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prima cosa vedere meglio che cosa avevano fatto i molti pseudonimi di un
autore che per molto tempo in vita nessuno aveva nemmeno collegato alla
persona reale, nata nel nord dell’isola, a Strabane, nel 1911 e morta a Du-
blino nel 1966, e quale fosse appunto la loro relazione con quest’ultima.
I romanzi di cui è autore Flann O’Brien sono quattro. Il primo è il fa-
moso At Swim-Two-Birds (1939), in cui si narrano tre racconti a scatola cine-
se di tre persone che cercano di scrivere un libro: ‘A book within a book wi-
thin a book’, come scrisse Graham Greene nella sua recensione. Nel 1961, a
più di vent’anni di distanza, uscì il secondo romanzo, The Hard Life, An Exe-
gesis of Squalor: è la storia abbastanza ordinaria di una famiglia irlandese
dove convivono un anziano zio che si sente moralmente obbligato a far qual-
cosa perché si costruiscano bagni pubblici per le donne a Dublino, un nipote
che emigra in Inghilterra e si costruisce una fortuna come self-made man a
Londra, il narratore ingenuo (suo fratello) che pare non faccia nulla di parti-
colare, e la figlia dello zio che fa la prostituta ma nessuno in casa sembra
accorgersene. Dopo poco (1964) fu la volta di The Dalkey Archive, in cui tra
un Sant’Agostino un po’ sboccato che appare durante una specie di pellegri-
naggio sottomarino, e un Joyce cameriere, scarso scrittore ed aspirante ge-
suita, un ragazzo cerca di impedire che un’arma di distruzione di massa (il
DMP) di uno pseudoscienziato di nome De Selby riesca a cancellare la specie
umana dalla terra. Nel 1967, postumo, uscì The Third Policeman. Scritto nel
1940 subito dopo At Swim-Two-Birds, fu rifiutato dagli editori perché inquie-
tante e ‘troppo fantastico’. Evidentemente colpito da questo giudizio,
O’Nolan ripose il manoscritto in un cassetto dicendo a tutti di averlo perso e
lì lo lasciò fino alla morte. Fu pubblicato dalla moglie e dal fratello accade-
mico Kevin O’Nolan, e narra la storia di un personaggio senza nome che parla
in prima persona e che a un certo punto della storia si scopre che è morto da
un pezzo.
Myles na gCopaleen (poi divenuto na Gopaleen — ‘Myles dei cavalli-
ni’), nacque come alter ego giornalistico di Brian O’Nolan nel 1940, tenendo
una regolare rubrica sull’Irish Times dal titolo Cruiskeen Lawn, che significa-
tivamente si può tradurre con ‘il boccale traboccante’. Tra alterne vicende,
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fortune e frequenze, vi scriverà fino alla morte parlando del ‘Plain People of
Ireland’, del ‘Brother’, di strampalate invenzioni registrate al ‘Myles na gCo-
paleen Research Bureau’, di immaginarie e deludenti avventure comiche dei
poeti Keats e Chapman, di fanfaronate sulle proprie conoscenze scientifiche
e accademiche, e di molte altre cose che potrebbero essere riassunte con
“tutto e niente”, ma sempre in chiave comica. Sotto questo nome come au-
tore nel 1941 uscì in gaelico An Béal Bocht, tradotto in inglese nel 1973 col
titolo The Poor Mouth. Si tratta di una lunga parodia dei diari di vita rurale
irlandese che tra le due guerre avevano fatto la fortuna di scrittori come
Tomás Ó Criomhthain, in cui vengono esaltate delle anti-virtù che secondo
lui possiedono i tipici irlandesi: vita in comune con le bestie, linguaggio in-
comprensibile fatto di luoghi comuni, dipendenza cronica dalle patate e dal
furto per la sopravvivenza, e così via.
George Knowall e John James Doe furono altri due pseudonimi dalla
vita piuttosto lunga, attivi in un paio di giornali di provincia come autori di
rubriche settimanali dal tono blandamente scherzoso negli anni ’50 e ’60 fi-
no alla morte dell’autore. Brother Barnabas e Count O’Blather, invece, furo-
no quelli che O’Nolan usò come maschere per scrivere gli articoli durante i
suoi anni allo University College, Dublin, dal 1930 al 1935 circa. Il nostro au-
tore, dunque, all’inizio ci si è posto davanti nascosto dietro molti paraventi,
e ce lo figuravamo perfino sogghignante soddisfatto della propria abilità a
sfuggire a qualsiasi categorizzazione, forte delle sue vite parallele e della
maestria nel maneggiare le ambiguità del comico.
Era necessario, dunque, un chiarimento per poterci porre corretta-
mente nei confronti di un autore che aveva sfruttato così diffusamente i po-
tenziali del comico e della risata, considerati campi di studio autonomi e di
conseguenza analizzati come tali soltanto nel XX secolo, sebbene siano sem-
pre stati croce e delizia dei filosofi che si sono degnati di occuparsene: è al
padre della psicanalisi Sigmund Freud che dobbiamo il primo studio monogra-
fico sul motto di spirito impiegato come forma di comunicazione intellettua-
le e volontaria e le sue relazioni con i fenomeni inconsci come il sogno. Se
da un lato i teorici hanno incontrato grosse difficoltà in questo ambito, i co-
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mici ―i “tecnici” verbali e letterari del riso di ogni tempo― dall’altro si sono
curati poco di indagare i moventi reconditi e hanno sempre esercitato la loro
arte perché hanno sempre trovato un pubblico discretamente folto ad ascol-
tarli. Si può dire che lo stimolo alla risata ―e quindi un senso, un canone
comune dell’umorismo― sia sempre esistito dacché abbiamo testimonianze
scritte o orali della storia delle varie civiltà che hanno popolato il nostro
pianeta.
Il ruolo del comico ―poeta, buffone o stregone― è sempre stato ben
definito e riconoscibile all’interno delle società, e la sua missione di grande
importanza tuttavia disprezzata. Fare il comico significa vestire metaforica-
mente i panni sacrificali del capro espiatorio, quando non morire davvero:
rappresenta una sorta di sacerdozio laico delle coscienze. La faccia triste del
pagliaccio struccato che Pirandello, anche lui autore di un saggio
sull’umorismo, ci offre a teatro è la scioccante spoliazione di un falso co-
stume da sempre attribuito al comico, che è quello di essere comico anche
al di fuori del suo ruolo. Brian O’Nolan, a nostro parere, in tutta la sua car-
riera ha vestito i panni dello scrittore indiscutibilmente comico, prima di
qualsiasi altro aggettivo. Il fatto che abbia avuto una vita letteraria anomala
e in certo qual modo sincopata in periodi e pseudonimi diversi, riteniamo
che non ci autorizzi a spezzettare la sua produzione etichettandola semplici-
sticamente ad usum delphini come giornalistica e narrativa, e a considerare
anche noi per brevità persone diverse quelle che in realtà sono persone. Ba-
sterebbe soltanto il semplice motivo per cui non si dovrebbe mai prendere
completamente sul serio ciò che dice un comico quando indossa i suoi vestiti
di scena, ma riconoscervi un’ambivalenza intrinseca di significato.
Riteniamo, alla luce degli studi che siamo andati a presentare nei
primi due capitoli, che il comico come tecnica letteraria non sia un mero
strumento per suscitare il divertimento del lettore, considerandolo in sé un
fine senza ulteriori implicazioni, bensì miri a ricreare artificialmente nel ri-
cevente, tramite il suo legame con la funzione del riso e della risata, la con-
dizione che si verifica nella comunicazione umoristica reale: l’unione impre-
vedibile fra livelli di significato precedentemente autonomi, e la generazio-
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ne di conoscenza fra la pluralità dei significati possibili. Il riso, secondo noi,
è nella realtà un veicolo privilegiato di conoscenza per lo sguardo che riesce
a mostrare sulle convenzioni alternative a quelle che normalmente viviamo
senza però lasciarci le ferite che uno scontro più duro provocherebbe; nella
pratica del comico, e specialmente in quello letterario, questa funzione con-
tinua ad essere perseguita e la riteniamo importantissima. Brian O’Nolan, ri-
vestendo letterariamente i panni del vero buffone, o del vero cantastorie, si
è impossessato di quel ruolo sociale che lo ha portato ad essere un punto di
riferimento per i suoi lettori, i quali in cambio hanno ricevuto la certezza di
avere da lui una costante sollecitazione culturale ed un punto di vista sulle
cose molto più affidabile di altri perché non costretto dal ruolo a mentire
per salvare apparenze più gravi.
Il lavoro che abbiamo cercato di portare a compimento è stato in certi
momenti scoraggiante per la complessità della conformazione di un opus
comico che sembrava refrattario a qualsiasi molla critica. Tuttavia, la pervi-
cacia secondo noi ha premiato la volontà di affermare in un certo qual modo
che l’autore comico si rivela nella società non come un diversivo di un modo
di vivere che deve essere sostanzialmente serio e impermeabile a pungola-
menti in tal senso, bensì come una forza direttrice potente che indirizza e
contrasta i comuni canoni di pensiero, non molto diversamente da come può
operare un’opposizione verso un governo democratico. Questo ruolo impor-
tante e un po’ ingrato ci è apparso nella sua complessità chiaro quando ci
siamo rivolti a recenti studi che hanno inquadrato il riso e la risata in un con-
testo non solo, diciamo, di filosofia del linguaggio o di estetica, ma anche
scientifico nel senso più stretto del termine. La fisiologia del ridere, sottopo-
sta ad esperimenti di laboratorio, ha infatti svelato molti meccanismi che si
sono potuti mettere in relazione con il modo psicologico di produzione della
comicità e con il ruolo che la pratica ha nelle relazioni sociali. Associati con
gli studi antropologici sull’uso del comico e del gioco in natura, sono stati
proprio questi esperimenti che ci hanno fatto supporre che il comico non ri-
siedesse alla periferia dei procedimenti conoscitivi ma ne fosse invece al
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centro, sotto i nostri occhi eppure perfettamente mascherato come si con-
viene alle arti più complesse.
L’opera di Brian O’Nolan, calata all’interno di uno schema sociale di
questo tipo, assume ai nostri occhi una conformazione totalmente nuova e
profondamente indipendente: il comico ora viene a trovarsi in una posizione
centrale piuttosto che eccentrica, regista piuttosto che attore di un film,
che come tutti i film nasconde la lavorazione e mostra solo il prodotto mi-
metico finito. Il problema, a questo punto, era stabilire quale fosse l’opera
comica di Brian O’Nolan, un autore che finora non esisteva. Le sue due iden-
tità più famose fra le molte che adottò ―Flann O’Brien e Myles na Gopale-
en― erano quelle che in realtà avevano editorialmente firmato tutti i pro-
dotti usciti dalla sua penna. Brian O’Nolan era l’”uomo dietro le maschere”,
un civil servant nell’Irlanda post-indipendenza e nel periodo prima e dopo la
seconda guerra mondiale, che diligentemente adempiva il proprio lavoro bu-
rocratico, una persona e non una persona come invece erano il suo roman-
ziere Flann e il giornalista-imbonitore Myles. Richiamandoci al semplice ep-
pure trascurato fatto che dietro una persona c’è per l’appunto sempre una
persona, abbiamo ritenuto valido il metodo di riunire sotto l’identità di Brian
O’Nolan le sue due personalità letterarie più rilevanti per ampiezza e spettro
di produzione, per poterle analizzare criticamente come congiunte in uno
sforzo artistico che si è rivelato nei fatti come complementare piuttosto che
separato o alternativo l’uno all’altro. Il giornalista Myles ha avuto il suo mo-
mento di massimo splendore esattamente durante gli anni in cui il romanzie-
re Flann taceva, per poi sparire lentamente verso la fine della vita di
O’Nolan, soppiantato dalla ritrovata fama del secondo.
Abbiamo mostrato nel corso dello studio come i temi e i ruoli dei due
si possano considerare complementari anche in considerazione dell’impatto
socioculturale delle loro opere, attuando così la fondamentale connessione
tra il ruolo sociale originario del riso e della risata e la sua elaborazione mo-
derna nella forma dello spettacolo dell’autore comico performativo o lette-
rario. L’autore comico, senza tenerne in conto le personalità che esprime
sotto diverse guise, ha comunque un obiettivo specifico che è quello di coin-
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volgere attorno a sé un pubblico e portarlo ad estraniarsi momentaneamente
dalla convenzionalità del “normale” vivere in società per giocare con le re-
gole ed esplorare il territorio esterno e spaventevole dell’ignoto senza farsi
eccessivamente male. L’opera di Brian O’Nolan, dal momento che è questo il
risultato che ha ottenuto, è per questo motivo unica ed indivisibile, e la ven-
ticinquennale esperienza giornalistica va dunque analizzata accanto alle o-
pere narrative più classiche riguardo alla forma ―romanzi, racconti, teatro,
sceneggiature televisive.
Il nodo problematico, anche in questo caso, si è presentato subito al
pettine metodologico: come considerare criticamente più di quattromila ar-
ticoli giornalistici ad una media di 500 parole l’uno? Abbiamo scelto di risol-
vere il quesito ponendoci in una prospettiva ―diciamo così― statistica: la
persona Myles, autore di Cruiskeen Lawn, la rubrica in stampa per l’appunto
durante più di venticinque anni sull’Irish Times, era stata concepita e realiz-
zata letterariamente secondo canoni propri dell’autore comico popolare,
protagonista di un carnevale bachtinianamente inteso. Myles entra in scena
piuttosto che nella pagina, rivolgendosi ai lettori come se fossero spettatori
in una piazza, blandendoli, insultandoli, ringraziandoli e perfino chiedendo
loro come proseguire, non diversamente da come vediamo i Pulcinella e gli
Arlecchino rivolgersi al pubblico degli spettacoli dei burattini.
Se per dei personaggi della commedia dell’arte ―verso i quali Myles
denota parecchie affinità― nessuno studio è considerato insufficiente se vie-
ne applicato soltanto ad una parte delle produzioni che li riguardano, per il
preciso motivo che essi hanno dei caratteri fissi da canovaccio sopra i quali
gli attori costruiscono trame con variazioni minimali, nemmeno il nostro stu-
dio che si basa sui sette libri finora pubblicati di raccolte di articoli, oltre a
quelli procurati tramite ricerche d’archivio, dovrebbe essere esposto a os-
servazioni di incompletezza se decidesse di analizzare O’Nolan attualizzato
nel personaggio di Myles senza comunque avere a disposizione l’intera colle-
zione dei suoi articoli. Myles, come personaggio da commedia dell’arte, lo
vediamo autore di un complesso “romanzo” in capitoli separatamente l’uno
dall’altro, un’opera la cui coerenza narrativa è data dalla persona e dalla
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sua teatralità, caratterizzata da pochi elementi precisi, coerenti e ricorrenti
che i lettori potevano identificare e nei quali si riconoscevano.
L’opera di Myles, così come quella di Flann che nessuno ha mai messo
in discussione nei suoi costituenti ―evitando del tutto, per esempio, la pro-
blematica riguardo a come il romanzo postumo The Third Policeman sia stato
pubblicato sotto le insegne di Flann O’Brien senza che Brian O’Nolan l’avesse
deciso― viene così a situarsi meglio, a nostro parere, nel complesso di
un’analisi delle opere di Brian O’Nolan quale autore empirico. Il nuovo auto-
re viene così dotato di un corpus di opere prodotte dai suoi numerosi grega-
ri: Flann e Myles, ma anche George, Barnabas e John, i quali per un verso
sono riconducibili a lui solo, e di ritorno possono venire investiti con ragione
di una strategia comica autoriale che si rivela nel ruolo sociale che un comi-
co ha. Questa strategia di influenza nella formazione della cultura comune,
a nostro avviso, è un tratto che caratterizza tutte le figure pubbliche in virtù
del loro potere sui mezzi di comunicazione. A differenza delle altre figure
pubbliche, però, il comico possiede la facoltà esclusiva di criticare il potere
di governo di cui tuttavia fa parte, consentendo, unico autorizzato a farlo
entro i confini della convenzione sociale, una prospettiva esterna alla con-
venzione stessa pur rimanendovi all’interno. È l’unica figura sociale autoriz-
zata a farlo perché, secondo noi, la prospettiva comica è una tecnica evoluta
di comunicazione propria dell’uomo, unica e non riscontrabile in altri anima-
li, sufficientemente riconoscibile perché tutti ne hanno esperienza ma anche
sufficientemente raffinata da riuscire a dire più cose contemporaneamente;
proprio grazie alla sua intrinseca ambiguità è questo atto linguistico e cogni-
tivo che permette di presentare l’estraneo, l’ignoto e il minaccioso come
potenziali e non attuali, consentendo così la conoscenza senza il conflitto.
Myles e Flann (e gli altri) ci sembra abbiano agito, ognuno nel loro jonsonia-
no humour, con questo preciso medesimo obiettivo cui tendeva il loro auto-
re, Brian O’Nolan. Fondamentali sono stati per la formulazione di questa ipo-
tesi gli apporti di Arthur Koestler, Peter L. Berger, Robert R. Provine, Jaak
Panksepp e, non ultimo, di Johan Huizinga, che con il suo lavoro Homo Lu-
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dens ci ha aperto l’orizzonte del gioco come dimensione essenziale della co-
noscenza umana.
Il destino di una carriera così semplice eppure così complicata da ana-
lizzare come quella di un comico, a nostro parere non è sempre quello di fi-
nire nel dimenticatoio dopo che è passato il momento di splendore goduto in
vita. Certi comici, di cui Brian O’Nolan riteniamo rappresenti un esempio,
seppure raro, riescono a portare la loro influenza nella società a un punto in
cui la comicità sconfina in una sorta di messianismo: il latore di un messag-
gio comico è intrinsecamente un provocatore, anche se la risata rende la
provocazione quasi sempre inertizzata in una paura non reale. La provoca-
zione, però, richiede sempre di essere portata oltre il limite precedente-
mente stabilito se vuole produrre gli stessi effetti di conoscenza che sotto-
stanno al riso, i quali altrimenti nel tempo perdono efficacia per assuefazio-
ne. Ad un’estrema provocazione potrebbero però corrispondere degli effetti
di rigetto, ed è appunto questo il rischio a cui ogni autore comico nel corso
della sua carriera è esposto. Accettare di perdere una parte dell’audience
pur di veicolare verso chi è disposto a recepirlo un messaggio di contestazio-
ne estrema dei valori acquisiti non favorisce la distruzione di questi ultimi,
ma al contrario la loro rielaborazione cosciente perché sottende una volontà
di adattamento alle esigenze di un mondo che cambia e richiede che tutti,
non solo le élite culturali come da tradizione, partecipino alla costruzione di
una cultura condivisa: una cultura in comune secondo le parole di Raymond
Williams, al lavoro del quale abbiamo fatto costante riferimento nel nostro
studio.
Nel capitolo conclusivo ci siamo dedicati agli ultimi lavori di O’Nolan,
che secondo noi nella loro discussa perdita di freschezza comica rivelano in-
vece esattamente l’aspetto che abbiamo appena evidenziato, lanciandosi in
provocazioni forse perfino troppo culturalmente ardite per essere comprese
come tali, e al rapporto possibile tra il nostro scrittore e alcuni suoi compa-
trioti che come lui si sono cimentati nella scrittura comica: James Joyce,
Samuel Beckett e Jonathan Swift. In comune con questi grandi delle lettere
pensiamo abbia la dimensione dell’esperienza umana che lo ha portato ad
XIV
esprimersi in uno stile che, come ebbe a dire lui stesso dello scrivere in gae-
lico, ‘was neither profitable nor popular’, giudizio che come vediamo si at-
taglia con la personalità comica in generale. Dall’accostamento con questi
riteniamo che emerga anche la maggiore ampiezza di portata della scrittura
di O’Nolan, per il modo in cui è stata condotta: il personaggio popolare di
Myles ha, diciamo così, curato i rapporti in un modo molto più immediato e
riconducibile al ruolo originario del comico performativo, improntando il suo
discourse giornalistico all’insegna del dialogo accentuato piuttosto che al
monologismo tipico di certa narrativa. Joyce, Beckett e Swift, pur grandissi-
mi e non sminuibili autori letterari comici, mancano tuttavia di questa di-
mensione nelle loro opere, una dimensione del contatto quotidiano che per
l’appunto è quella che consente l’interscambio di idee e la generazione di
dibattiti ad un livello più generale e pervasivo di quello occasionato dalle so-
le opere narrative o dai drammi.
Questo sarà il nostro materiale, e come detto la nostra ricerca tenterà
di fare luce sul modo in cui tante esperienze apparentemente non solo diver-
se ma anche contraddittorie, riescano in realtà a convergere nella nostra fo-
calizzazione sul nome dell’autore empirico, il quale come figura comica cen-
trale assume sotto di sé la responsabilità dell’azione del comico nella socie-
tà. A questo proposito abbiamo ritenuto necessario e confortevole comincia-
re il nostro percorso da un inquadramento storico della situazione in cui ha
operato questo misterioso aspetto dell’umana personalità: una breve storia
del riso, per capire come il comico, connaturato alla dimensione profonda
dell’uomo, sia sempre stato un metodo di conoscenza privilegiato della real-
tà esterna ed interna dell’unico essere che in natura possiede la consapevo-
lezza della sua eccentricità.