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1.4 Le principali determinanti della felicità
Studiare la felicità e misurare empiricamente la sua distribuzione tra persone
e Paesi è importante per svariate ragioni, prima fra tutti per capire quanto si è
felici. Per esempio ci domandiamo quanto siano felici le persone che percepiscono
un reddito basso rispetto ai ricchi, i giovani rispetto ai vecchi, le donne in
confronto agli uomini, i cittadini rispetto agli stranieri. Ancora più importante è
capire quali siano le determinanti della felicità. A tal fine possiamo distinguere
cinque tipi di determinanti:
a) Fattori della personalità, quali autostima, autocontrollo, ottimismo,
estroversione e nevroticismo;
b) Fattori socio-demografici, come l’età, il genere, lo stato civile e
l’istruzione;
c) Fattori economici, come il reddito individuale ed aggregato, la
disoccupazione e l’inflazione;
d) Fattori contestuali e situazionali, come un particolare impiego e le
condizioni di lavoro, le relazioni interpersonali con i colleghi, i parenti,
gli amici, il coniuge, oltre che le condizioni di vita e la salute;
e) Fattori istituzionali, come il grado di decentramento politico e i diritti
alla partecipazione politica diretta dei cittadini. (FREY B. S., STUTZER
A., 2006, Economia e felicità. Come l’economia e le istituzioni
influenzano il benessere, pp. 9-21)
Quando si tratta di studiare il motivo per cui le persone sono felici o meno, gli
psicologi e i sociologi si concentrano principalmente sui fattori della personalità e
sui fattori socio-demografici, ma dal punto di vista economico questi fattori non
ricoprono un’importanza primaria.
In economia invece, tre sono i principali fenomeni che influiscono sulla
felicità: reddito, disoccupazione e inflazione. Iniziamo la nostra analisi partendo
dalla relazione tra reddito e felicità.
Diversi studi forniscono prove incontrovertibili che in media le persone che
vivono in paesi ricchi sono più felici di quelle che vivono nei paesi poveri. Questa
correlazione positiva tra reddito e felicità dipende da altre circostanze quali la
stabilità democratica, la tutela dei diritti umani, l’equità distributiva, etc. Tuttavia
l’aumento di felicità dovuto alle cose materiali svanisce. La soddisfazione dipende
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dal cambiamento e scompare con il consumo continuo. Tale processo chiamato
adattamento edonico porta le persone ad avere aspirazioni sempre più elevate
cosicché non si è mai del tutto soddisfatti. Il reddito o la ricchezza aggiuntivi
fanno aumentare la soddisfazione per la vita, ma non indefinitamente poiché le
maggiori opportunità rese possibili da un reddito più elevato non sempre
comportano un aumento di felicità. Infatti in molti Paesi industrializzati si assiste
ad un fenomeno sorprendente: nonostante negli ultimi decenni il reddito pro
capite medio sia chiaramente aumentato, il livello di felicità medio è rimasto
costante e, in alcuni Paesi, ha addirittura subito un calo. Le persone possono
permettersi di acquistare più beni e servizi ma non per questo sono più felici.
Esistono varie ragioni per cui il reddito non compra la felicità. Probabilmente la
principale è che appare impossibile trovare la felicità semplicemente guadagnando
e spendendo. La felicità infatti non ha prezzo, cioè non si può ottenere attraverso
mezzi materiali. Altra ragione è che le persone operano un confronto con gli altri.
Di fondamentale importanza è comunque sapere quali sono le persone con cui
viene operato questo tipo di confronto. Quello che conta è il reddito relativo: più
ci si confronta con un gruppo a reddito inferiore, più si è soddisfatti. Tuttavia non
bisogna trascurare il ruolo rivestito dalle aspettative di reddito ai fini del
raggiungimento della felicità: gli individui infatti non valutano il loro benessere
assoluto ma lo giudicano in relazione alle loro aspettative. Può dunque capitare
che alcuni, pur trovandosi in una situazione economica oggettivamente non
buona, si sentano comunque felici, mentre coloro che si trovano in una situazione
economica oggettivamente buona spesso si dichiarano infelici. Questo perché gli
individui tendono sempre a fare confronti con gli altri e si adattano facilmente alla
nuova condizione di benessere raggiunta. Le aspettative inoltre vengono
continuamente riviste verso l’alto e ciò comporta l’aumento del senso di
insoddisfazione della propria condizione. (POWDTHAVEE N., STUTZER A., 2014,
“Economics Approaches to Understanding Change in Happiness”, IZA
Discussion Paper No. 8131, pp. 2-18).
Le persone possono essere infelici anche a causa della disoccupazione anche
se non sono loro a venire licenziate. Possono temere di esserne colpiti e compatire
la sorte sventurata dei disoccupati. Possono percepire ripercussioni sull’economia
e sulla società quali maggiorazione delle imposte, aumento della criminalità
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dovuta al disagio sociale, minacce di proteste e rivolte. La disoccupazione
comporta dei costi, poiché si producono meno beni e servizi rispetto alla
situazione di piena occupazione e conseguentemente il benessere della
popolazione si riduce. Chi perde il lavoro subisce una diminuzione di reddito
compensato dal vantaggio derivante dall’aumento del tempo libero disponibile.
Inoltre, per chi è ufficialmente disoccupato si aprono possibilità di impiego e di
reddito nell’economia sommersa. È importante sottolineare che in un mercato
perfettamente concorrenziale non vi è disoccupazione forzata, ma solo la
disoccupazione di breve periodo di chi cerca un impiego dal momento in cui
abbandona il vecchio posto di lavoro fino a che non ne trova uno nuovo. Alcune
teorie partono dal presupposto che la forza lavoro massimizzi la propria utilità
confrontando la perdita di reddito conseguente alla disoccupazione, da un lato, e
l’incremento di tempo libero, nonché le migliori condizioni di lavoro raggiungibili
nel futuro, dall’altro. Se si adotta questo punto di vista la disoccupazione non
comporta alcuna perdita di utilità. La disoccupazione è dunque un fenomeno
volontario. Altre teorie però non condividono questa posizione perché il mercato
del lavoro non è così flessibile nella realtà e la disoccupazione determina una
perdita di utilità per chi ha perso il lavoro. L’unico modo per attenuare questa
perdita di utilità è istituendo dei sussidi di disoccupazione. Tuttavia anche in
quest’ultimo caso sorgono delle problematiche poiché sussidi troppo elevati e
protratti nel tempo potrebbero scoraggiare la ricerca di un’occupazione. Resta
comunque indiscutibile il fatto che la disoccupazione rende gli individui molto
infelici. Addirittura la riduzione del benessere conseguente alla disoccupazione è
maggiore rispetto a quella provocata da qualsiasi altra causa, compresi il divorzio
e la separazione. Se guardiamo a specifici gruppi di disoccupati si evidenziano
ulteriori risultati. Ad esempio, il benessere degli uomini è più colpito dalla
disoccupazione rispetto a quello delle donne perché gli uomini non riescono
facilmente ad abituarsi alla perdita del lavoro, mentre la capacità di adattamento
delle donne è più rapida grazie al ruolo significativo che la donna può assumere
nell’ambito della famiglia. Ancora la forza lavoro più giovane e quella più
anziana risentono della disoccupazione molto meno rispetto alle classi intermedie;
chi invece ha un’istruzione superiore subisce una riduzione di felicità maggiore
rispetto alla forza lavoro non qualificata. Conseguentemente le persone infelici
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possono avere meno successo nella vita lavorativa e perdere il lavoro con più
facilità. Al contrario le persone felici sono più capaci sul lavoro e quindi perdono
o abbandonano con meno frequenza il proprio impiego. (FREY B. S., FREY MARTI
C., 2012, “Economia della felicità”, pp. 45-70).
Come nel caso del reddito, gli individui tendono a valutare la loro situazione
mettendola a confronto con quella degli altri. Per la maggior parte delle persone la
disoccupazione abbassa il livello di felicità in modo contenuto se anche altre
persone condividono lo stesso destino. Resta comunque indiscutibile il ruolo
centrale che il lavoro occupa nella società odierna. È importante distinguere due
aspetti diversi connessi al lavoro:
a) caratteristiche intrinseche, le quali fanno riferimento all’esecuzione del
lavoro di per sé. Esempi sono: l’opportunità di avere autonomia nella
gestione delle proprie mansioni, la possibilità di utilizzare le proprie
capacità, la varietà delle mansioni, una supervisione di controllo o di
sostegno, opportunità di avere contatti personali.
b) caratteristiche estrinseche, le quali si riferiscono all’insieme delle
condizioni di lavoro. Esempi sono: paga (comprese le indennità
accessorie), condizioni di lavoro, sicurezza del posto di lavoro, status
sociale (es. rango sociale, occupazione di prestigio).
Questi due aspetti condizionano la soddisfazione lavorativa che si riflette
sulla prestazione lavorativa. È infatti del tutto ragionevole supporre che le persone
insoddisfatte non lavorino bene, si assentano più spesso, cambiano lavoro con
maggiore frequenza, hanno un incentivo minore a pensare seriamente se i compiti
che svolgono sono importanti per gli obiettivi della società per cui lavorano.
Anche un aumento del livello generale dei prezzi, ovvero l’inflazione, ha un
effetto rilevante sulla felicità delle persone che si considerano avverse
all’inflazione poiché aumenta il costo della vita e quindi diminuisce il reddito
reale. Esse però non prendono in considerazione il fatto che l’inflazione fa
aumentare il loro reddito nominale trascurandone i benefici. Chiaramente le
persone risentono dell’inflazione perché temono un futuro abbassamento nel loro
standard di vita, un peggioramento nella distribuzione del reddito, l’impatto
morale che avrebbe sulla coesione della società e le agitazioni politiche ed
economiche che ne derivano, oltre alle preoccupazioni per una perdita di prestigio
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a livello nazionale. Gli economisti distinguono tra inflazione attesa e inflazione
non attesa. Quando l’inflazione è attesa i soggetti economici possono adeguarsi
con poco dispendio; contrariamente l’inflazione non attesa ha l’effetto di uno
shock poiché provoca distorsioni e conduce ad investimenti eccessivi: per
finanziarsi infatti gli investitori ottengono dei prestiti che poi possono ripagare
con denaro che ha un minore potere d’acquisto.
Senza dubbio il livello generale di felicità viene influenzato da eventi politici
di rilievo quali ad esempio il rovesciamento di un governo, l’assassinio di un
dittatore, etc. Ne consegue che l’agitazione politica rende le persone scontente ed
è del tutto ragionevole che una popolazione insoddisfatta ricorra a manifestazioni,
scioperi, rivolte e rivoluzioni provocando instabilità politica. La popolazione può
sentirsi infelice anche durante periodi di tensione nazionale dovuti a sviluppi
sfavorevoli in politica estera. La felicità delle persone è influenzata anche dal tipo
di sistema politico: è naturale aspettarsi che vivono in democrazie costituzionali
siano più felici perché i politici sono motivati a governare seguendo gli interessi
della propria cittadinanza. Dalle ricerche è emerso che la libertà politica,
economica e personale sono positivamente connesse alla felicità nei Paesi
sviluppati: cittadini felici sono infatti politicamente più attivi e quindi riescono a
conquistare spazi più ampi di libertà. (FREY B. S, STUTZER A, 2006, Economia e
felicità. Come l’economia e le istituzioni influenzano il benessere, pp. 89-145).
Tuttavia la democrazia diretta genera utilità diverse a seconda delle diverse
categorie di cittadini. Ad esempio le donne percepiscono un’utilità leggermente
minore rispetto agli uomini. Inoltre anche il decentramento politico – il
federalismo – ha un’influenza positiva sulla soddisfazione dei cittadini e favorisce
la democrazia diretta. In un sistema federale prevale la concorrenza tra stati della
federazione. Gli elettori possono manifestare le proprie preferenze emigrando in
altri Stati. L’autonomia locale determina un aumento significativo della
soddisfazione dei cittadini nei confronti della loro vita. Analogamente attività
quali il lavoro autonomo e il volontariato hanno un’influenza positiva sul
benessere individuale. L’autonomia professionale determina un più alto livello di
autorealizzazione e libertà anche se ciò non si traduce necessariamente in un
maggiore guadagno. I lavoratori dipendenti invece devono seguire le disposizioni
dei loro superiori e rispettare la gerarchia. Ne consegue che i lavoratori autonomi
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sono più soddisfatti rispetto ai lavoratori dipendenti. Inoltre le persone possono
trarre utilità semplicemente dal fatto di aiutare gli altri. Per questo motivo chi fa
volontariato si dichiara più soddisfatto rispetto a chi non fa attività di volontariato.
(FREY B. S, FREY MARTI C., 2012, “Economia della felicità”, pp.70-91).
Altra importante analisi della felicità è collegata al fenomeno della povertà,
fenomeno che esiste ed esisterà sempre ma con delle importanti differenze. In
passato infatti era considerato povero chi era disoccupato. Oggi invece la povertà
è legata ai livelli di consumo e in particolare al sottoconsumo. La nostra società è
infatti una società dei consumi basata sull'identificazione, vera o presunta, della
felicità personale con l'acquisto, il possesso e il consumo continuo di beni
materiali, generalmente favorito dalla moda o dall'eccessiva pubblicità. In passato
il lavoro veniva concepito come strumento principale per assolvere al dovere di
consumare. Oggi questo è quasi impossibile perché sono cambiate le
caratteristiche del mercato del lavoro: il lavoro stabile è sempre meno diffuso e si
limita a vecchie industrie e professioni mentre i nuovi posti di lavoro sono in
genere a tempo determinato o parziale, senza alcuna garanzia di continuità, né
tanto meno di stabilità, e spesso si combinano queste occupazioni con altra attività
complementari. La flessibilità è diventata la nuova parola d’ordine che sta a
significare vivere nell’incertezza e nell’impossibilità di fondare sul lavoro la
propria felicità, salvo forse per coloro che svolgono attività altamente qualificate e
privilegiate. Al pari di ogni altra cosa che può diventare oggetto di desiderio, il
lavoro deve essere interessante, vario, stimolante e suscitare sempre nuove
sensazioni. I lavori monotoni, ripetitivi, meccanici, piatti, che non richiedono
alcuna iniziativa né promettono alcuna sfida o possibilità di misurarsi e farsi
valere, sono tediosi per definizione e non determinano la soddisfazione
dell’individuo. Questa tipologia di lavoro viene dunque scelta da coloro che si
accontentano di scambiare la propria forza lavoro in cambio della mera
sopravvivenza: immigrati, lavoratori provenienti da paesi poveri e disagiati, etc...
Conseguentemente il lavoro ricco di esperienze gratificanti, che gratifica la
propria personalità e dà senso alla propria vita, valore supremo, fonte di orgoglio
e di autostima, di rispetto o di notorietà è divenuto privilegio di pochi. Nascono
quindi nuove tipologie di povertà legate non solo all’assenza del lavoro ma alla
presenza di un lavoro che non si dimostra affatto gratificante. Per gran parte della