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Mi sono chiesto, quasi ogni giorno per tutti questi anni, se stavo
facendo un buon lavoro, se mi mantenevo aggiornato con le conoscenze
scientifiche, se davo ai miei pazienti ciò di cui avevano bisogno, se mettevo a
loro disposizione con sufficiente celerità e sicurezza tutto ciò che il progresso
tecnologico andava producendo, se stavo costruendo con loro “uno stato di
completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solamente l’assenza di
malattie o infermità”. Mi sono sentito rincuorato da ogni manifestazione di
stima e di gratitudine che ho ricevuto, soprattutto da parte delle persone più
umili e semplici che ho incontrato; ho sofferto professionalmente ed
umanamente ogniqualvolta sono state rivolte critiche ed osservazioni a me e ai
miei collaboratori; ho cercato di fare tesoro di ogni esperienza e di stabilire con
ogni paziente quella “alleanza terapeutica” che è premessa ad una relazione di
cura che, indipendentemente dal suo esito, è vissuta come uno sforzo comune,
compreso e condiviso fino in fondo.
Ma le domande non sono rivolte solo alla mia capacità e competenza
professionale. La crisi del medico attuale è una crisi a tutti i livelli:
epistemologico, metodologico, etico, esistenziale. In discussione è non solo la
propria collocazione individuale all’interno della professione medica e della
struttura sanitaria così come sono oggi configurate, ma la definizione stessa
della medicina e del medico: quali sono i suoi scopi, i suoi valori di fondo, il
suo oggetto, il suo modo di procedere, i suoi criteri conoscitivi. Così ho cercato
soccorso, o consolazione, come Boezio dalla sua cella, nella filosofia. Ho
trovato le risposte?
La filosofia, si sa, risponde come può ai problemi e alle inquietudini
che lei stessa ridesta. Per Wittgenstein la filosofia “tratta una questione come
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una malattia”, e come risultato ne ricava “qualche schietto non senso e dei
bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio”.
Ma forse sono proprio questi bernoccoli e questo senso del limite ciò che il mio
intelletto andava cercando.
Medico, medicina, rimedio: tutti questi termini derivano dal latino
“mederi”, che vuole dire “guarire”, ma anche “intendere”, “conoscere”: il
medico è “colui che conosce ed esercita l’arte di curare le malattie”, che
esercita una pratica guidato dalla “mente”, che fa da “mediatore” tra chi è
malato e lo “stato di benessere” a cui questi aspira (Panigiani, 1988, p. 833; cfr.
Cavicchi, 1999, p. 28). Dallo stesso verbo deriva la forma intensiva “meditare”,
che significa “misurare” con la “mente”, “ripensare”, “riflettere”. Oggi, forse,
si bada troppo alle misure, in campo clinico, statistico, economico, di
“customer satisfaction”, di rischi/benefici e via misurando, e meno al “volgere
nell’animo, considerare alcuna cosa fermandovi a lungo il pensiero” (ivi).
“Misurare” e “meditare” sono parti integranti del “medicare”; il dialogo fra
medico e paziente, la presenza stessa del medico, con la sua empatia e la sua
compassione, sono atti terapeutici, come e più dei farmaci e degli interventi
chirurgici; meditando si ridefiniscono i propri valori, obiettivi, desideri e
aspettative; e se si rischia qualche bernoccolo, be’, è tempo di cominciare a
rischiare, tutti noi, clinici, ricercatori, industrie farmaceutiche, epistemologi e
moralisti, politici e cittadini, pazienti ed “esigenti”.
Termino il corso di studi con questa tesi, frutto del mio curriculum
universitario e delle mie notti di guardia in reparto, dei trial clinici
randomizzati e dei trattati logico-filosofici, dello sguardo accigliato dei
professori in sede di appello e di quello disperato dei pazienti a cui è stata
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comunicata una diagnosi senza appello. Agli uni e agli altri, dai quali ho
imparato cose che non sarei in grado di descrivere neppure in un’opera
enciclopedica, dedico queste pagine, nella speranza che filosofia e medicina,
come dice Jaspers, imparino a “dominare la stoltezza” di un mondo che sembra
aver perso il senso del limite e della finitezza umana.
Un ringraziamento particolare va alla dottoressa Giuditta Sfondrini per
il prezioso aiuto, non solo materiale, nella stesura e nella revisione del lavoro.
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Introduzione
L’Arte è fatta di tre cose: la malattia, il
paziente e il medico; quest'ultimo è il
servo dell'arte; il paziente deve aiutare il
medico a combattere la malattia.
Epidemie I, 5
Per Ippocrate la medicina è un’arte (tèchne), ”l’arte lunga”, da
apprendere con devozione da un maestro e tramandare con affetto filiale al
discepolo, di cui il medico è “servo”. In realtà la scuola di Kos ha il merito di
aver sottratto la medicina alla superstizione e averla consegnata alla razionalità
e alla osservazione empirica. E’ quindi più che una tecnica priva di fondamento
teorico, come dimostra lo stesso Corpus Hippocraticum, che testimonia una
curiosità “scientifica” ed una concezione naturalistica che vede la malattia
come un disequilibrio fra l’ambiente “esterno” (cibo, acqua, clima, aria), e
quello “interno“ (umori). Il tipo di apprendimento che ne risulta è, al pari di
quanto accade nelle scuole filosofiche dell’antichità, un insieme di conoscenze
teoriche e di attività pratiche tese a formare un “professionista” preparato,
pronto a leggere i segni e i sintomi del paziente, umanamente dotato, discreto,
non venale, disinteressato, in grado di ispirare fiducia. La medicina è quindi fin
da quei lontani inizi un sapere, un saper fare e un saper essere.
Si delinea già allora un triangolo ai cui vertici sono la malattia, il
medico che la combatte e il paziente, che è vittima della malattia e alleato del
medico. Il triplice rapporto che si instaura (paziente-malattia, medico-paziente,
medico-malattia), è chiaramente asimmetrico; il medico è la parte attiva, al
paziente è chiesta fiducia e volontà di adeguarsi alle prescrizioni (oggi si
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direbbe “compliance”, v. oltre p. 126). Questa asimmetria ha dato luogo al
cosiddetto “paternalismo medico”, per cui il medico è visto come un’autorità
morale, in grado di sapere qual è il bene del paziente più e prima del paziente
stesso, e di conseguenza di “ordinare” comportamenti e stili di vita.
Dall’inizio del XIX secolo la medicina “scientifica” ha cambiato
molti dei suoi paradigmi: da una concezione della malattia come alterazione
dell’omeostasi si è passati ad una caratterizzazione anatomo-patologica
(malattia come patologia d’organo), quindi, con l’avvento della microbiologia,
ad una classificazione etiologica (malattia come conseguenza dell’azione di un
agente patogeno), poi ancora ad una visione fisiologico-biochimica (alterazione
di una funzione), e più recentemente, ad un’interazione fra genoma e ambiente,
introducendo concetti come “predisposizione”, “fattori di rischio”, ecc. I grandi
progressi della farmacologia e della tecnologia diagnostica hanno ridotto
sempre più la necessità dell’interazione fisica fra medico e paziente,
l’importanza della semeiotica classica (ispezione, percussione, palpazione,
ascoltazione), dell’anamnesi raccolta dalla viva voce del paziente, creando un
distacco crescente fra chi richiede le cure e chi le fornisce. L’aumento
generalizzato dell’istruzione e dell’informazione - spesso incompleta e
imprecisa - ha creato, almeno nei Paesi industrializzati, illusioni e false
aspettative, modificato la percezione della malattia e messo in crisi il
tradizionale rapporto di fiducia ed empatia fra medico e paziente. A ciò si sono
aggiunti i problemi di economia sanitaria, le pressioni delle aziende legate alla
salute, la globalizzazione e le contraddizioni sempre più evidenti fra Paesi
ricchi e Paesi poveri. Il triangolo ippocratico scricchiola sui tre lati, i suoi
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vertici sono meno delineati, le linee che li uniscono sembrano interrompersi o
distorcersi.
Il mio intento è di mettere in luce i problemi etici nati da questa
evoluzione tecnologica e sociale e proporre, se non delle soluzioni, alcune
riflessioni per ricostruire su basi nuove e più consapevoli un rapporto che mette
in gioco conoscenze, abilità pratiche e valori umani indispensabili a realizzare
quel “diritto alla salute” sancito dalla Carta Costituzionale del nostro Paese.
Il lavoro è diviso in tre parti, corrispondenti ai tre lati del “triangolo”:
ξ nella prima parte viene considerata la rivoluzione tecnologica avvenuta
a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e le sue implicazioni
nella percezione dei concetti di salute, malattia e morte da parte degli
uomini e delle donne del nostro tempo;
ξ nella seconda parte si affrontano criticamente i progressi nella
conoscenza medica e le loro conseguenze nella pratica clinica e nella
sanità, anche per l’emergere di nuove patologie dovute alla
globalizzazione, alla modificazione dei comportamenti ed
all’invecchiamento progressivo della popolazione;
ξ nella terza parte si analizza l’evoluzione del rapporto medico-paziente, i
problemi comunicativi ed etici della pratica medica e nell’informazione
sanitaria.
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Parte I – L’evoluzione del concetto di salute e le sue implicazioni
etiche e sociali (rapporto paziente-malattia)
1. L’era tecnologica e la confusione tra mezzi e fini
I sessant’anni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale sono
stati caratterizzati, oltre che da notevoli trasformazioni politiche e sociali, da
un’espansione e una penetrazione della tecnologia nella vita degli uomini e
delle donne che popolano il pianeta. Lo stesso evento che ha posto fine al
conflitto, più che un’operazione militare, è stata una dimostrazione pratica
dell’enorme potere della tecnologia. Le esplosioni atomiche che oscurarono il
cielo di Hiroshima e Nagasaki fecero prendere coscienza all’umanità, forse per
la prima volta nella storia, della sua raggiunta capacità tecnica di
autodistruggersi e di distruggere il mondo che la ospita (Trimarchi, 2003, p. 7).
Da allora, in modo forse meno appariscente ma più pervasivo, la tecnologia è
entrata nelle case e nelle vite di ognuno di noi. In Italia recentemente il numero
di telefoni cellulari ha superato quello degli abitanti; il numero di autoveicoli
circolanti (dati ISTAT 2003) supera i 44 milioni, 768 per mille abitanti, contro
i 480.000 (10 per mille) del 1950; apparecchi quali i computer, i forni a
microonde, i condizionatori ambientali, non sono più un lusso per pochi, e il
loro prezzo risulta alla portata di molti cittadini a reddito medio-basso, magari
utilizzando i sempre più diffusi pagamenti rateizzati e il credito al consumo.
“Tecnologia” è un termine di derivazione greca composto
aggiungendo il suffisso “-logia”, con cui si denota il carattere di ragionamento
scientifico di una disciplina, alla parola “tèchne”, che si riferisce all’arte intesa
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come capacità di produrre, di fare. Esso indica la “dottrina sull’immediata
applicazione delle scienze fisiche, chimiche e matematiche alle arti ed ai
mestieri, sì che gli artefici non faccian contro i veri principii scientifici”
(Pianigiani, 1988, pp. 1414-5). Dunque, l’unione di scienza e arte pratica, di
sapere e saper fare, che non può non essere giudicata positivamente dal
momento che unifica le due massime aspirazioni dell’uomo, la conoscenza e la
creatività, ”homo sapiens” e ”homo faber”.
In realtà questo concetto nasconde contraddizioni e conflitti, sia
interni al processo di produzione dei beni tecnologici, sia sul piano sociale e
culturale. La scienza, in quanto attività di ricerca, non incontra limiti se non in
ciò che non si può conoscere; la tèchne pone domande pratiche, problemi da
risolvere nel quotidiano o in un futuro dai confini delimitati. Se la scienza
applicata si limita a dare la migliore risposta possibile a tali quesiti, la
tecnologia è la ricerca del mezzo più adeguato per conseguire un fine stabilito.
Ma in realtà la scienza rivendica per sé una libertà di azione e di pensiero che
la svincola dai suoi fini pratici, una pretesa di neutralità che la renderebbe
autonoma e non manipolabile dall’esterno. A sostegno di tale posizione vi sono
innumerevoli dimostrazioni, anche nella storia della medicina, che i migliori
risultati scientifici si sono ottenuti per un caso fortuito, mentre il ricercatore era
“distratto” o era intento a tutt’altro. I casi di cosiddetta “serendipity” spaziano
dalla nitroglicerina alla penicillina, dal rayon al Viagra, dal forno a microonde
alla vaccinazione antivaiolosa. Questa indipendenza della ricerca dal
raggiungimento di un obiettivo predefinito, unita ad una logica di mercato che
pretende una ricaduta in termini economici che ripaghi del capitale investito,
sta portando sempre più la tecnologia verso la creazione di nuovi bisogni che
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rendano desiderabile ciò che produce. La logica che attualmente la governa
sembra dire “sono capace di farlo, quindi è giusto che lo faccia”. L’andamento
accelerato della produzione tecnologica e la pressione del mercato non lasciano
il tempo di riflettere sulle conseguenze a medio e lungo termine di molte di
queste “invenzioni”, che possono mettere a rischio la salute, l’ambiente, la
stessa sopravvivenza.
Già nel 1941, ben prima di assistere all’esplosione atomica che gli
fece esclamare “se solo l’avessi saputo, avrei fatto l’orologiaio”, Albert
Einstein in una conversazione radiofonica ebbe a dire:
A qualsiasi cosa portino quegli strumenti [i concetti scientifici] nelle
mani dell’uomo, tutto dipende dalla natura dei fini che si è prefisso il genere
umano. Una volta che quei fini esistano, il metodo scientifico fornisce i
mezzi per realizzarli. Ma esso, di per sé, non può indicare i fini […]. La
perfezione dei mezzi e la confusione dei fini stanno a caratterizzare – a mio
parere – la nostra età. Se noi desideriamo sinceramente e intensamente la
salute, il benessere e il libero sviluppo delle qualità intellettuali di tutti gli
uomini, noi non avremo difficoltà a trovare i mezzi per quei fini (Einstein,
1996, p. 252).
Più recentemente, Jonas fa notare come:
…il rapporto tra mezzi e scopi […] non è univocamente lineare, ma
dialetticamente circolare. Scopi noti, da sempre perseguiti, possono essere
conseguiti in modo migliore grazie a nuove tecniche che essi stessi hanno
suggerito. Reciprocamente – e in modo sempre più caratteristico – nuove
tecniche possono suggerire, produrre, persino imporre nuovi scopi cui
nessuno prima aveva mai pensato, e questo semplicemente grazie all’offerta
della loro realizzabilità (Jonas, 1997, p. 11).
Fra le cause di questa “coazione verso il progresso tecnico” Jonas
mette, oltre alla già citata pressione della concorrenza, la sovrappopolazione e
la minaccia dell’esaurimento delle riserve naturali, il “mito di una vita sempre
migliore”, l’appetito risvegliato dalle possibilità, la volontà di potenza
illimitata sul mondo inanimato o, più modestamente, le necessità di dominio o
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di controllo di uno Stato, sia di tipo liberale che socialista. Ne conclude che
l’impulso verso il progresso tecnologico non dipende dal sistema capitalista,
ma ha radici più profonde nell’animo umano.
2. La scomparsa del mito e lo sradicamento etico
Nel suo celebre saggio “Nemesi medica. L'espropriazione della
salute” del 1976, Ivan Illich prosegue la sua critica radicale e serrata contro
l’eccessivo sviluppo tecnologico già iniziata con “Descolarizzare la società”
del 1971 (l’obiettivo era in quel caso l’educazione scolastica) e “La
convivialità” del 1973, che mette sotto accusa l’intera struttura della società
industrializzata. La sua tesi è che una crescita non controllata dell’attività
industriale (scuola e sanità sono per lui divenute dominio dell’industria nella
società contemporanea) porti ad un livello oltre il quale la produttività diventa
negativa, una “controproduttività”.
La controproduttività è qualcosa di diverso sia dal costo individuale sia
da quello sociale: è distinta dall’utilità decrescente ottenuta per unità
monetaria e da tutte le forme di disservizio esterno. Si verifica ogni volta
che, paradossalmente, l’uso di una istituzione toglie alla società quelle cose
che l’istituzione era destinata a fornire […]. L’intensità iatrogena
dell’impresa medica è solo un esempio particolarmente doloroso delle
frustrazioni generate dalla sovrapproduzione […]. Fondamentalmente essa
non è dovuta né ad errori tecnici né a sfruttamento di classe, bensì alla
distruzione, provocata dal regime industriale, delle condizioni ambientali,
sociali e psicologiche che sono necessarie per lo sviluppo dei valori d’uso
non industriali e non professionali. La controproduttività è il risultato di una
paralisi delle capacità pratiche autonome, indotta dal modo di vita
industriale (Illich, 2005, pp. 222-3).
Quella che per Einstein era la confusione sui fini e per Jonas è lo
scambio circolare fra mezzi e scopi, per Illich è la perdita dell’orizzonte dei
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valori, del limite invalicabile dell’azione umana, la perdita di un mito che ha
avuto la funzione di preservare la specie umana dall’autodistruzione.
Gli animali reagiscono alle modificazioni del loro ambiente adattandosi
con l’evoluzione. Soltanto nell’uomo questa sfida diventa conscia e la
risposta a situazioni difficili e minacciose assume la forma di un’azione
razionale e di un’abitudine consapevole L’uomo […] è l’unico essere che
sappia e debba rassegnarsi ai propri limiti una volta che li ha conosciuti
[…]. La capacità di ribellarsi e quella di perseverare, di resistere
ostinatamente e di rassegnarsi, sono tutte parti integranti della sua vita e
della sua salute. Ma la natura e il prossimo sono soltanto due delle frontiere
su cui l’uomo deve difendersi. Un terzo fronte da cui può venire una
minaccia fatale è sempre stato riconosciuto. Per restare in condizioni vitali,
l’uomo deve anche sopravvivere ai sogni, che finora erano modellati e
insieme tenuti a freno dal mito […]. Il mito prometteva all’uomo comune la
sicurezza su questa terza frontiera, purché egli rimanesse entro la sua
barriera. Garantiva invece la rovina a quei pochi che cercavano di raggirare
gli dèi. L’uomo comune moriva di malattia o di violenza; solo chi si
ribellava alla condizione umana diventava preda di Nemesi, la gelosia degli
dèi (Illich, 2005, pp. 273-4).
Nel mito di Prometeo spicca la figura eroica del protagonista. La
punizione divina (nemesi) per la superbia (hybris) della sua impresa, con cui
rubò il fuoco agli dèi, fu degna di un semidio, eternamente rinnovata dalle
divinità riparatrici che facevano ricrescere spietatamente ogni notte il suo
fegato che un’aquila divorava di giorno.
Oggi l’aspetto sociale della nemesi è cambiato. Con
l’industrializzazione del desiderio e la tecnicizzazione delle relative risposte
rituali, la hybris è diventata un fenomeno di massa. Il progresso materiale
senza fine è diventato l’obiettivo di Ognuno. La hybris industriale ha
infranto la cornice mitica che poneva limiti alle fantasie irrazionali, ha fatto
sembrare razionali le risposte tecniche a sogni insensati e ha tramutato
l’aspirazione a valori distruttivi in una cospirazione tra fornitore e cliente.
La nemesi che si abbatte ora sulle masse è l’ineluttabile contraccolpo del
progresso industriale, la nemesi moderna è il mostro in cui si è
materializzato il sogno industriale imperante. È presente dovunque ci sia
scolarizzazione universale, trasporto di massa, lavoro salariato industriale,
medicalizzazione della salute (Illich, 2005, pp. 274-5).
Per Jonas (1997, pp. 28-36) la tecnologia pone delle questioni nuove
all’etica, mai affrontate in precedenza. Egli ne individua cinque: l’ambivalenza
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degli effetti (la tesi di Illich: il “troppo” può essere più dannoso del “poco”, e
tuttavia la spinta è a produrre sempre di più); l’inevitabilità dell’applicazione
(la tecnica nega la possibilità di possedere un potere senza doverlo esercitare);
le proporzioni globali nello spazio e nel tempo (ogni realizzazione tecnica si
estende rapidamente per tutto il globo, ed i suoi effetti possono raggiungere
innumerevoli generazioni future); la rottura dell’antropocentrismo (l’intera
biosfera del pianeta risulta vulnerabile con tutte le sue forme di vita, e la
responsabilità delle azioni umane assume proporzioni cosmiche). Il quinto
tema etico è quello che Jonas chiama “l’emergere del problema metafisico”. La
domanda, apparentemente oziosa, è inquietante:
[..] se e perché debba esistere una umanità; perché dunque l’uomo debba
mantenersi così come l’evoluzione lo ha portato ad essere, perché si debba
rispettare la sua eredità genetica; perché addirittura debba esserci vita (Jonas
1997, p. 33).
Presupponendo che nessuno risponda negativamente, questo aggiunge
un imperativo categorico per l’umanità, quello di esistere;
Allora giocare in modo suicida con tale esistenza è categoricamente
proibito, e quelle imprese rischiose della tecnica nelle quali ciò costituisca
anche solo lontanamente la posta in gioco sono da escludersi fin dal
principio (ivi).
L’enunciazione di questo nuovo imperativo potrebbe suonare così:
“Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la
continuazione di una vita autenticamente umana”; oppure, in negativo, “Agisci
in modo tale che gli effetti della tua azione non distruggano la possibilità futura
di una vita siffatta”; oppure, semplicemente, “Non compromettere le
condizioni di una permanenza illimitata dell’umanità sulla Terra”; o ancora,
più in generale, “Nelle tue scelte attuali, includi la futura integrità dell’Uomo
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tra gli oggetti della tua volontà” (Jonas, 2001, p. 54; cfr. Illich, 2005, p. 279,
che commenta sull’elasticità del concetto di “vita autenticamente umana”).
La domanda che si pongono Jonas e Illich con le stesse parole è se sia
possibile fondare questo nuovo imperativo categorico senza restaurare la
categoria del sacro o del mito. La fede, dicono all’unisono (Jonas è un ebreo
ortodosso, Illich un prete cattolico che, benché in contrasto con la gerarchia
ecclesiastica al punto di autosospendersi “a divinis”, tale resta fino alla morte),
o c’è o non c’è; l’etica deve esserci per forza, per mettere ordine e nelle azioni
e regolare il potere di agire, e deve potersi reggere sulle sue basi mondane,
sulla ragione e sulla propria forza filosofica (ivi). Il compito etico non è quello
di ricostruire i vecchi miti, le colonne d’Ercole che costituivano la barriera che
separava l’uomo dall’autodistruzione; ma quello di distruggere i nuovi miti
della neutralità morale, dell’inarrestabilità e dell’intrinseca positività del
progresso tecnologico, di cui hanno finora goduto le relazioni della tecnica con
la materia; partendo dal riconoscimento delle nostre attuali illusioni e dal
recupero dell’autonomia personale nella designazione e nel perseguimento di
nostri fini.
3. La salute: da dono a diritto
Quanto esposto finora sembrerebbe non aver rapporto con il tema
della salute e della malattia: in relazione ad esso la divisione tra mezzi e fini
sembra chiaramente delineata, l’orizzonte etico alla portata della comprensione
di tutti, la bontà intrinseca del fine universalmente accettabile, il vantaggio del
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mezzo tecnologico per perseguirlo addirittura autoevidente. Che problemi
possono sorgere nello sforzo congiunto di medico e paziente per sconfiggere la
malattia e ristabilire la salute? In realtà l’era tecnologica ha segnato una vera e
propria rivoluzione nell’approccio diagnostico e nella strategia terapeutica in
medicina, e insieme una profonda crisi nella capacità di valutazione del proprio
stato di salute e del proprio bisogno di cure; questi due fattori insieme hanno
contribuito ad incrinare il rapporto di cura e la base razionale della percezione
di sé come essere sano o malato. Del primo mi occuperò nella prossima
sezione; ora cercherò di delineare le cause e le implicazioni del secondo.
Nel preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale per
la Salute (OMS), firmata il 22 luglio 1946 dai rappresentanti di 61 Stati ed
entrata in vigore il 7 aprile del 1948, si definisce la salute “uno stato di
completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solamente l’assenza di
malattie o infermità”. Questa definizione, criticata da molti fino dal suo primo
apparire (Hersch, 2003
1
, pp. 177-8; cfr. Hersch, 2006, p. 267; Berlinguer, 1991,
p. 170; Cosmacini - Satolli, 2003, p. 141), ma fondamentalmente condivisa dai
più, è in contrasto con quella puramente negativa di “assenza di malattia”, da
cui prende esplicitamente le distanze, e assimila sostanzialmente il concetto di
salute a quello di felicità. È un tentativo di considerare la salute in positivo,
riconoscendole una identità definibile in sé, e non semplicemente in
contrapposizione ad una situazione di sofferenza e disagio. È una definizione
ideale ed astratta, che non a caso è stata formulata nel clima di ottimismo,
anche medico-sanitario, della riconquistata pace planetaria, dopo la fine
della seconda guerra mondiale (Cosmacini - Satolli, 2003, p. 142).