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Introduzione
L’idea di sviluppare una tesi sui discorsi d’odio diffusi in rete mi è venuta frequentando
quotidianamente il maggiore sito di social network del momento, Facebook, e
osservando come spesso, più che per mantenere i contatti con le persone della propria
vita, sia usato come vetrina per esprimere sentimenti di vario tipo, ma soprattutto di
insofferenza verso determinate realtà, intese come idee/visioni del mondo e persone che
le rappresentano (più o meno consapevolmente). Mi sono stupita e irritata, inizialmente,
per le innumerevoli vignette offensive nei confronti delle donne, abbondantemente
condivise e apprezzate - perfino dai soggetti femminili - e quindi spesso in primo piano
nella home del sito, per poi osservare come l’invettiva colpisse i soggetti più svariati,
dagli immigrati ai vegani. A turbarmi sono state la violenza degli attacchi, l’assoluta
scorrettezza, la quantità di consensi e, soprattutto, la distanza siderale da una polemica
civile. Difficilmente si può immaginare qualcosa del genere non solo nella
comunicazione faccia a faccia, ma anche in quella mediata: questo tipo di aggressione
sembra peculiare del web 2.0, come spiega l’antropologo Marino Niola nella sua rubrica
Miti d’oggi sul Venerdì di Repubblica, facendo riferimento all’etologia. Poiché il web
predetermina le forme e i toni del dialogo (“il medium è il messaggio”
1
!), la
comunicazione 2.0 favorirebbe oggettivamente l’aumento dell’aggressività
trasformando di fatto il dialogo in un monologo. Mancano, qui, quelli che gli etologi
chiamano “inibitori di specie”, ovvero quei segnali di resa e pacificazione contenuti nel
volto e nel corpo dell’interlocutore, che abbassano la carica aggressiva. In pratica l’altro
è ridotto a icona (dialogo in differita), bersaglio, più simile al personaggio di un
videogioco che a una persona reale. È proprio questa smaterializzazione che
deresponsabilizza la violenza, rendendola facile e gratuita. Il monitor si trasforma così
in un pulpito da cui lanciare anatemi apparentemente senza conseguenze, con la stessa
facilità con cui si clicca “sì” per sostenere una qualsiasi causa online. Chiunque, dal
personaggio pubblico al malcapitato protagonista di un singolo fatto di cronaca, può
rischiare il pestaggio mediatico, in qualsiasi momento: l’esigenza di introdurre delle
regole si scontra costantemente con la concezione di internet come zona franca in cui
1
Affermazione attribuita a Marshall McLuhan, sociologo canadese (1911-1980), considerato uno dei
pionieri degli studi sugli effetti dei mass media. Ne parlerò più avanti.
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regna la più assoluta libertà d’espressione. Proprio in questi giorni (fine marzo 2014),
dal Pd arriva nuova proposta di legge sullo hate speech, volta a ottenere un sistema
immediato e gratuito che permetta in 24 ore (?!) la rimozione di contenuti offensivi,
denigratori e discriminatori dalla rete. Difficile immaginare criteri di selezione chiari e
univoci di tali contenuti. Le obiezioni possibili sono molte e plausibili, e in particolare
mi sembra condivisibile la posizione di Loredana Lipperini che, nel corso di un
interessante dibattito su Radio Radicale
2
, ha sottolineato come non servano in realtà
leggi ad hoc, ma vadano invece individuate e applicate leggi già esistenti in tema di
violenza e di discriminazione. Oltretutto, dato che l’odio come si è visto genera grande
partecipazione, è irrealistico pensare che Facebook prenda seri provvedimenti per
metterlo a tacere. Ma, in ogni caso, la rete altro non è che l’espressione di un dato tipo
di società e di cultura: certe letture della situazione sono frutto di apprendimento, e sono
funzionali al mantenimento di una certa struttura di potere. L’identità di genere, come
spiega efficacemente il sociologo Erving Goffman nel suo saggio del 1977
3
, è
socialmente appresa, così come il razzismo deriva dall’imposizione di determinati
schemi interpretativi da parte delle élite dominanti
4
. Se della questione dell’identità,
anche di genere, mi occuperò nel primo capitolo
5
, il razzismo come forma mentis
acquisita in società e le sue manifestazioni all’interno dei social media saranno oggetto
di trattazione nel secondo capitolo. Nel terzo e ultimo capitolo, infine, analizzerò un
caso specifico di hate speech online: gli insulti al ministro per l’integrazione Cécile
Kyenge contenuti nei commenti ad alcuni articoli de IlGiornale.it.
Se questo è l’aspetto relativo ai nuovi media che più mi ha colpito nella mia esperienza
di utente, ve ne sono tuttavia altri di molto rilevanti, su cui mi sono soffermata nel corso
delle mie riflessioni. Innanzitutto il ruolo determinante di questi mezzi non solo nella
diffusione di informazione e disinformazione, ma anche nella promozione di iniziative
destinate ad avere un certo peso politico, anche se spesso solo passeggero.
2
http://giovannacosenza.wordpress.com/2014/03/24/hate-speech-femminismi-omofobia-quote-rosa-e-
altro/
3 Goffman, E., , 2009
,
Il rapporto tra i sessi, Armando Editore, Roma.
4
Van Dijk, T. A.,1994, Il discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani ,
Rubbettino , Catanzaro.
5
Nel primo capitolo evidenzio come il web 2.0 (nelle sue varie espressioni), pur lasciandosi inquadrare
nel solco di teorie modellate sui mezzi di comunicazione di massa “classici”, apporti delle sostanziali
novità alle interazioni fra gli individui, alla comunicazione pubblica e anche alle singole performance
identitarie.
5
Se la rivolta dei forconi (che poi forconi non erano) del 9 dicembre 2013 - annunciata
su internet almeno un paio di settimane prima - s’è dissolta in una bolla di sapone, non
si può dire lo stesso della “Primavera araba” (2011) alla quale i social media hanno dato
un notevole contributo. Tra bufale e mistificazioni (grazie alla replicazione virale di
qualsiasi contenuto e alla mancanza di controllo delle fonti), la rete è comunque alla
base di “prove tecniche di insurrezione” (sapientemente pilotate, si pensi all’uso di
internet fatto da Beppe Grillo), ultimamente sempre più frequenti. Insomma i social
media hanno un ruolo fondamentale nella nostra vita sociale e politica, ma esso ha ben
poco a che vedere con il democraticizzare l’accesso all’informazione e alle risorse
(visione “cyberutopista”, o anche “pensiero magico” sulla tecnologia). Riguardo al
ruolo di internet nelle proteste popolari, la studiosa di origini turche Zeynep Tufekci
(che è andata nei luoghi della Primavera araba) sottolinea un aspetto a mio parere molto
importante: le nuove tecnologie si dimostrano molto utili nel raccogliere persone che
sanno cosa “non vogliono” (fase “no”) ma non funzionano poi a livello
“programmatico/operativo”, ovvero nella fase “go”, in cui si dovrebbe stabilire cosa
volere e dove andare. Un limite analogo mi pare si possa ravvisare anche nel caso del
Movimento 5 stelle, nato e cresciuto grazie alla rete (a forza di “vaffa” - fase “no”), ma
poi incagliatosi al momento dell’azione. E questo vale per tantissime iniziative/proteste
nate sui social network: cliccare su una petizione non equivale a fare la rivoluzione.
Sembra un concetto banale, ma di fronte all’analfabetismo digitale (soprattutto dei
nostri connazionali) non si può dare nulla per scontato. Questo mi sembra un concetto
fondamentale quando si parla di social media, che tante volte fanno pensare a favolosi
giochi nuovi messi a disposizione, però, senza libretto d’istruzioni. Ecco, io credo che di
quei libretti ci sarebbe un estremo bisogno. Qui non si tratta semplicemente di insegnare
le regole del gioco a ragazzi in età scolare – che, essendo nativi digitali, sicuramente le
conoscono e ne comprendono la portata molto meglio degli adulti –, ma di contrastare
l’analfabetismo dei cosiddetti “migranti digitali”, e in particolare di personaggi pubblici
che troppo spesso mancano di consapevolezza riguardo alle conseguenze delle proprie
“esternazioni” in rete. Si pone, sempre e comunque, il problema culturale, a partire dal
linguaggio e dalle sue forme, come evidenziato nel terzo e ultimo capitolo di questo
lavoro.
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Capitolo 1. Il web 2.0 siamo noi
In questo capitolo, mi occuperò del web 2.0 analizzando come tale evoluzione dei
sistemi comunicativi a livello internazionale nei media digitali abbia influenzato e
modificato la performance identitaria, le manifestazioni e i canali dei rapporti sociali.
Rispetto a qualche anno fa, Internet ha cambiato faccia: con l’avvento dei social media,
o media digitali, il web ora è un mondo fatto principalmente di persone. È questo il
grande cambiamento degli ultimi anni, che configura ormai un Web 2.5, con i siti di
social network, le start up e la connessione in mobilità che consentono di navigare in
rete in qualsiasi momento della giornata, ovunque ci si trovi. È venuta meno ogni
soluzione di continuità tra la vita “reale”, “offline”, e quella “online”, che di “virtuale” e
“irreale” non conserva più nulla: esse si dipanano su diversi palcoscenici, ma con le
stesse modalità, influenzandosi e completandosi a vicenda, contribuendo allo stesso
modo alla formazione, negoziazione (continua) e presentazione del sé, e modificando il
sistema di relazioni con gli altri, in un gioco di continui rimandi che sta a metà fra la
pubblicizzazione della sfera privata e la privatizzazione di quella pubblica. Se fino alla
metà degli anni Duemila il web era un mondo parallelo in cui giocare, principalmente,
ad essere qualcun altro, ora su Facebook e sugli altri siti di social network ci si imbatte
nella versione digitale della realtà, una realtà spesso parziale, non sempre abbellita, ma
comunque presentata senza mediazione, cioè non “rappresentata”. Una sorta di versione
formato internet del Grande Fratello, in cui ognuno interpreta il ruolo di se stesso e
interagisce con “le persone della sua vita”, parafrasando il famoso motto Facebookiano .
Perché, appunto, chi oggi si iscrive a un sito di social network come quello di
Zuckerberg non sta cercando nuovi amici (e se invece lo fa, ha sbagliato indirizzo) ma
vuole casomai ritrovare i vecchi amici e compagni di scuola persi di vista, o
approfondire e sviluppare relazioni potenziali con persone che già, in qualche modo,
fanno parte della sua vita. La realtà si esprime in tutta la sua ridondanza attraverso una
sorta di individualismo di massa che finisce per appiattire e banalizzare qualsiasi
concetto, a partire da quello di “amico”: raggiunta la quota 5000, ha ancora senso
parlare di “amicizia”? Insomma, la ricerca di nuovi contatti al di fuori della propria
cerchia di conoscenze (social browsing) non è l’attività principale svolta dagli utenti di
Facebook, che invece lo usano per mantenere nel tempo, ristabilire e consolidare