Introduzione
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Introduzione
Il linguaggio umano, in quanto manifestazione peculiare di una capacità cognitiva e
interazionale che pone l’individuo in contatto non solo con i suoi simili, ma anche con
il proprio mondo interiore, ha costituito, nel corso dei secoli, l’oggetto di studio di
molteplici discipline. Oltre alla sociologia, alla pedagogia e alla psicologia (solo per
citarne alcune), vi è ovviamente la linguistica e, in particolar modo, la pragmatica, il
cui campo d’interesse è rappresentato dallo studio del rapporto che intercorre fra i
segni linguistici e i loro utenti e del contesto in cui tale relazione si concretizza.
L’avvento dei mass media ha offerto nuovi spunti per una riflessione metapragmatica
sulla lingua stessa. A partire dalla seconda metà del XX secolo e sino ai primi anni
Duemila è stata soprattutto la televisione, uno degli strumenti principi della
comunicazione di massa, a veicolare tali considerazioni. Particolarmente prolifico in
tal senso è il genere delle serie televisive, opere la cui narrazione si sviluppa nell’arco
di più episodi, in un’ambientazione che permane tendenzialmente immutata nel corso
delle stagioni e con un insieme di personaggi la cui caratterizzazione si fa più precisa
con il progredire degli episodi. Gran parte di tale caratterizzazione è resa possibile
proprio da contributi di natura linguistica, riconducibili al concetto di “lingua filmica”.
Tale locuzione indica il complesso di interazioni che vedono coinvolti i personaggi in
scena e che sono ascrivibili tanto ai generi di finzione quanto ai programmi di natura
non fittizia (Richardson, 2010: 3).
Focalizzandosi sul macrogenere della fiction (Grignaffini, 2012), si può affermare che,
negli ultimi decenni, la feconda produzione di serie TV e la lingua filmica che a esse
pertiene ha dato nuovo slancio a svariate correnti di analisi in campo linguistico. Fra
di esse, a beneficiare del materiale in questione sono stati in particolar modo gli studi
sulla cortesia e sul suo opposto, la scortesia. In linguistica, il concetto di “cortesia”
supera l’associazione a comportamenti rispettosi e garbati per andare a connotare
fenomeni socio-pragmatici che riguardano da vicino i parlanti, intesi come agenti
linguistici razionali. In tal senso, si può affermare che il concetto di cortesia racchiuda
in sé quelle “espressioni e formule verbali che tendono a minimizzare i rischi
dell’interazione comunicativa e a mantenere l’equilibrio e l’ordine sociale” (Treccani,
n.d.).
Introduzione
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La lingua della serialità televisiva rappresenta un terreno fertile per lo studio di tali
fenomeni, poiché permette ai ricercatori di identificare occorrenze degli stessi in
misura significativamente maggiore rispetto a quanto non avvenga nella
comunicazione quotidiana (Dynel, 2017: 459). La scortesia rappresenta, infatti, un
espediente ampiamente sfruttato nei prodotti televisivi, per via della sua intrinseca
capacità di produrre quelle frizioni fra personaggi capaci di catalizzare, a loro volta,
l’attenzione del pubblico, oltre a rappresentare un elemento chiave nella
co-costruzione della trama e nella caratterizzazione dei personaggi stessi (Culpeper,
1998: 93). È il caso della serie TV statunitense House, M.D., importata in Italia con il
titolo di Dr. House – Medical Division, nella quale l’omonimo e misantropo
protagonista, il dottor Gregory House, fa spesso ricorso a battute al vetriolo e a
enunciati apertamente scortesi, rivolti tanto ai suoi colleghi quanto agli ignari pazienti.
La frequenza di simili formulazioni appare sproporzionata se paragonata con
l’atteggiamento verbale di un parlante reale, le cui pratiche comunicative devono
sottostare a precise norme di etichetta linguistica, ma è legittimata poiché è inserita nel
contesto della lingua filmica (Dynel, 2011: 43).
La presente ricerca propone, in prima battuta, un’analisi delle interazioni scortesi fra
il dottor House e i suoi pazienti e colleghi, in una chiave linguistico-pragmatica che
poggia su tre fra i più noti modelli teorici della cortesia, ossia Lakoff (1973), Leech
(1983) e, soprattutto, Brown e Levinson (1978/1987), avvalendosi altresì del modello
della scortesia più completo finora formulato, vale a dire Culpeper (1996). In seguito,
l’analisi si soffermerà sul fenomeno dell’umorismo, evento linguistico il cui utilizzo,
negli ultimi anni, è diventato sempre più massiccio anche in un genere che risulta, per
sua stessa definizione, drammatico: il medical drama, a cui appartiene la serie del
dottor House. Soffermandosi poi sulla questione dell’umorismo in relazione alla
scortesia e, in particolar modo, sulla distinzione tra ironia e sarcasmo, si tenta di
rendere conto dell’enorme impatto che House, M.D. ha avuto sulla serialità di inizio
secolo, arrivando a definire un nuovo genere di antieroe e di narrazione televisiva
(Bernardelli, 2012).
Introduzione
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Obiettivi dello studio e organizzazione dei capitoli
Obiettivo dell’elaborato è dimostrare come le interazioni fabbricate per lo schermo si
basino, a un’analisi più attenta, sui medesimi principi linguistici che governano la
comunicazione reale. Inoltre, scopo della ricerca è provare come, senza un’adeguata
competenza pragmatica, sia gli sceneggiatori sia il pubblico non possano fruire
appieno di quell’atto di joint pretence
1
(Dynel, 2011: 54) che è il prodotto televisivo.
Il primo capitolo dell’elaborato, di carattere introduttivo, fa riferimento a necessarie
premesse teoriche, più specificamente la teoria degli atti linguistici, formulata
inizialmente da John Austin e rivista da John R. Searle, insieme con la teoria delle
massime conversazionali e del principio di cooperazione, proposta da Paul H. Grice.
Dopo una seconda sezione dedicata all’analisi della conversazione e a una breve
illustrazione di alcune coordinate necessarie per muoversi in questo campo, si giunge
al terzo capitolo, nel quale ci si concentra sulla nozione di cortesia linguistica e sulle
tre principali formulazioni teoriche in questo campo: Lakoff (1973), Leech (1983) e,
soprattutto, Brown e Levinson (1978/1987), la cui opera rappresenta un vero e proprio
caposaldo del settore. Il capitolo successivo, il quarto, fornisce una necessaria
integrazione a tale analisi, focalizzandosi sul concetto di “scortesia”, a lungo trascurato
e relegato a un ruolo di secondo piano dalla ricerca. Il quinto capitolo è dedicato
all’analisi del materiale reperito, basata su esempi concreti tratti dalle interazioni tra il
protagonista della serie, il dottor Gregory House, e i suoi colleghi e pazienti.
Nell’ultimo capitolo, il sesto, si analizza il fenomeno dell’umorismo nella sua
interrelazione con quello della scortesia. Obiettivo precipuo della sezione è definire in
modo accurato le sottocategorie in cui si articola l’umorismo, dedicando particolare
attenzione ai concetti di ironia e sarcasmo, dal momento che ancora non è chiaro se, e
in quale misura, sia possibile rintracciare per ognuno una propria indipendenza
analitica. A conclusione del capitolo, sono presentati esempi di scambi umoristici tratti
dalla serie, suddivisi secondo le categorie illustrate.
1
“finzione condivisa” (trad. mia). Dynel (2011) fa ricorso alla locuzione per indicare che la visione di
un prodotto audiovisivo implica, da un lato, che gli spettatori dimentichino consciamente di essere di
fronte a un prodotto frutto di fantasia, mentre, dall’altro, che gli sceneggiatori ricreino un mondo che,
pur fittizio, deve risultare verosimile.
Introduzione
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Il materiale d’analisi è ricavato dai sottotitoli in lingua originale inglese, disponibili
sulla piattaforma di streaming digitale Amazon Prime Video, servizio di video on
demand di proprietà della società di e-commerce Amazon. Inoltre, per corredare le
trascrizioni di indizi scenici e contestuali a cui, per ovvi motivi, non si può avere
accesso nella trasposizione cartacea degli episodi, si è fatto riferimento al sito
https://clinic-duty.livejournal.com/, il quale offre la trascrizione integrale degli script
di tutti i 177 episodi che compongono la serie. È tuttavia doveroso sottolineare che si
tratta di documenti non ufficiali, realizzati dai fan della serie. Il materiale reperito è
stato organizzato in tabelle suddivise su due colonne e introdotte da una breve
spiegazione contestuale della trama dell’episodio, sia nella sezione dedicata alla
(s)cortesia sia in quella incentrata sull’analisi dell’umorismo. A loro volta, le tabelle
riportano nella prima colonna le battute in lingua originale inglese, mentre la seconda
contiene la versione ufficiale del doppiaggio italiano, a titolo di completezza. Benché
a volte si possano rilevare delle discrepanze piuttosto notevoli fra le due versioni, le
divergenze traduttive esulano dagli obiettivi che si prefigge il presente lavoro.
L’analisi pragmatica del linguaggio
15
1. L’analisi pragmatica del linguaggio
Definire in modo certo e univoco in che cosa consista non soltanto l’analisi, ma la
natura stessa del linguaggio, non è compito facile. Già Ferdinand de Saussure, nel suo
celeberrimo Corso di linguistica generale, dichiara che:
Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi
campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio
individuale e al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti
umani, poiché non si sa come enucleare la sua unità. (1967: 19)
Il linguaggio, inteso nella sua accezione più ampia di “capacità e facoltà, peculiare
degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di
informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna” (Treccani,
n.d.) trascende i confini propri della linguistica per andare ad abbracciare prospettive
sociologiche, psicologiche e filosofiche. Nessuna indagine sulla natura del linguaggio
può quindi ritenersi accurata senza l’integrazione di questi molteplici contributi.
Concentrandosi sull’aspetto più prettamente linguistico, qualsiasi analisi che nutra
velleità di completezza non può astenersi dal citare la tripartizione tracciata dal
semiologo statunitense Charles Morris, il quale individua le linee fondamentali di una
scienza dei segni, o semiotica.
Riprendendo le idee esposte dal filosofo Rudolf Carnap nella sua Introduzione alla
semantica (1942), Morris distingue tre diversi ambiti di interesse: la semantica, la
quale studia “la funzione dei segni dal punto di vista del rapporto che hanno con gli
oggetti cui possono essere applicati” (Treccani, n.d.); la sintassi, la quale “identifica le
relazioni formali dei segni fra loro, determina le combinazioni dei segni prescindendo
dalle loro specifiche significazioni o dalle loro relazioni con il comportamento che
determinano o il significato che possiedono” (Morris, 1949: 219); e, infine, la
pragmatica, ossia “la parte della semiotica che esamina l’origine, gli usi e gli effetti
dei segni in rapporto al comportamento che determinano” (Morris, 1949: 219).
Ai fini del presente lavoro, l’area di maggiore interesse è costituita dall’aspetto
pragmatico. Yule (2008: 3) intende la pragmatica come lo studio di quattro aspetti
interconnessi fra loro:
L’analisi pragmatica del linguaggio
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1) “Pragmatics is the study of speaker meaning
1
” (Yule, 2008: 3). La pragmatica è
interessata allo studio del significato in rapporto ai suoi utenti: il parlante, che
produce e trasmette tale significato, e l’ascoltatore, che se ne fa interprete. L’enfasi
è qui posta sul significato che il parlante attribuisce al proprio enunciato più che sul
significato convenzionale delle parole, o frasi, coinvolte nell’enunciazione.
2) “Pragmatics is the study of contextual meaning
2
” (ibid.). Il contesto, sia linguistico
sia extralinguistico, influenza la produzione di significato: la pragmatica si prefigge
di analizzare come i parlanti organizzano ciò che vogliono esprimere in base alle
circostanze in cui avviene la comunicazione (per esempio, tenendo in
considerazione fattori quali l’identità dell’interlocutore, l’ambiente, il modo e il
tempo in cui si produce l’enunciazione, ecc.).
3) “Pragmatics is the study of how more gets communicated than is said
3
” (ibid.). La
pragmatica è quindi lo studio di quello che Yule stesso definisce “significato
invisibile” (invisible meaning), ossia ciò che si intende comunicare anche quando
non è esplicitamente asserito. Gli ascoltatori, infatti, devono spesso contribuire in
maniera attiva allo scambio linguistico, realizzando inferenze sulla base di assunti
e aspettative condivise per giungere a un’interpretazione corretta di quello che il
parlante vuole dire. Questo aspetto della pragmatica si focalizza sull’idea che gran
parte di ciò che non viene detto rientra comunque nel dominio di ciò che viene
comunicato.
4) “Pragmatics is the study of the expression of relative distance
4
” (ibid.). Lo
spartiacque che divide il detto e il non detto è la distanza, sia essa fisica, sociale o
concettuale: la distanza e, allo stesso modo, la vicinanza, implicano un’esperienza
condivisa, pur secondo diverse gradazioni. In base alla distanza che lo separa
dall’ascoltatore, il parlante decide quanto debba essere comunicato.
1
“La pragmatica è lo studio del significato inteso dal parlante” (trad. mia).
2
“La pragmatica è lo studio del significato contestuale” (trad. mia).
3
“La pragmatica è lo studio di come si comunica più di quello che si dice” (trad. mia).
4
“La pragmatica è lo studio dell’espressione della distanza relativa” (trad. mia).
L’analisi pragmatica del linguaggio
17
1.1 La teoria degli atti linguistici: Austin e Searle
Fino agli anni ’50 del XX secolo, la linguistica e la filosofia del linguaggio si sono
occupate soprattutto delle frasi, della loro struttura e del loro significato, valutando
quest’ultimo sulla base della dicotomia vero/falso. Secondo la semantica tradizionale,
infatti, il significato consiste nelle condizioni di verità di un enunciato, il quale si limita
a constatare lo stato delle cose. Tali tipi di enunciati sono pertanto conosciuti con il
nome di enunciati constativi (o assertivi).
Nel 1955, il filosofo e linguista britannico John Austin è invitato all’università di
Harvard, negli Stati Uniti, per tenere una serie di lezioni, note con il nome di William
James Lectures: saranno proprio i contributi di queste lezioni a dar vita a una delle
opere cardine della linguistica moderna. Nel 1962 è infatti pubblicato, postumo, How
to Do Things with Words, raccolta delle conferenze tenute nel 1955 da Austin e
verosimilmente la sua opera più influente, in cui vengono poste delle fondamentali
premesse teoriche che influenzeranno tutti i filosofi del linguaggio a lui successivi. In
questo testo, Austin si propone di studiare il linguaggio come azione: dire qualcosa, in
molti casi, significa anche fare, pertanto parlare è agire.
Sulla base di queste premesse, Austin suggerisce una dicotomia che distingua fra
enunciati constativi ed enunciati performativi, ossia quegli enunciati il cui
proferimento sottende il compimento di un’azione. Si considerino i seguenti esempi:
(1) La Terra è rotonda.
(2) “Battezzo questa nave Queen Elizabeth”, pronunciato quando la bottiglia si
rompe contro la prua. (Austin, 1987: 46)
Il primo enunciato si limita a constatare un dato di fatto, senza implicare alcuna azione,
e può essere giudicato vero o falso; il secondo, invece, se pronunciato nelle circostanze
appropriate e da una persona investita dell’autorità per farlo, comporta, nel momento
dell’enunciazione, anche il compimento dell’azione.
L’analisi pragmatica del linguaggio
18
Per quanto riguarda gli enunciati performativi, è difficile valutarli in base alla
dicotomia vero/falso, contrariamente a quanto sostenevano i logici positivisti
5
(Levinson, 1985: 291); più semplicemente, si dirà che sono “senza effetto” o “nulli”
se emessi in circostanze non appropriate (Penco, 2004: 120). Nel caso dell’esempio
(2), se un marinaio salisse ubriaco sulla prua della nave e rompesse la bottiglia,
cionondimeno la nave non sarebbe battezzata. Austin suggerisce che, in casi simili,
non è sensato parlare di “condizioni di verità” ma, più generalmente, di “condizioni di
felicità”: gli atti performativi vanno valutati non in quanto veri o falsi, ma in quanto
felici o infelici, corretti o scorretti rispetto a certe convenzioni e intenzioni (Penco,
2000: 13).
Successivamente, elaborando queste teorizzazioni, Austin arriva a formulare una
teoria degli atti linguistici che affonda le sue radici nell’assunto secondo il quale ogni
proferimento linguistico ha una componente di azione: anche gli enunciati constativi
implicano l’esecuzione di un’azione, quella di asserire (Penco, 2000: 13). Austin
propone quindi di distinguere tre tipi di atti linguistici:
1) L’atto locutorio. Definito da Austin “l’atto di dire qualcosa” (1987: 105, corsivo
mio), l’atto locutorio “è definito fondamentalmente (...) dagli aspetti fonetici,
sintattici e semantici” dell’enunciato stesso (Penco, 2004: 123).
2) L’atto illocutorio. Austin lo illustra come “l’esecuzione di un atto nel dire
qualcosa in contrapposizione all’esecuzione di un atto di dire qualcosa” (1987:
108). L’atto illocutorio è legato alle intenzioni che il parlante ha e a quanto è in
grado di trasmetterle.
3) L’atto perlocutorio. Austin riconosce che “dire qualcosa produrrà spesso (...)
certi effetti consecutivi sui sentimenti, i pensieri, o le azioni di chi sente, o di chi
parla, o di altre persone” (1987: 109): l’atto perlocutorio riguarda proprio la
5
Il positivismo logico, anche noto come neopositivismo, neoempirismo o empirismo logico, è una
corrente filosofica sorta nella prima metà del XX secolo con il Circolo di Vienna (Wiener Kreis), basata
sull’assioma secondo cui la filosofia dovrebbe aspirare al rigore metodologico proprio della scienza.
Tra i suoi maggiori esponenti si ricordano Rudolf Carnap e Moritz Schlick. I neopositivisti formularono
il criterio empirico di significanza, secondo cui una proposizione ha significato se, e solo se, è
verificabile. Secondo tale criterio, il significato di una proposizione coincide con il metodo della sua
verifica empirica (ossia è costituito dall’insieme delle esperienze necessarie per sapere se la
proposizione è vera); in mancanza di tale metodo, la proposizione è priva di significato cognitivo
(essendo l’esperienza la fonte della conoscenza) e, pertanto, conoscitivamente inservibile.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. Treccani, enciclopedia n.d., “positivismo logico”.
L’analisi pragmatica del linguaggio
19
realizzazione di tali effetti. Può essere definito come l’atto riguardante le
conseguenze che si ottengono con il dire qualcosa (Penco, 2014: 123).
Austin propone il seguente esempio (1987: 110):
(3) “Sparale!”
In questo caso, l’atto locutorio consiste nell’enunciazione della frase a livello
fonologico, composta da un verbo all’imperativo, “spara”, e da un pronome personale,
“le”. L’atto illocutorio è invece prodotto dal fatto che il parlante ordini (o inciti)
all’ascoltatore di sparare, mentre l’atto perlocutorio può essere riassunto, nel caso di
una risposta positiva a tale richiesta da parte dell’ascoltatore, dagli enunciati “il
parlante mi ha persuaso a spararle” o “il parlante mi ha indotto a spararle” (Austin,
1987: 110). Significativa in tal senso è la precisazione fatta da Penco, il quale
sottolinea che “mentre l’atto illocutorio riguarda la caratterizzazione del punto di vista
dell’agente, l’atto perlocutorio caratterizza le conseguenze dell’atto sull’uditore”
(2014: 124).
Dopo Austin, il filosofo che ha maggiormente contribuito alla diffusione e allo
sviluppo della teoria degli atti linguistici è lo statunitense John R. Searle, il quale
riprende la teoria del suo predecessore e la sistematizza. Nella sua opera, Austin aveva
infatti abbozzato una tassonomia degli atti linguistici, da lui suddivisi in cinque classi
molto generali: verdettivi, esercitivi, commissivi, comportativi ed espositivi
6
. Searle si
dimostra assai critico nei confronti della classificazione di Austin, “ritenendo che egli
avesse classificato verbi anziché atti e riscontrando la mancanza di criteri generali”
(Sbisà, 2011: 15). Mirando a una definizione che elimini quanto più possibile ogni
ambiguità, Searle propone allora di distinguere gli atti illocutori (vero nodo cruciale
della sua analisi) in cinque classi, le quali, a onor del vero, collimano in parte con
quelle individuate da Austin:
1) Atti rappresentativi (representatives), i quali informano su uno stato del mondo
e impegnano il parlante nei confronti della verità della proposizione espressa
(Andorno, 2011: 107). Fra di essi, asserire, concludere, giudicare, ecc.
6
Per ulteriori approfondimenti, cfr. Austin, J.L. (1987). “Classi di forza illocutoria”. M. Sbisà & C.
Penco. Come fare cose con le parole. C. Villata (trad.). Genova: Marietti. 141-154.
L’analisi pragmatica del linguaggio
20
2) Atti direttivi (directives), ossia quegli atti con cui “il parlante tenta di indurre
l'interlocutore a fare qualcosa” (ibid.). Ne sono esempi interrogare, richiedere,
avvertire, ordinare, ecc.
3) Atti commissivi (commissives), i quali “impegnano il parlante a fare qualcosa
nel futuro” (ibid.). Fra di essi, per esempio, minacciare, promettere, giurare, ecc.
4) Atti espressivi (expressives), che esprimono lo stato psicologico o emotivo del
parlante (per esempio: scusarsi, lamentarsi, congratularsi, ecc.)
5) Atti dichiarativi (declarations), mediante i quali il parlante produce un
cambiamento della realtà corrispondente al contenuto locutorio dell’atto stesso
o pone in essere lo stato del mondo che dichiara esistente (Andorno, 2005: 65).
Sono atti dichiarativi: condannare, battezzare, abolire, decretare, dimettersi,
lasciare in eredità, ecc.
1.1.1 Atti linguistici diretti e indiretti
Da queste premesse si può operare un’ulteriore bipartizione, che permette di
individuare due categorie di atti linguistici: gli atti linguistici diretti e indiretti. È Searle
a riconoscere che, in uno scambio conversazionale, i casi più semplici di significazione
sono quelli in cui la forma grammaticale scelta da un parlante per l’enunciazione e il
valore illocutivo delle parole selezionate per lo scambio coincidono perfettamente
(1979: 30). In questo caso si hanno degli atti linguistici diretti, nei quali vi è una
corrispondenza precisa tra struttura e funzione comunicativa (Yule, 2008: 54). In
particolare, Yule identifica tre strutture a cui, in un atto linguistico diretto,
corrispondono altrettante funzioni:
1) Una struttura interrogativa usata in funzione di domanda, per esempio: “Hai
mangiato la pizza?”.
2) Una struttura imperativa usata in funzione di ordine o di richiesta, per esempio:
“Mangia la pizza (per favore)!”.
3) Una struttura dichiarativa usata per formulare un’asserzione, per esempio: “Tu
hai mangiato la pizza”. (2017: 165)
In uno scambio conversazionale, tuttavia, sono assai più frequenti i casi in cui si
riscontra una dissonanza tra il significato dell’enunciato e il significato del parlante.
L’analisi pragmatica del linguaggio
21
Si consideri la frase:
(4) Vi spiace se apriamo la finestra? (Andorno, 2011: 119)
pronunciata da un parlante impossibilitato a eseguire personalmente l’azione. In questo
caso, interpretando l’enunciato come un atto linguistico diretto, se ne deriverebbe che
il parlante si sta semplicemente informando riguardo al disturbo che la propria richiesta
arreca ai suoi interlocutori. Tuttavia, nessun parlante intrepreterebbe tale enunciato
come una struttura interrogativa diretta: al contrario, essa verrebbe immediatamente
recepita come una richiesta indiretta. Nessuno risponderebbe, ad esempio, “No,
figurati”, senza compiere al tempo stesso l’azione suggerita dalla domanda del
parlante: questo perché, in molte lingue, effettuare delle richieste informandosi
indirettamente in merito alla volontà cooperativa degli ascoltatori è un modo
convenzionale di sollecitare il compimento di un’azione (Andorno, 2011: 120).
Pertanto, ogniqualvolta una delle strutture succitate è impiegata per svolgere una
funzione diversa da quella a cui normalmente si accompagna, si produce un atto
linguistico indiretto (Yule, 2017: 165). Si consideri la frase seguente, rivolta da un
amico A a un amico B che si è piazzato davanti al televisore:
(5) Non sei fatto di vetro.
A tutta prima, parrebbe una struttura dichiarativa, utilizzata per formulare
un’asserzione. Tuttavia, qualsiasi individuo dotato di una minima competenza
linguistica ne dedurrebbe che A vuole che B si sposti perché gli ostruisce la vista. Ciò
evidenzia l’importanza della comunicazione non letterale, ossia come l’interpretazione
dei messaggi avvenga in modo corretto perché i parlanti sono guidati dal contesto e
dalla loro conoscenza del mondo oltre che, ovviamente, dalla corretta decifrazione
delle intenzioni del parlante (Andorno, 2011: 120). Va inoltre tenuto a mente che, assai
di frequente, la scelta di prediligere un atto linguistico indiretto a uno diretto è
associata al concetto di cortesia linguistica, a cui verrà riservata ampia trattazione nel
capitolo 3.
L’analisi pragmatica del linguaggio
22
1.2 Le inferenze: implicazioni logiche e presupposizioni
Wilson: Falsifichi di nuovo la mia firma sulle ricette.
House: No. Quello che hai detto implica che avessi smesso di farlo.
― “Moving On
7
” (stagione 7, episodio 23)
Appare ormai evidente come l’intera comunicazione umana sottostia a complesse
regole che investono non solo l’esplicito, ma anche l’implicito, il non detto (aspetto
evidenziato anche dalla definizione di “pragmatica” fornita da Yule). Domaneschi e
Penco utilizzano la felice metafora dell’iceberg per fornire una rappresentazione visiva
di questo concetto: “Ciò che si dice in modo esplicito rappresenta solo la punta visibile
di un’enorme massa nascosta di informazioni comunicate in modo implicito. È
l’iceberg della comunicazione.” (2016: VII)
Al dominio del non detto appartengono le inferenze, “informazioni supplementari che
non sono esplicitamente asserite dai parlanti, ma la cui verità viene suggerita
dall’insieme delle informazioni trasmesse (...)” (Andorno, 2005: 77). La comprensione
delle inferenze è una delle abilità necessarie per poter decodificare il significato di un
enunciato, processo che può essere visto come un’attività di problem solving. La
decodificazione è resa possibile dalla convergenza di tre fattori: “the explicit content
of the sentence, the circumstances surrounding the utterance, [and] a tacit contract the
speaker and listener have agreed upon as to how sentences are to be used
8
” (Clark,
1977: 244). Quindi, il discorso in atto, la situazione comunicativa e l’intero
agglomerato di informazioni e aspettative che nutriamo sul funzionamento del mondo
e delle persone che lo popolano (Andorno, 2005: 78) innescano il processo di
produzione delle inferenze
9
. Ad esempio, la comprensione dell’enunciato seguente:
(6) Il Monza torna in serie A.
produrrà inferenze quali:
(7) Il Monza è una squadra di calcio.
7
Lingenfelter, K. & Blake P. (2011). “Moving On”. D. Shore, P. Attanasio & K. Jacobs, House, M.D.
USA: Heel and Toe Films, Shore Z Productions, Bad Hat Harry Productions in association with
Universal Media Studios.
8
“il contenuto esplicito della frase, le circostanze in cui avviene l’enunciazione [e] il tacito contratto,
stipulato dal parlante e dall’ascoltatore, che definisce come le frasi devono essere usate” (trad. mia).
9
Per gli scopi del presente lavoro, l’inferenza sarà analizzata solo nel suo valore linguistico, benché lo
studio di tale processo sconfini nei campi della logica, della filosofia e della psicologia.