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Introduzione
Partendo dagli albori della terza rivoluzione industriale (1970) ad oggi lo
sviluppo tecnologico ha raggiunto livelli inimmaginabili. Siamo quindi passati da
poche limitate (e assai costose) produzioni singole artigiane alla nascita del
mercato di massa, grazie a due precursori che inventarono la catena di montaggio
(Taylor e Ford), fondatori dei modelli produttivi taylorista e fordista.
A questo punto il problema fu quello di definire il valore di mercato delle
merci prodotte, per essere sicuri di trarre un giusto guadagno dalla produzione
industriale. Il modello taylorista e fordista puntavano all’ottimizzazione dei tempi
e dei costi, mirando alla suddivisione molecolare dei compiti in modo da ridurre al
minimo gli sprechi di tempo e la possibilità di errore.
Il grande pensatore e filosofo tedesco Karl Marx ritenne, facendo una
semplificazione, che il valore della merce doveva essere equivalente alle ore di
lavoro necessarie per realizzare il prodotto. Successivamente assisteremo alla
nascita delle grandi marche/multinazionali che determineranno un plusvalore sul
prodotto dato dalla celebrità e dal prestigio del marchio.
Un marchio famoso, come citato poc’anzi, per mantenere il vantaggio
competitivo deve sapersi differenziare in maniera unica e inimitabile; taluni
puntano sull’eccellenza del prodotto, sul prezzo, sul posizionamento strategico in
settori di nicchia, su fornitori e mercati particolarmente vantaggiosi.
Con il passare degli anni è nata l’esigenza, per i marchi più importanti, di
dimostrare la trasparenza e la correttezza del proprio modo di operare, a
differenza di altre aziende che adottavano soluzioni poco etiche per sbaragliare la
concorrenza o semplicemente per abbassare i costi, in modo da poter conseguire
profitti esorbitanti senza alcun rispetto per le persone e/o per l’ambiente
circostante.
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Con la liberalizzazione dei mercati e l’abbassamento di alcune frontiere
molte aziende, per abbattere i costi, hanno trovato in alcuni Paesi (Cina, Taiwan,
Indonesia e Pakistan per citarne alcuni) condizioni particolarmente vantaggiose
per produrre i propri beni: legislazione agevolata, bassi limiti d’età, tassazione
fortemente ridotta, assenza di sindacati e similari.
È interessante quindi vedere come operano le quattro multinazionali
oggetto di questa tesi (Apple, Samsung, Kellogg’s e Nestlé) per capire se, oltre ai
vantaggi ottenuti delocalizzando la propria attività in altri Paesi con un
conseguente abbassamento del costo del lavoro, hanno operato nel rispetto dei
lavoratori e/o hanno contribuito al miglioramento delle località ove si sono
insediati o se hanno solamente sfruttato il territorio per pura convenienza
economica, senza porsi problemi etici/sociali.
Questa tesi si concentra in particolare sul reporting sociale: ovvero sulla
rendicontazione della propria attività e del proprio impegno sul fronte della
responsabilità sociale e ambientale, ai fini di analizzarne struttura, stili e
contenuto.
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Cap. 1
La responsabilità sociale
Esistono numerose definizioni di CSR: secondo Bowen è il “dovere di
perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni, di seguire quelle linee
d’azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti
dalla società” [Bowen, 1953].
Secondo il premio Nobel dell’economia Milton Friedman (1976) l’unica
responsabilità sociale dell’impresa è produrre il massimo dei profitti, ma sempre
nel rispetto della legge e della morale corrente.
La business ethics nasce nel 1980 e gli studi successivi hanno dimostrato
che le imprese tese a perseguire gli interessi degli azionisti superando i vincoli di
legge (rafforzandoli con maggiori tutele) denotano una presa di coscienza
notevole, con un indotto a favore della comunità che sostiene l’impresa [G. Rusconi
2007].
L’organizzazione americana Business for social Responsibility (BSR) ritiene
che la responsabilità aziendale o corporate citizenship significa “gestire
un’impresa in maniera tale da soddisfare o superare costantemente le aspettative
etiche, legali, commerciali e pubbliche che la società ha nei confronti delle
aziende”.
Per il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD) la
responsabilità sociale d’impresa è il continuo impegno dell’azienda a comportarsi
in maniera etica e a contribuire allo sviluppo economico, migliorando la qualità
della vita dei dipendenti e delle loro famiglie, della comunità locale e più in
generale della società”. [Tencati, 2002]
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Secondo le recenti ricerche e dagli studi compiuti da Di Giulio, Migliavacca e
Tencati [2011] investire in responsabilità sociale è redditizio per l’azienda, in
quanto aumenta il suo valore borsistico e la considerazione presso gli stakeholder.
Tra i vantaggi riscontrabili per un’azienda socialmente responsabile
troviamo un minor costo del capitale, in quanto risulta un’azienda più affidabile e
responsabile rispetto ad altre che non adottano simili pratiche.
Non tutti i portatori d’interesse (stakeholder) hanno lo stesso peso e
partecipazione per l’azienda: si suddividono in stakeholder primari composti da
gruppi, organizzazioni e persone che contribuiscono attivamente alla
sopravvivenza dell’azienda (operai, banche e istituzioni bancarie, dirigenti…),
mentre quelli secondari partecipano in maniera passiva e recepiscono le
informazioni emanate dall’azienda ma senza una partecipazione diretta: stiamo
parlando dei mass media e dei gruppi d’interesse.
La responsabilità sociale dev’essere visibile e compresa anche dagli
stakeholder esterni, motivando consumatori ed azionisti a riconoscere un
plusvalore ad un’impresa socialmente responsabile.
Un esempio riportato dal professor Minoja a lezione riguardava un’azienda
che produce pallet eco-sostenibili, ottenuti soltanto con legno riciclato; il valore
aggiunto di questa caratteristica è risultato minimale, in quanto molti preferiscono
acquistare i pallet usati ad un prezzo inferiore di quelli eco-compatibili. In questo
caso la responsabilità sociale ha dei buoni presupposti di partenza ma se la
strategia non sarà mutata questa scelta potrebbe erodere le vendite di pallet, in
quanto i clienti non percepiscono il valore aggiunto e potrebbero rivolgersi altrove.
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La responsabilità sociale:
- non risponde ad una logica add-on (dev’esserci un cambiamento a
livello strategico, d’assetto valoriale e nella prospettiva d’analisi)
- non è filantropia (non è estranea al business ma fa parte del business
stesso)
- non è un ambito secondario nell’attività aziendale (non posso
relegare la CSR ad un’impresa sociale no-profit accessoria)
- deve coinvolgere tutti gli aspetti aziendali superando la normativa
vigente (colmando così le lacune e appianandole).
In tema di finanza etica dagli studi di Davidson e Worrell [1988] è emersa
una correlazione tra responsabilità sociale e buon andamento del titolo in borsa.
L’irresponsabilità sociale non sempre diminuisce il valore azionario (pensiamo ad
esempio alle frodi fiscali dove i risultati finanziari vengono modificati); per
ottenere questo effetto deve emergere la notizia, gli autori della frode (ed
eventuali complici o compiacenti) devono essere “scoperti in flagranza di reato”.
[Tencati e Perrini, 2008 e 2011]
L’ipotesi di partenza di questa tesi è basata sul fatto che quattro
multinazionali che ogni anno conseguono profitti notevoli possano (e debbano)
impegnarsi nell’ambito della responsabilità sociale.
Il motivo del perché siano invitate alla responsabilità sociale verrà individuato
nella letteratura in merito al fine di riportare le tendenze, teorie e correnti di
pensiero più diffuse.
L’origine della RSI può esser fatta risalire alle affermazioni di Bowen, che
sosteneva che un uomo d’affari dovesse preoccuparsi di una sfera di problematiche
che andava ben oltre il solo bilancio d’esercizio [Bowen, 1953 citato anche da
Tencati, Perrini, 2009]; una lezione valida e moderna ancora oggi, considerando le
visioni miopi di breve periodo che sono alla base di molte gestioni imprenditoriali
odierne.
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La responsabilità sociale integrata nella strategia può essere definita tale
quando “i fini di carattere sociale sono inclusi nella funzione-obiettivo dell’impresa
e il vantaggio competitivo sostenibile e la coesione sociale si alimentano a vicenda
nell’ambito di una valida sintesi socio-competitiva” [Minoja, 2008]. Secondo
Carroll (1979) una definizione onnicomprensiva di responsabilità sociale deve
includere le sfere economiche, legali, etiche e discrezionali.
La presenza di tante definizioni e il motivo per cui è così difficile definire la
responsabilità sociale riguarda anche gli stakeholder: con il passare degli anni le
attese si sono mutate e trasformate, rendendo così necessario un ascolto continuo
delle loro esigenze e problematiche e una ridefinizione continua del concetto di
RSI.
La stakeholder theory sostiene che l’impresa debba preoccuparsi, oltre che
del profitto e dell’innalzamento del valore azionario, anche di tutti gli altri
interlocutori che interagiscono con lei [Freeman, 1984], ribaltando completamente
la concezione tradizionale.
Donaldson e Preston nel 1995 distinguono tre tipi di stakeholder theory:
descrittiva, normativa e strumentale. Bisogna però individuare gli stakeholder più
rilevanti per l’impresa, in modo da essere maggiormente recettivi alle loro
richieste: la questione è stata affrontata da Mitchell, Agle e Wood nel 1997 e hanno
stabilito che il potere dello stakeholder e l’urgenza delle richieste sono due fattori
determinanti per l’impresa.
Un altro tema inerente è lo stakeholder management, ovvero come
dialogare con un pubblico variegato calibrando per ognuno il giusto linguaggio e la
giusta dose d’informazioni, cercando di soddisfare le richieste presentate dai vari
portatori d’interesse.
Sono propenso a condividere l’analisi di Tencati, Perrini e Russo sulle
strategie di CSR partendo dalle piccole medie imprese nella loro evoluzione in