1
INTRODUZIONE
Sebbene non sia un amante dei numeri, vorrei iniziare citando un dato molto
significativo che ci restituisce subito la dimensione del fenomeno che vorrei illustrare:
attualmente il numero di persone di fede musulmana è stimato intorno a un miliardo e
mezzo, circa un quinto della popolazione mondiale, secondo il rapporto «Il futuro della
popolazione musulmana globale» del Forum on Religion & Public Life
1
. Se questo
livello di crescita continuerà inalterato, i musulmani costituiranno il 26,4 per cento della
popolazione mondiale nell’anno 2030, calcolata in 8,3 miliardi di persone. Quanto
all’Europa, tra vent’anni l’8 per cento della popolazione sarà musulmano (attualmente la
media è del 6 per cento), mentre, in Italia, tale percentuale sarà del 5,4 per cento.
Occorre ricordare anche, per decostruire un facile stereotipo, che i musulmani vivono in
tutto il mondo e non solo nei paesi di cultura araba
2
. In questo senso l’associazione
dell’Islam con il mondo arabo non è cosi scontata come si potrebbe pensare e, anzi,
bisogna riconoscere come in quattordici secoli di espansione e diffusione della religione
musulmana, il nucleo originario si sia adattato a contesti culturali, storici e geografici
molto diversi e molto distanti tra loro, producendo una varietà di approcci molto
complessa, e spesso in conflitto, come testimoniano le varie correnti e scuole di
pensiero esistenti.
Appare subito chiaro, dunque, quanto forte possa essere l’interesse di analisti e
investitori per il mercato globale islamico, proprio per le sue dimensioni in forte crescita
e per il giro d’affari che si muove attorno ad esso. Anche qui basterà citare alcuni dati:
non si può non menzionare a questo proposito il settore della finanza islamica, vale a
dire la finanza conforme alle prescrizioni religiose che regolano per i musulmani il
corretto rapporto tra l'uomo ed il denaro che, sebbene rappresenti tuttora solo l’1 per
cento circa dell’industria finanziaria globale, dall’inizio del decennio e fino allo scoppio
della recente crisi economica del 2009, è cresciuta a ritmi molto sostenuti (tra il 10 e il
15 per cento all’anno), ed ha assunto un ruolo di primaria importanza in alcuni paesi. Il
settore ha conosciuto una rapida espansione geografica, dal Medio Oriente al Sud Est
asiatico all’Europa, con l’emergere di diverse borse che stanno assumendo sempre più
1
Si tratta di un progetto di indagine conoscitiva lanciato nel 2001 dal think thank di Washington Pew
Research Center
2
La maggioranza dei fedeli musulmani si trova infatti nel Sud Est asiatico (Malaysia e Indonesia), in
Bangladesh, in Pakistan e in alcuni paesi dell’Africa subsahariana, come la Nigeria, il Sudan, il Niger e il
Mali.
2
importanza come centri regionali e globali di finanza islamica (Bahrein, Dubai, Kuala
Lumpur, Londra). Negli ultimi anni inoltre, l’offerta di servizi finanziari islamici si è
diversificata, superando i confini dell’attività bancaria fino ad interessare tutti i
segmenti dell’attività finanziaria, ad esempio il settore delle obbligazioni e delle
assicurazioni per un valore complessivo di asset finanziari stimato intorno ai 500
miliardi di dollari
3
.
Ma non è solo il settore della finanza islamica ad essere in espansione: considerato il
fatto che tutti i fedeli sono anche consumatori e che i musulmani stanno acquisendo un
potere d’acquisto sempre maggiore, anche il settore del commercio internazionale sta
conoscendo una forte crescita, in particolare in relazione a tutti quei prodotti halal, cioè
leciti da un punto di vista religioso (dunque i prodotti conformi alle regole islamiche che
disciplinano il rapporto tra uomo e natura). Vi è dunque una forte domanda ‘eticamente
orientata’, ma questa, per essere gestita con successo, non può prescindere da una più
approfondita conoscenza delle esigenze e soprattutto della mentalità dei consumatori
musulmani a cui ci si voglia approcciare. Nell’economia reale, infatti, il ruolo dei valori
religiosi ed etici può essere di straordinaria importanza, rappresentando per molti un
valore aggiunto ed un vero e proprio bisogno sociale che può influire sugli
atteggiamenti e sui comportamenti di consumo.
In questo senso è auspicabile che le aziende occidentali che intendano
internazionalizzarsi e rivolgersi ai mercati islamici elaborino una strategia precisa per
avvicinarsi ad essi, fondata su una più approfondita conoscenza dei principi etici e
culturali locali, nella convinzione che la sola analisi quantitativa dei mercati, legata ai
soli indicatori di performance economica, non sia sufficiente a garantire il successo del
processo di internazionalizzazione e l’affermazione del prodotto sul mercato.
L’importanza di fattori di natura culturale e sociale non può più essere sottovalutata e,
anzi, spesso la loro acquisizione costituisce una condizione necessaria per l’efficacia del
rapporto economico e commerciale stesso.
E’ per questo motivo che, negli ultimi dieci anni, caratterizzati dai sempre più frequenti
e veloci flussi di persone, beni, servizi e stili di vita a livello globale, si è andato
sviluppando nel settore del marketing un approccio nuovo più sensibile alle componenti
culturali dei processi negoziali, noto come marketing interculturale o etnomarketing.
Tale approccio si fonda sull’intento di unire la sensibilità antropologica e l’analisi del
3
Tutti i dati qui riportati sono tratti da Finanza islamica e sistemi finanziari convenzionali. Tendenze di
mercato, profili di supervisione e implicazioni per le attività di banca centrale, a cura di Banca d’Italia,
«Questioni di economia e finanza», 73, Roma, 2010.
3
contesto storico, sociale e culturale con l’analisi di mercato: l’obiettivo è quello di
orientare la commercializzazione di determinati prodotti o servizi verso particolari
nicchie di mercato composte da gruppi etnicamente definiti che si presuppone siano
omogenei sia per la provenienza geografica che, soprattutto, per la lingua, i costumi, la
religione ed i valori etici, nella convinzione che tali gruppi di clienti possano
assomigliarsi anche per interessi, gusti e comportamenti d’acquisto.
In Italia l’etnomarketing si è diffuso principalmente per venire incontro al sempre più
massiccio mercato costituito dai migranti che costituiscono il target per eccellenza di
questo tipo di prodotti o campagne pubblicitarie. Le prime aziende a muoversi in questo
senso sono state le banche, le assicurazioni, gli operatori telefonici e le case editrici. Poi
il fenomeno si è allargato alle grandi catene di distribuzione alimentare, ai megastore
dell’arredamento, alle compagnie aeree e alle poste, solo per citarne alcuni.
Di marketing interculturale però, si può parlare non solo in riferimento ai migranti, ma
anche riguardo alle strategie intraprese dalle aziende che intendono rivolgersi a
consumatori caratterizzati da specificità culturale, come avviene nel caso dei fedeli
musulmani.
Una strategia adottata con successo dalle aziende nostrane, sia che esportino i loro
prodotti in paesi di religione islamica sia che si rivolgano a consumatori musulmani
presenti sul mercato interno, è, ad esempio, quella di dotarsi di una certificazione e un
marchio di qualità per prodotti halal rilasciata da enti di certificazione accreditati.
Questo titolo, obbligatorio per esportare prodotti in determinati paesi più ortodossi, non
è altro che una certificazione di qualità volontaria, di filiera e di prodotto, che
rappresenta il tentativo di coniugare i moderni sistemi di rilevamento di qualità
4
, in un
contesto di produzione altamente sofisticato e industrializzato come quello
contemporaneo, con i precetti coranici che le categorie di lecito/illecito.
Quanto brevemente accennato finora in via introduttiva dovrebbe condurci a una
riflessione critica sull’assioma per cui la globalizzazione spinge sempre e comunque
verso l'adeguamento passivo e l'omologazione a modelli economici e culturali
occidentali e capitalistici: sembra invece che possa esserci spazio anche per una
reazione e rielaborazione originale in seno all’Islam contemporaneo stesso. Ci troviamo
dunque di fronte a un Islam market friendly in grado di scendere a pragmatici
compromessi con il capitalismo globale. L’obiettivo è quello di coniugare valori
4
In questo senso, da un punto di vista tecnico, non differisce dalle procedure che le aziende già osservano
nell’ambito delle normative ISO e HACCP, compatibilmente a quanto stabilito dalla legislazione italiana
ed europea in materia di igiene e sicurezza.
4
religiosi e etica musulmana con l’aspirazione al successo economico e alla ricchezza in
termini individualistici, riformulando cosi la propria identità culturale e adattandola ai
tempi che corrono: che si tratti di una via islamica al capitalismo?
5
CAPITOLO I
Globalizzazione e localismi: la dimensione economica e la
dimensione culturale
1.1 Reti di relazioni globali
La realtà socio-economica contemporanea è sempre più caratterizzata e descritta dal
fenomeno della globalizzazione, che sembra investire ogni sistema sociale, economico,
politico e culturale in modo profondo ed irresistibile, estendendo i suoi effetti ovunque.
Il termine, sebbene di internazionalizzazione della produzione e del commercio si possa
parlare anche in riferimento ai secoli passati
1
, è di origine recente: fu coniato da
economisti e sociologi all’inizio degli anni Ottanta per definire l’insieme dei rapidissimi
cambiamenti in atto in quel periodo nel sistema economico mondiale, ed occidentale in
particolare, ma anche nei rapporti di integrazione fra gli Stati e nello sviluppo delle
tecnologie di comunicazione. Vari studiosi hanno provato a dimostrare la continuità
storica del fenomeno attuale di globalizzazione con le esperienze passate,
interpretandola come l’esito di un processo lunghissimo di integrazione economica e
politica e di modernizzazione che ha da sempre accompagnato lo sviluppo della civiltà
umana, subendo però una forte accelerazione, dalle imprevedibili conseguenze, negli
ultimi trent’anni. Quello in cui viviamo, come sottolinea A. Giddens, sembra essere un
mondo in trasformazione, che cambia vorticosamente, ci sfugge e che riusciamo a
definire e controllare a mala pena con le categorie di pensiero e le istituzioni solite,
divenute oramai obsolete.
L’attuale fase storica è senz’altro figlia del pensiero razionale, scientifico ed illuminista
occidentale, sviluppatosi all’insegna del progresso, della fiducia positiva nel senso della
storia, della tecnologia, e nel rifiuto di ogni residuo magico, religioso o superstizioso,
eppure, contrariamente a quanto ritenevano illuministi prima e marxisti poi
2
, il
1
La globalizzazione affonda le sue radici nel passato, attorno al XVII secolo, epoca di maturazione del
capitalismo e dell’espansione dell’economia europea proseguita fra il XVIII e il XIX secolo grazie alle
due rivoluzioni industriali, i cui effetti si estesero rapidamente ai maggiori stati europei e nordamericani, e
al dominio coloniale che, attraverso lo sfruttamento delle colonie e gli scambi con quest’ultime, avviò un
sistema di commercio a livello mondiale.
2
Illuministi e marxisti, nonostante le dovute differenze, si muovono nell’ambito della convinzione che vi
sia un ordine nell’evoluzione delle diverse fasi storiche: per gli illuministi tale ordine è dettato dallo
sviluppo della ragione umana, per cui più siamo in grado di comprendere il mondo ed agire
razionalmente, più riusciamo a controllare il senso della storia verso il progresso. Marx anche,
6
progresso e la razionalità non ci stanno guidando nel tentativo di orientare e
comprendere il mondo presente: il mondo in cui viviamo, anzi, sembra essere sempre
più incomprensibile e fuori controllo, anche per effetto della stessa scienza e della
tecnica, i cui progressi, invece di renderci la vita più sicura e prevedibile hanno spesso
prodotto l’effetto contrario, basti pensare alle conseguenze ignote, ma senza dubbio
preoccupanti, dei cambiamenti climatici globali. E sono proprio queste dimensioni di
rischio ed incertezza a dominare la scena: ‘ci troviamo a fronteggiare situazioni di
rischio che nessuno nella storia precedente ha dovuto affrontare (…). Molti dei nuovi
rischi e delle nuove incertezze ci colpiscono a prescindere da dove viviamo e senza
riguardo al nostro stato di benessere’
3
.
Spesso quando si parla di globalizzazione ci si riferisce alla sola sfera economica del
cambiamento perché questa è indubbiamente la più visibile e foriera di conseguenze.
Secondo la definizione dell’Ocse, la globalizzazione economica sarebbe ʽun fenomeno
per il quale il mercato e la produzione di differenti paesi diventano sempre più
interdipendenti attraverso i cambiamenti indotti dalla dinamica del commercio
internazionale, dei flussi di capitali e tecnologici (…). Grazie alle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione le imprese multinazionali sono organizzate
come reti transnazionali in un contesto di accresciuta concorrenza internazionaleʼ
4
.
Sarebbe un errore, però, ridurne la portata unicamente al settore dell’economia
tralasciando gli aspetti sociali, politici e culturali: la globalizzazione infatti, pur avendo
nell’incremento dei flussi di merci e capitali finanziari in circolazione e nella maggiore
interdipendenza fra gli Stati il proprio motore, è un fenomeno complesso e nebuloso
che ha modificato anche i rapporti sociali, il nostro modo di vivere, di concepire il
mondo e la nostra identità. Il sociologo Ulrich Beck, uno dei massimi esperti
sull’argomento, per rendere conto di questa molteplicità di aspetti, parla della
globalizzazione come di un fenomeno a più dimensioni e che va analizzato tenendo
conto dell’interazione complessiva fra di esse: vi sarebbe così ‘una globalizzazione
delle informazioni, una ecologica, una economica, una della cooperazione, una
riprendendo il pensiero illuminista nella formulazione del materialismo storico, individua un ordine di
evoluzione della storia, una direzione, determinata dallo scontro dialettico fra forze materiali di
produzione e relazioni di produzione che, dal modo di produzione primitivo, attraverso lo schiavismo, il
feudalesimo e il capitalismo borghese sfocerà nella rivoluzione e nell’affermazione del comunismo.
3
A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna le nostre vite, Il Mulino, Bologna,
2000, p.12
4
OCSE, Far fronte alla globalizzazione. L’OCSE in un mondo mutevole, 2004, pdf online:
http://www.oecd.org/dataoecd/6/51/33808729.pdf
7
dell’organizzazione del lavoro o della produzione, ed infine una culturale’
5
. Giddens
afferma: ‘la globalizzazione sta ristrutturando il nostro modo di vivere, e in maniera
molto profonda; è un prodotto occidentale, reca il deciso segno della potenza
economica e politica americana e porta conseguenze disomogenee. Ma la
globalizzazione non è semplicemente il dominio dell’Occidente sul resto del mondo;
essa colpisce tutti i paesi, inclusi gli Stati Uniti’
6
, a sottolineare il fatto che la parola
stessa indica una situazione di interrelazione globale di cui tutti i paesi sono
protagonisti, ma allo stesso tempo anche dalla quale vengono influenzati. Le singole
nazioni, cosi come gli individui, sono sottoposte a contatti, relazioni ed influenze
sempre più frequenti e profonde verso quella che sembra essere la costituzione di
un’unica grande società o comunità mondiale, ed il dibattito circa la natura e le
conseguenze del processo in atto è più che mai acceso. Da un lato vi sono coloro che
considerano la globalizzazione positivamente come un processo irreversibile portatore
di ricchezza e benessere per tutti, o comunque in grado di allargare le opportunità; altri
si limitano a parlare di internazionalizzazione dell’economia, distinta dalla
globalizzazione, per indicare il fatto che, sebbene le interconnessioni fra le economie
nazionali siano numerose e importanti, le entità economiche restano definite e non
omogenee; Ulrich Beck attua una distinzione tra globalismo, cioè l’attuale e
incontrastata affermazione dell’ideologia del libero mercato che si traduce nel primato
dell’economia sulla politica; globalità, definita come società-mondo per cui oggi
nessuno può più dirsi e percepirsi come isolato; ed infine globalizzazione, a significare
invece ‘il processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono
condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali’
7
; coloro invece che
sottolineano gli effetti negativi della globalizzazione, come i rischi ecologici globali,
l’aumento delle diseguaglianze socio-economiche, la compromissione delle culture
locali sotto i colpi dell’omologazione culturale o la diffusione del terrorismo su scala
mondiale, arrivano a descriverla ideologicamente nei termini di nuovo imperialismo,
cioè come un preciso progetto politico di dominio attuato su scala planetaria da parte di
5
U. Beck, Che cos’é la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma,
1999, p. 36-37
6
A. Giddens, op. cit., p. 13
7
U. Beck, op. cit., p.24. Secondo l’autore, la globalizzazione si caratterizza per il fatto di essere un
processo di interconnessione irreversibile, esteso nello spazio, stabile nel tempo e denso socialmente, a
causa di vari motivi: l’estensione del commercio e dei flussi finanziari, la rivoluzione delle tecnologie
della comunicazione, le rivendicazioni universali dei diritti umani, la circolazione di flussi di immagine
prodotti dall’industria culturale globale, la politica policentrica che affianca agli stati vari attori
transnazionali, la questione della povertà globale, la questione dell’ambiente e dei cambiamenti climatici
e il problema dei conflitti transculturali locali.
8
poteri forti dell’economia, espressione di una classe capitalista transnazionale, che
sarebbero riusciti a piegare la politica e le istituzioni democratiche agli interessi
economici. Giddens, infine, offre un ulteriore ed originale punto di vista secondo cui, se
è vero che le nazioni occidentali industrializzate conservano una grande influenza sugli
affari mondiali, ‘la globalizzazione va sempre più decentrandosi, fuori dal controllo di
gruppi di nazioni, come pure delle grandi corporations. I suoi effetti si sentono in
Occidente come altrove. (…) Si sta sempre più affermando ciò che si potrebbe chiamare
colonialismo alla rovescia, ossia l’influenza dei paesi non occidentali sullo sviluppo
dell’Occidente’
8
, come sta avvenendo nel caso della Cina e dell’India. Questo è molto
importante poiché, sebbene nella dimensione economica le potenze occidentali godano
ancora di una posizione indubbiamente avvantaggiata, la complessità delle dinamiche e
dei rapporti di potere fra paesi è tale da fare in modo che anche i paesi extra-occidentali
siano in grado di esercitare una certa influenza. La supremazia dell’Occidente oggi,
ammesso che così si possa ancora definirla, passa unicamente nella dimensione del
consumo (e dello spreco), per cui i paesi avanzati mantengono il loro prestigio
internazionale attraverso gli elevati livelli di consumo, che divengono il vero elemento
creatore di ricchezza, sostituendosi alla produzione. Sono le regioni occidentali quelle
caratterizzate dai tassi di consumo più elevati, descritte come società dell’opulenza
consumistiche, che attraggono per questo i flussi migratori dalle regioni più povere del
pianeta ed in cui il problema è produrre bisogni sufficienti ad assorbire le capacità
produttive. Si tratta di una superiorità in negativo che contribuisce in modo rilevante a
delineare lo scenario di squilibrio tra il Nord e il Sud del mondo, aggravata dalla
consapevolezza dell’esauribilità delle risorse della Terra: attualmente il 20% della
popolazione mondiale residente nei paesi avanzati del Nord del mondo, come è risaputo,
consuma, circa l’80% delle risorse del pianeta avendo a disposizione l’85% del prodotto
lordo mondiale
9
, mentre il restante 80% della popolazione mondiale si spartisce le
briciole rimanenti.
Vari fattori hanno contribuito a creare le condizioni perché la globalizzazione prendesse
piede: la principale causa è stata di ordine economico ed è dovuta, come abbiamo
accennato, all’aumento vertiginoso della produzione e del consumo di beni e
all’aumento degli scambi commerciali. Il miglioramento del sistema dei trasporti, in
termini di riduzione dei costi e maggiore efficienza, e lo sviluppo delle nuove tecnologie
8
A. Giddens, op. cit. p. 28-29
9
Valore dei beni e servizi prodotti in un anno nel mondo.
9
di comunicazione, in particolare l’informatica e la telefonia, a basso costo e di facile
accesso, hanno avuto un ruolo determinante nel favorire questa dinamica. La
definizione che ne da Ulrich Beck risulta efficace: egli individua la specificità del
processo di globalizzazione in atto ‘nell’estensione, densità e stabilità, empiricamente
rilevabili, delle reti di relazioni reciproche regional-globali e della loro definizione
massmediale, così come degli spazi sociali e dei loro flussi d’immagine a livello
culturale, politico, finanziario, militare ed economico’
10
.
L’importanza dei mezzi di comunicazione non risiede esclusivamente nell’accelerazione
da questi provocata e nell’annullamento delle distanze
11
, ma anche nella diffusione della
percezione di tale interdipendenza globale tra le varie popolazioni mondiali. La
definizione di Roland Robertson, tiene conto di questo aspetto: la globalizzazione si
riferisce ‘sia alla compressione del mondo sia all’intensificata coscienza
dell’unitarietà’
12
di questo. Beck parla del fatto che nella società mondiale, in cui i
rapporti sociali non sono integrati nella politica dello Stato-nazione e non sono da essa
determinati e determinabili, ‘l’autopercezione (inscenata massmediaticamente su scala
nazionale) gioca un ruolo cruciale, cosicché società mondiale (…) significa società
mondiale percepita, riflessiva’
13
. Resta da capire fino a che punto gli uomini e le culture
del mondo si percepiscano come reciprocamente legati, pur nelle loro differenze, e
quanto tale autopercezione influisca sui loro comportamenti.
Anche secondo l’antropologo Marc Augé ‘la globalità attuale è una globalità in rete’ e
la globalizzazione corrisponderebbe ‘all’estensione su tutta la superficie del globo del
cosiddetto mercato liberale e delle reti tecnologiche di comunicazione e informazione;
dall’altro lato a quella che potremmo chiamare coscienza planetaria’
14
, forgiata dalla
circolazione continua di immagini e rappresentazioni. Augé definisce l’attuale
condizione globalizzata con il termine di ‘surmodernità’, ad indicare, tramite il prefisso,
l’eccesso di accelerazione che contraddistingue il presente e che ha trasformato
profondamente tre categorie fondamentali del nostro pensiero: il tempo, lo spazio e
l’individuo. L’accelerazione della storia e del tempo consiste nella moltiplicazione di
avvenimenti frammentati e imprevisti, che si susseguono del mondo contemporaneo e
10
U. Beck, op. cit, p. 25
11
La globalizzazione può essere intesa anche come processo di perdita di confini dell’agire umano per
cui denaro, tecnologie, merci, informazioni, inquinamento, idee e persone oltrepassano i confini nazionali
come se questi non esistessero creando spazi e legami sociali transnazionali.
12
R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste, 1999, p. 23.
13
U. Beck, op. cit. p. 23
14
M. Augé, Nonluoghi, Eleuthera, Milano, 1993, p.10.
10
rendono più complicato il necessario processo di attribuzione di senso alla realtà; lo
spazio anche risulta composito, frammentato e sovrabbondante: viviamo nell’era dei
mutamenti di scala, dei continui passaggi dalla dimensione locale a quella globale, dei
trasporti veloci, delle comunicazioni che annullano qualsiasi distanza e della
moltiplicazione dei riferimenti immaginari grazie alla continua produzione e
circolazione di immagini. La terza figura dell’eccesso contemporaneo è rappresentata,
secondo l’autore, dall’individuo, sottoposto, almeno nelle società occidentali, ad un
processo sempre più radicale di individualizzazione delle aspettative e dei bisogni che lo
porta a considerarsi come un mondo a sé, distinto dalla storia collettiva.
Anche Arjun Appadurai, antropologo indiano, nel suo libro ‘Modernità in polvere’
sostiene che le comunicazioni di massa, da un lato, e le migrazioni dall’altro, sono i due
fattori principali, interconnessi fra loro, che hanno maggiormente influenzato la
costruzione dell’immaginario della società moderna: i mezzi elettronici di
comunicazione e la circolazione delle persone forniscono nuovi strumenti e risorse,
incredibilmente più vasti, per ‘l’immaginazione del sé come progetto sociale
quotidiano’
15
, cioè per permettere alle persone di immaginare altre vite possibili,
realizzando l’incontro tra immagini in movimento e persone deterritorializzate, nel
senso che né le une, né gli altri sono facilmente riconducibili a spazi locali o nazionali
dai confini certi
16
. Per dirla con le parole di Giddens, si può dire che ‘quando
l’immagine di Nelson Mandela ci risulta più familiare della faccia del nostro vicino di
casa, allora qualcosa è cambiato nella natura della nostra esperienza quotidiana’
17
.
1.2 Verso l’integrazione dei mercati
L’integrazione dei mercati si è resa possibile storicamente a partire dalla fine della II
guerra mondiale, nel momento di ricostituzione dell’ordine economico e degli equilibri
politici internazionali, quando, per favorire la ripresa e superare i limiti del
protezionismo, si avviò un processo di convergenza del sistema economico mondiale,
15
A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001, p. 17
16
Appadurai definisce la globalizzazione attraverso cinque categorie che descrivono il panorama del
mondo in cui viviamo cercando di restituirne la mutevolezza: gli etnorami, cioè paesaggi di persone in
movimento, i tecnorami, i movimenti di tecnologie, i finanziorami, che descrivono gli enormi movimenti
di masse di denaro sui mercati finanziari globali, i mediarami, il proliferare di immagini e media, ed
infine gli ideorami, che comprendono le ideologie e idee dello Stato. Tutti insieme questi flussi,
continuamente visti, vissuti, scambiati ed esperiti dalle persone, costituiscono la base per la costruzione di
mondi immaginati come immagini di vite possibili.
17
A. Giddens, op. cit., p. 24
11
realizzato attraverso gli accordi di Bretton Woods e con l’istituzione della Banca
Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale
18
. Successivamente, fu firmato il
GATT
19
, General Agreement on Tariffs and Trade, che gettò le basi del processo di
liberalizzazione del commercio mondiale, sostituito nel 1994, dopo vari round
negoziali, dal WTO
20
tuttora in vigore. In questa prima fase di globalizzazione che va
dagli anni ‘60 agli anni ‘80, il processo di liberalizzazione risultò incompleto, sia dal
punto di vista della partecipazione dei paesi che dei prodotti, e asimmetrico: nei LDCs
infatti permaneva il modello di commercio Nord-Sud di stampo coloniale, cioè lo
scambio di prodotti finiti in cambio di beni primari. In questo periodo il commercio fra
paesi sviluppati non dipendeva dai vantaggi comparati dovuti alle diverse dotazioni
produttive, ma dai risparmi sui costi ottenuti grazie alle economie di scala e alla
agglomerazione delle imprese che tendevano a concentrarsi spazialmente. I paesi che
non rientravano in questo tipo di economie di agglomerazione, come i paesi LDCs in
cui restavano forti le barriere protezionistiche e scoraggianti le condizioni per gli
investimenti esteri, rimanevano esclusi dai benefici dell’accresciuto scambio di beni e
servizi. Nei paesi sviluppati questo periodo corrisponde all’età dell’oro, in cui la
maggiore crescita coincise anche con una maggiore equità e un miglioramento delle
condizioni di vita: il risultato positivo fu la riduzione sia delle disuguaglianze fra paesi
sia delle disuguaglianze interne, in un processo di convergenza di lungo periodo
sostenuto dai meccanismi redistributivi e dal sistema del welfare state. Altrettanto non
si può dire per i paesi in via di sviluppo che, sebbene in miglioramento, registrarono
tassi di crescita molto inferiori e più lenti rispetto all’Occidente.
Un ulteriore passo avanti verso l’integrazione dei mercati si raggiunse con la creazione,
a più riprese, di varie aree regionali di libero scambio: è questo il caso della CEE, poi
18
Gli accordi di Bretton Woods, come pure le altre due istituzioni proposte, si fondavano sul postulato del
libero commercio e del libero movimento di capitali nel lungo periodo come fonte di armonizzazione
economica internazionale. In base a tali accordi si creava un ordine monetario internazionale condiviso
secondo cui i vari paesi erano obbligati ad adottare una politica monetaria di stabilizzazione del tasso di
cambio a un valore fisso rispetto al dollaro, scelto come valuta di riferimento con valore associato al
valore dell’oro; il Fondo Monetario Internazionale ha il compito di controllare la stabilità del sistema
evitando le oscillazioni e di riequilibrare gli squilibri delle bilance dei pagamenti; la Banca Mondiale
invece, nata come banca per la ricostruzione e lo sviluppo, fornisce crediti a lungo termine e assistenza
tecnica ai paesi membri a sostegno della loro crescita economica.
19
Il GATT è stato il primo trattato multilaterale che ha portato all’espansione del commercio
internazionale attraverso l’abolizione dei dazi, delle tariffe e di altre barriere protezionistiche al
commercio. Stipulato nel 1948 ne hanno fatto parte la maggioranza dei paesi. Nel 1994, dopo una lunga
serie di negoziati culminati nell’Uruguay round per ridefinire le condizioni del commercio mondiale e
coinvolgere i paesi in via di sviluppo, è stato sostituito dal WTO.
20
Il World Trade Organization (WTO) è il nuovo trattato multilaterale sul libero commercio mondiale
che ha preso il posto del GATT. Rispetto a quest’ultimo il WTO include un maggior numero di paesi,
anche in via di sviluppo, riguarda anche i servizi e la proprietà intellettuale ed è maggiormente vincolante.
12
confluita nella UE, del NAFTA, dell’EFTA, del disciolto COMECON e del
MERCOSUR.
Un altro fattore di natura politica, stavolta, che ha contribuito a creare le condizioni per
l’affermarsi della globalizzazione è stato la fine del bipolarismo che ha caratterizzato il
periodo della guerra fredda: negli anni ‘90 con la caduta del muro di Berlino e il crollo
dell’URSS si è conclusa la contrapposizione tra il modello capitalistico americano
liberal-democratico e quello comunista sovietico basato sulla proprietà statale dei mezzi
di produzione. Una volta crollato il sistema sovietico e con l’apertura della Repubblica
Popolare Cinese al sistema capitalistico, l’esperienza del socialismo reale poteva dirsi
conclusa in modo fallimentare e il principio del libero scambio delle merci e
dell’economia di mercato ha potuto trionfare, non trovando più alcun ostacolo alla
propria espansione. Il mercato da solo è stato considerato come un meccanismo capace
di regolare l’economia nel modo più efficiente possibile e di produrre sempre più merci,
sempre più competitive, a vantaggio dei consumatori. Sono in molti, infatti, ad associare
la globalizzazione economica con la piena affermazione dei principi neoliberisti, quali
ad esempio il concetto di libero mercato come mano invisibile capace di autoregolare
l’economia e garantire equilibrio, e l’enfasi sulle misure di agevolazione al mercato,
come le liberalizzazioni, le deregolamentazioni e le privatizzazioni.
Già dagli anni Settanta, infatti, la crisi economica e i due shock petroliferi avevano
costretto molti paesi a modificare drasticamente le misure con cui fino ad allora
avevano accompagnato la crescita. La politica economica di stampo keynesiano di
deficit spending e di partecipazione attiva dello Stato come regolatore dell’economia e
stimolatore della domanda, venne scalzata dalla teoria monetarista della scuola di
Chicago considerata la nuova panacea per abbattere il male dell’inflazione. Tale teoria
era basata sull’idea che si sarebbe potuta sconfiggere l’inflazione controllando l’offerta,
in particolare la quantità di moneta in circolazione. La presidenza americana di Ronald
Reagan e l’elezione di Margaret Thatcher a primo ministro britannico hanno segnato
l’avvio del nuovo corso in economia basato concettualmente sulla primazia del libero
mercato e operativamente realizzato attraverso i programmi di austerità, gli
alleggerimenti fiscali, i tassi di interesse elevati, le privatizzazioni di imprese statali e
servizi pubblici, la deregolamentazione del mercato dei capitali e l’introduzione della
flessibilità nel mercato del lavoro. Ai paesi in via di sviluppo, stretti nella morsa del
debito estero, sono stati proposti, tramite la BM e il FMI, i programmi di aggiustamento
strutturale, strumenti formalmente creati per ridurre gli squilibri tra paesi creditori e