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Introduzione
La scelta di approfondire il rapporto tra archeologia sperimentale e divulgazione è
scaturita dalla mia personale partecipazione, durante l’estate del 2017, alla summer
school dell’Archeodromo di Poggibonsi intitolata “La materialità della storia:
archeologia sperimentale e living history”. Questa seppur breve esperienza di una
settimana, diretta dal professor Marco Valenti dell’Università degli Studi di Siena e
situata proprio all’interno della Fortezza Medicea di Poggio Imperiale che ospita
l’Archeodromo di Poggibonsi, il primo in Italia ad essere dedicato all’Alto Medioevo,
mi ha permesso di immergermi in un contesto di archeologia sperimentale ricostruttiva
e di scoprire quanto questa disciplina sia interessante anche quando è impiegata nella
sua declinazione divulgativa e didattica in un contesto più grande di archeologia
pubblica. La settimana all’Archeodromo è trascorsa tra lezioni frontali e laboratori
dedicati alla metallurgia del ferro, del bronzo, alla tessitura, alle tecniche di cottura dei
cibi, all’edilizia residenziale, alle tecniche di costruzione in legno, al reenactment e allo
storytelling; quei giorni mi hanno permesso di sperimentare in prima persona una serie
di lavori, procedimenti e tecniche che appartenevano alla quotidianità degli uomini del
passato; ciò mi ha permesso di acquisire alcune conoscenze pratiche ovviamente non
altrettanto acquisibili attraverso lo studio individuale, e in particolare ha stimolato in me
la voglia di esplorare un nuovo approccio alla scoperta della materialità del passato.
Questa esperienza ha fatto inoltre crescere in me la consapevolezza di cosa potesse
significare lavorare, creare e costruire nell’età carolingia.
Nasce proprio così questa tesi, dalla cognizione acquisita dell’importanza che
l’archeologia sperimentale dovrebbe avere, ma che purtroppo spesso rimane ovattata
sotto il peso di altre discipline apparentemente più strutturate e solide, e dal desiderio di
darne una maggiore visibilità.
Ho quindi deciso di articolare questa tesi in due capitoli, i quali corrispondono ai due
obiettivi che si vogliono raggiungere con questo studio: il primo è quello di tracciare per
tappe fondamentali, cronologicamente disposte, il percorso di una disciplina che ha
iniziato a essere riconosciuta come tale solamente dopo un secolo dai suoi primi
impieghi e che, a volte, ancora oggi è utilizzata in modo quasi inconsapevole da parte
dei suoi fruitori; il secondo mira a esporre le reali e concrete possibilità che offre oggi
l’archeologia sperimentale, caratterizzata dalle molteplicità di impiego, soprattutto
quando messa in contatto con l’archeologia pubblica. Nel primo capitolo,
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apparentemente semplice e lineare, sono state riscontrate numerose difficoltà a causa
della rarità o addirittura della mancanza di fonti specifiche e di libri unicamente dedicati
a questa disciplina, soprattutto nell’ambiente italiano. Nel secondo capitolo invece ho
deciso di dedicare maggior rilievo al concetto di “Archeodromo”, che come ho già
accennato è stato il motore che ha portato alla realizzazione di questo studio, con
particolare riferimento proprio alla situazione italiana, che non si trova assolutamente in
difetto rispetto a quella europea, esaminando poi il fortunato caso dell’Archeodromo di
Poggibonsi. Infine, andrò ad analizzare e commentare in dettaglio le attività a cui ho
partecipato durante la summer school.
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1. L’archeologia sperimentale
1.1 Definizione
Il termine “archeologia sperimentale” indica la disciplina che ha come obiettivo la
verifica di ipotesi archeologiche attraverso l’utilizzo di esperimenti replicativi
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. Tramite
questo campo di studi gli archeologi hanno la possibilità di indagare molti aspetti della
materialità del passato verificando o scartando le ipotesi e le congetture formulate in
precedenza sulla base dell’interpretazione dei dati archeologici disponibili.
1.2 Breve storia della disciplina
1.2.1 Gli albori di una nuova tecnica di indagine
Se da sempre i rinvenimenti fortuiti di reperti antichi, quando riconosciuti come tali,
hanno catturato l’interesse degli uomini, è solo per il desiderio di soddisfare una
curiosità istintiva che si realizza la necessità di interazione con l’oggetto stesso. I primi
ad utilizzare dei reperti in tal senso non furono quindi archeologi ma i loro casuali
scopritori. All’inizio del secolo XIX un ritrovamento fortuito di un corno di bronzo, in
Irlanda, spinse lo scopritore, il Reverendo Joseph Martin
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, ad utilizzarlo chiedendosi
quale fosse il suono che era in grado di generare e suscitando il vivo interesse della
popolazione locale. All’alba dell’età contemporanea quelle che erano considerate solo
come curiosità locali presto divennero oggetto di seria attenzione per la nascente
comunità scientifica europea, in particolare anglosassone; non a caso lo stesso C. J.
Thomsen, ideatore del sistema delle tre età, fu tra i primi a condurre esperimenti con
strumenti musicali già prima del 1836, infatti ebbe modo di studiare sei lurer
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risalenti
all’età del bronzo e rinvenuti in Zelanda.
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L’origine vera e propria dell’archeologia sperimentale è collocabile intorno alla metà
del XIX secolo nel contesto della ricerca preistorica e dell’osservazione etnografica,
quando il clima culturale europeo, influenzato dalle emergenti ideologie positivista ed
evoluzionista, focalizzò l’attenzione sugli albori della civiltà umana. L’obiettivo dei
nascenti studi del mondo scientifico era quello di individuare le varie tappe
dell’evoluzione dell’uomo occidentale “civilizzato” in quanto considerato vertice del
1
VIDALE, M., Sperimentale, archeologia in Dizionario di archeologia a cura di R. Francovich e D.
Manacorda, Laterza, Bari 2000, p. 280.
2
MACADAM, R., Ancient Irish trumpets, «Ulster Journal of Archaeology», 8 (1860), p. 103.
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Trattasi di corni musicali in bronzo incurvati, con un’apertura a forma di disco o a campana.
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COLES, J., Archeologia sperimentale, Longanesi, Milano 1981, pp. 158-159.
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progresso umano, partendo dallo studio delle contemporanee popolazioni extraeuropee
che secondo il pensiero dell’epoca appartenevano ad uno stadio evolutivo “primitivo”.
Queste divennero oggetto di interesse per la comunità scientifica in quanto considerate
vere e proprie sopravvivenze delle antiche popolazioni preistoriche.
Il primo studio portato a termine con l’applicazione di metodologie sperimentali è
individuabile nella pubblicazione “Skandinaviska nordens urinvånare”, datata 1838,
dell’archeologo, e non a caso, naturalista Sven Nilsson (1787-1883), il quale presenta
un’ipotesi ricostruttiva delle attività di caccia e pesca nella Scandinavia dell’età della
pietra, sostenuta anche utilizzando paralleli etnologici.
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Successivamente a partire dalla
seconda metà dell’Ottocento, l’attività di sperimentazione ha continuato a concentrarsi
prevalentemente verso lo studio e l’analisi funzionale di strumenti litici, con particolare
attenzione per le tecniche di scheggiatura. In questo periodo due grandi personaggi
centrali per l’archeologia preistorica, definirono e affinarono sempre più le metodologie
di ricerca sperimentale, anche alla luce dei numerosi manufatti in selce rinvenuti in
Europa: John Evans (1823-1908) e John Lubbock (1834-1913).
Sir John Evans, uno degli ultimi dilettanti inglesi, si dedicò approfonditamente allo
studio funzionale di utensili in pietra e bronzo. Importante fu il suo contributo al
dibattito sorto in merito all’autenticità dell’ascia a mano.
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Evans dimostrò
sperimentalmente che ricavare un’ascia da una pietra, seppur di modesta durezza, era
possibile in circa quattro ore di lavoro. Tale manufatto litico fu replicato grazie
all’utilizzo di una corda con sabbia, che sfregando avanti e indietro generava una forza
di attrito in grado di incidere la pietra. Infine, riuscì a riprodurre persino il foro per il
manico presente in qualche ascia neolitica applicando lo stesso principio ma adoperando
strumenti diversi.
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Sir John Lubbock, in seguito Lord Avebury, nel 1865, con il libro divenuto best-seller
“Prehistoric Times” ¸ ebbe il merito di aver integrato il sistema delle tre età, proposto da
C. J. Thomsen nel 1836, con la suddivisione dell’età della pietra tra Paleolitico e
Neolitico.
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Lubbock si interessò molto alla metodologia introdotta da Nilsson, tanto che
tradusse l’edizione inglese del suo libro nel 1868, curandone anche l’introduzione.
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GIARDINO, C., L’archeologia sperimentale e la preistoria: un contributo alla conoscenza del passato,
«Conimbriga», 51 (2012), p. 9.
6
BRAY, W., TRUMP, D., Evans, Sir John in Dizionario di archeologia, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1973, p. 104.
7
COLES, J., Archeologia sperimentale, Longanesi, Milano 1981, pp. 109-110.
8
BRAY, W., TRUMP D., Avebury, Lord in Dizionario di archeologia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
1973, p. 38.
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Dimostrazione chiara del suo interesse per una metodologia di indagine empirica fu
l’avvalersi delle competenze dei fabbricanti di pietre focaie ad uso bellico, ancora attivi
nella contea inglese di Norfolk, i quali sfruttavano giacimenti, tra l’altro utilizzati già
nel Neolitico, al fine di approfondire gli studi sulle tecniche di scheggiatura.
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Una svolta determinante e decisamente anticipatrice negli studi sperimentali è da
attribuire ad Augustus Pitt-Rivers (1827-1900).
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Dopo aver fatto carriera nell’esercito
britannico, nel 1880 ereditò una vasta tenuta a Cranborne Chase, un’area dell’Inghilterra
meridionale ricca di monumenti pre-protostorici; qui, dismessa l’uniforme si dedicò a
perfezionare l’attività di scavo fino a renderla una tecnica scientifica caratterizzata dalla
scrupolosa registrazione dei dati raccolti. Questa sua grande attenzione anche per il
dettaglio apparentemente più insignificante lo portò ad utilizzare la sperimentazione non
per replicare un oggetto o studiarne la tecnica di produzione, bensì con l’obiettivo di
registrare dati da utilizzare per l’indagine stratigrafica dei successivi scavi, aprendo così
la strada ad un nuovo e proficuo impiego dell’archeologia sperimentale. Pitt-Rivers, per
capire meglio le modalità di alterazione post-deposizionale dei fossati dell’età del ferro,
ne scavò alcuni e avendoli lasciati per qualche anno esposti agli agenti atmosferici
analizzò lo stato di disgregazione delle pareti
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, arrivando alla conclusione che non era
possibile stimare il tempo trascorso dall’avvenuta escavazione in quanto il riempimento
iniziale si dimostrava decisamente rapido mentre il successivo avveniva con molta
lentezza, prese inoltre nota di come il terreno superficiale si depositasse sul fondo.
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Per
svolgere questo esperimento utilizzò alcuni utensili agricoli rinvenuti durante gli stessi
scavi così da replicare l’azione di dissodamento e scavo del terreno nel modo più
verosimile possibile, sempre registrando i dati ottenuti.
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Malgrado l’importanza, gli studi condotti da Pitt-Rivers rappresentano un unicum nel
campo dell’archeologia sperimentale del suo tempo poiché ancora fino quasi alla metà
del secolo successivo l’attività di sperimentazione continuò a vertere principalmente
sulla semplice riproduzione litotecnica, talvolta avendo addirittura come fine la truffa a
9
GIARDINO, C., L’archeologia sperimentale e la preistoria: un contributo alla conoscenza del passato,
«Conimbriga», 51 (2012), p. 10.
10
BRAY W., TRUMP, D., Pitt Rivers, Augustus Lane-Fox in Dizionario di archeologia, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1973, p. 218.
11
GIARDINO, C., L’archeologia sperimentale e la preistoria: un contributo alla conoscenza del passato,
«Conimbriga», 51 (2012), pp. 10-11.
12
COLES, J., Archeologia sperimentale, Longanesi, Milano 1981, p. 60
13
ivi, p. 8.