera del lavoro autonomo, né in quella del lavoro
subordinato: si tratta delle collaborazioni coordinate e continuative e di tutte quelle forme di lavoro
parasubordinato che non avevano un fondo previdenziale fino all’istituzione del Fondo Inps a gestione
separata, con la riforma del sistema pensionistico del 1995.
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lavoratori), in quanto i sussidi dipendono dalla tipologia del contratto di lavoro, dalla
durata del rapporto, dalla dimensione d’impresa e dal settore di attività. I parasubordinati,
dunque, non sono ammessi ad alcuna forma di sostegno al reddito, in quanto sono
formalmente considerati lavoratori autonomi. Come già ribadito, una via di fuga in tema di
sicurezza per tale categoria di lavoratori, è stata introdotta con il recente Protocollo sul
Welfare (2007), che ha leggermente aumentato durata e ammontare dell’indennità di
disoccupazione, e creato tre “fondi di rotazione” (150 milioni ciascuno) per il sostegno ai
lavoratori atipici, al microcredito e all’imprenditoria giovanile.
Ciò che si osserva in tutti i paesi dell’Ue, quindi anche in Italia, è un trend crescente nel
lavoro a termine, misurato come quota sull’occupazione totale dipendente, ma con
differenze significative tra i paesi sia nei livelli complessivi raggiunti, sia nella sua
incidenza tra i giovani (European Commission, 2010, pp. 125-127; Scarpetta e al., 2010,
pp. 17-18). Il grafico 1.3 mostra l’andamento del lavoro a termine come incidenza
sull’occupazione dipendente. Sia in Italia che nell’Ue-15 si osserva una tendenza
all’aumento, un po’ più marcata nel nostro paese.
GRAFICO 1.3 – L'INCIDENZA DEL LAVORO A TERMINE TRA I LAVORATORI
DIPENDENTI IN ITALIA E NELL'UE-15 (ANNI 1995-2010, %)
Fonte: Eurostat, Labour Force Survey (Eurostat database).
Tuttavia mentre per il totale dei dipendenti l'incidenza del lavoro a termine rimane un pò
1996 19971998 1999 20002001 2002 20032004 200520062007 20082009 2010
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40
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EU TOTALE
IT TOTALE
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IT GIOVANI M
EU GIOVANI F
IT GIOVANI F