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Introduzione
Le abilità visuo-spaziali (come discusso nel terzo capitolo) permettono
la realizzazione di diversi compiti cognitivi: scansionare una
configurazione visiva in modo rapido ed efficiente al fine di
raggiungere un determinato obiettivo; orientarsi nello spazio;
ricostruire visivamente un’immagine; generare immagini; manipolare
immagini mentali visuo-spaziali al fine di valutarle o trasformarle;
ricordare sequenze di posizioni diverse o presentate simultaneamente
e trattenere l’informazione spaziale per un lungo periodo di tempo
(Cornoldi; 1997). Negli ultimi anni molti ricercatori cognitivisti hanno
orientato le loro indagini sul modo in cui le abilità visuo-spaziali sono
direttamente coinvolte negli apprendimenti scolastici.
Tradizionalmente la scuola ha dato maggior peso alle abilità verbali
rispetto a quelle non verbali, considerando l’apprendimento scolastico
soddisfacente una volta acquisiti gli apprendimenti di base del leggere,
scrivere e far di conto. Questa concezione, come esposto nel primo
capitolo, deriva direttamente dalle teorie unitarie dell’intelligenza
(Spearman; Raven) che la descrivono come una singola capacità
mentale generalizzata, pervasiva di ogni prestazione intellettiva. Lo
sviluppo successivo ha visto gli studiosi cognitivisti dividersi tra
sostenitori di una teoria multipla dell’intelligenza (Thurstone,
Gardner, Sternberg) e sostenitori di una teoria gerarchica (Horn-
Cattell; Carroll) la quale riconosce l’esistenza di diverse forme
intellettive collocandole però su differenti livelli gerarchici. Le diverse
teorizzazioni sull’intelligenza sono state accompagnate da un acceso
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dibattito sulle basi biologiche o culturali dell’intelligenza (come
delineato nel secondo capitolo).
Cornoldi e Vecchi (2003) hanno cercato di superare alcuni limiti delle
sopracitate teorie costruendo un modello dell’intelligenza fondato sul
ruolo e sulla capacità della memoria di lavoro (modello a cono). La
memoria di lavoro è un sistema mnestico i cui primi studi risalgono
agli anni ’70 del Novecento ad opera di Alan Baddeley e Graham
Hitch (1974); essa è estremamente importante ai fini
dell’apprendimento in quanto consente, a differenza della semplice
memoria a breve termine, non solo di conservare l’informazione ma di
lavorare su di essa. La ML è composta da quattro componenti
(esecutivo centrale, nastro o loop articolatorio, taccuino visuo-spaziale
e buffer episodico) ognuna delle quali è deputata allo svolgimento di
diverse funzioni in base alle richieste del compito. Il taccuino visuo-
spaziale è deputato al mantenimento e all’elaborazione
dell’informazione visiva e spaziale; esso è, a sua volta, suddiviso in
diverse componenti relative alla modalità di presentazione dello
stimolo (visivo/spaziale) e alla modalità di elaborazione dello stimolo
(attivo/passivo). Evidenze empiriche dimostrano poi come all'interno
di queste componenti vi siano ulteriori sotto-componenti legate alla
doppia dissociazione tra compiti attivi e passivi e alla doppia
dissociazione tra processi spaziali-sequenziali e spaziali-simultanei. Il
bisogno di distinguere diverse sotto-componenti all’interno del
taccuino visuo-spaziale, unita alla complessità delle operazioni svolte,
ha reso appropriata l’espressione memoria visuo-spaziale in
riferimento a quel particolare sistema in grado di memorizzare e/o
rielaborare materiale visuo-spaziale.
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Il Disturbo dell'apprendimento non verbale, non ancora inserito
all'interno delle categorie diagnostiche del DSM-IV o dell’ICD-10 è
direttamente collegato ad un malfunzionamento della memoria di
lavoro visuo-spaziale; il test di Corsi e il Visual Pattern Test (VMI)
sono due dei test maggiormente utilizzati per la valutazione delle
competenze visuo-spaziali.
Le discipline scolastiche che coinvolgono il corretto utilizzo delle
abilità visuo-spaziali sono: il disegno, la geometria, l'aritmetica, le
scienze, la geografia, la comprensione del testo e l'informatica.
Risulta, quindi, evidente l’importanza per gli insegnanti di conoscere
le abilità cognitive visuo-spaziali dei propri alunni al fine di adeguare
la propria metodologia didattica alle particolari esigenze dei singoli
studenti. In letteratura esistono diversi programmi per il
potenziamento delle competenze visuo-spaziali di cui le scuole
potrebbero servirsi, tra questi: Abilità visuospaziali di Cornoldi,
Memoria visiva di Andrich e Miato e Recupero in... Abilità visuo-
spaziali di Fastame e Antonini.
L’ultima parte della tesi è dedicata alla presentazione dei risultati della
ricerca sull’efficienza delle abilità visuo-spaziali dei bambini
frequentanti il secondo ciclo della scuola primaria presso alcuni plessi
scolastici del Medio Campidano e del Sulcis-Iglesiente.
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Capitolo I
L’intelligenza: misure e teorie
1.1 Definire l’intelligenza
Non è semplice, se non impossibile, dare una definizione unanime di
intelligenza in quanto, il concetto di intelligenza, cambia non solo da
cultura a cultura ma anche all’interno di una stessa società. Nel corso
degli anni inoltre si sono accumulate moli di teorie che hanno
frammentato in minuscole parti l’intelligenza (abbiamo sentito parlare,
ad opera di diversi autori, di intelligenza analitica, pratica e creativa
(Sternberg, 1997), di intelligenza numerica (Butterworth, 2003),
animale, artificiale, ereditata (Galton, 1889) o acquisita e via
discorrendo) rendendo ancora più difficile darne una definizione
univoca. Cos’è dunque l’intelligenza? In generale, secondo Cornoldi
(2007) essa è una proprietà comune a tutti gli esseri umani, costituita
da una serie di funzioni cognitive (percezione, ricordo,
apprendimento, pianificazione…). Più nello specifico invece indica
ciò che rende diversi gli individui nella capacità di affrontare
differenti compiti cognitivi. (Cornoldi, 2007).
Nel numero di Dicembre del 1998, la rivista Sistemi Intelligenti, ha
riportato un dibattito sull’intelligenza che attraverso posta elettronica,
ha coinvolto diversi studiosi dell’Associazione Italiana per
l’Intelligenza Artificiale. Tra le definizioni proposte ricordiamo quella
di D’Allestro che definisce l’intelligenza come quel comportamento
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che avviene secondo le leggi di max beneficio globale dell’essere
vivente e della sua specie.
Morasso definisce invece l’intelligenza come la capacità degli
organismi di costruirsi rappresentazioni interne del mondo esterno che
permettano di sfuggire alla schiavitù dei meccanismi (sia pure
ottimizzati) di stimolo-risposta.
Colombetti sostiene che il termine intelligenza deriva da intelliggere,
ovvero comprendere e quindi rappresentare; con rappresentazioni non
solo basate su espressioni simboliche, e processi intelligenti che non
sono di manipolazione simbolica.
Secondo Cassinis, è invece necessario distinguere tra intelligenza e
comportamento intelligente. E’ possibile costruire macchine (ad es.
quelle per il gioco degli scacchi) che abbiano un comportamento
intelligente senza avere in realtà neanche un briciolo di intelligenza in
quanto oltre a quello per cui sono state programmate, non sanno fare
nulla.
Tornando alle origini, nel 1869, Francis Galton biologo e cugino di
Charles Darwin, pubblica Hereditary Genius in cui sostiene che
l’intelligenza, al pari delle altre doti fisiche, è un natural gift, ossia
essa viene tramandata (ereditata) di padre in figlio. Galton si
concentrò soprattutto sullo studio dei tempi di reazione a compiti
semplici, arrivando alla conclusione che le persone più intelligenti
abbiano sensi più sviluppati e che potendo contare quindi su un
maggior numero di informazioni, possiedano maggiori capacità non
solo di competere ma di avere successo nella competizione.
In La nascita dell’intelligenza nel bambino (1947), lo psicologo
ginevrino Jean Piaget sostiene che sia, però, necessario operare una
distinzione a livello dell’ereditarietà:
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Eredità di struttura: legata alla costruzione del
sistema nervoso e degli organi di senso
(percezioni);
Eredità di funzionamento: legata all’attività
deduttiva ed organizzatrice della ragione.
“Come l’organismo non potrebbe adattarsi alle variazioni ambientali
se non fosse già organizzato, così l’intelligenza non potrebbe cogliere
nessun dato esteriore (assimilazione) senza determinate funzioni di
coerenza, di riferimento (schemi mentali già presenti nell’individuo in
crescita) comuni ad ogni organizzazione intellettuale”. (Piaget, 1947,
pag. 2).
L’intelligenza dunque è, secondo Piaget (1947), un processo di
assimilazione/accomodamento (modificazione degli schemi innati
tramite l’esperienza), intendendo per assimilazione quel meccanismo
di strutturazione che avviene attraverso l’incorporazione della realtà
esterna in forme dovute all’attività del soggetto; l’assimilazione, però,
non può essere mai pura, in quanto l’intelligenza, incorporando gli
elementi nuovi negli schemi preesistenti, modifica continuamente
questi ultimi per adattarli ai nuovi dati. L’adattamento intellettuale è
dato quindi dal costituirsi di un progressivo equilibrio tra un
meccanismo assimilatore ed un complementare accomodamento.
Oltre a quelle già citate, nel corso del XX secolo, numerose altre
teorie, hanno cercato di spiegare il concetto di intelligenza, oscillando
tra posizioni di tipo unitario, globale-maturativo, multicomponenziale,
gerarchico e cognitivista dei meccanismi basici di elaborazione
dell’informazione (Cornoldi, 2007).
Nei paragrafi successivi verranno spiegate le principali teorie
differenziali dell’intelligenza a partire da quelle di tipo unitario
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(Spearman,1927; Raven, 1943, 1947, 1962), per arrivare, passando
attraverso quelle multicomponenziali (Thurstone, 1938; Sternberg,
1988, 1997, 1999; Gardner, 1983), alle teorie di tipo gerarchico
(Horn-Cattel, 1966; Carroll, 1993) e a quelle più recenti basate sul
ruolo e sulla capacità della memoria di lavoro (Cornoldi e Vecchi,
2003).
E’ importante comprendere come funziona l’intelligenza perché in
questo modo si potranno sviluppare nuovi metodi per l’individuazione
delle disabilità mentali e il successivo miglioramento delle abilità
residue.
L’intelligenza corrisponde ad un’unica abilità generale o a più abilità
distinte? E’ possibile quantificarla? È innata o acquisita? A questi e ad
altri interrogativi, cercheremo di rispondere nel corso di questo
capitolo.
1.2 Teorie unitarie dell’intelligenza
Charles Spearman, nel 1927, individuò attraverso il metodo
dell’analisi correlazionale o fattoriale, due tipi di fattori costituenti
l’intelligenza: uno, il fattore g, rappresenta una singola capacità
mentale generalizzata, pervasiva di ogni prestazione intellettiva;
l’altro, è costituito da una serie di fattori s (abilità specifiche come
l’abilità spaziale, l’abilità linguistica e l’abilità aritmetica) che non
costituiscono l’essenza dell’intelligenza ma spiegano perché le
correlazioni tra i risultati ottenuti ai vari test non siano mai perfette
(pari a 1). Più è elevato il valore del fattore g più l’individuo può
essere considerato intelligente.
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Spearman (1927) sosteneva che i compiti maggiormente saturi di
fattore g fossero quelli di “estrazione di relazioni” e di “estrazione di
correlati”; i compiti appartenenti al primo tipo consistono nel trovare
le relazioni esistenti tra un numero n di elementi (ad es. dati gli
elementi “gatto” e “leone”, trovare la relazione che li lega, ovvero
essere dei felini) mentre quelli appartenenti al secondo tipo consistono
in prove di generalizzazione (ad es. dati un elemento “gatto” e una
relazione “felino”, trovare un altro elemento legato al primo da questa
relazione).
E’ da queste considerazioni (intelligenza operazionale ovvero la
capacità di manipolazione cognitiva degli oggetti che inizia a
svilupparsi secondo Piaget (1935; 1955) all’età di 6 anni) che Raven
(1943) è partito per la costruzione delle sue matrici progressive che
verranno presentate nei paragrafi successivi. Il test delle Matrici
Progressive di Raven, è considerato il più idoneo nella misurazione
del fattore g dell’intelligenza; in particolare, dà una stima delle abilità
analitiche non dipendenti da nozioni precedentemente apprese (fattore
gf di Horn e Cattell, 1966), delle abilità spaziali e del ragionamento
logico.
Le teorie unitarie hanno comunemente dato maggior peso ad
operazioni del pensiero come il ragionamento logico e il problem
solving, tuttavia, in tempi più recenti si è argomentato che queste
azioni del pensiero derivino da una capacità ancora più arcaica: la
capacità della memoria di lavoro (sistema gerarchico deputato al
mantenimento e all’elaborazione temporanea delle informazioni
durante l’esecuzione dei vari compiti cognitivi [Baddeley, 1986]) di
tenere a mente più elementi e nello stesso tempo lavorare su di essi.
(Cornoldi, 2007).
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I detrattori della teoria unitaria dell’intelligenza sostengono l’esistenza
di più intelligenze (c’è chi è maggiormente portato per la musica, chi
per i numeri, chi per il linguaggio…), tra questi, Thurstone, che
individuò diverse forme di intelligenza primaria. Il pensiero di questo
autore verrà delineato nel prossimo paragrafo sulle teorie multiple
dell’intelligenza.
1.3 Teorie multiple dell’intelligenza
Le teorie multiple dell’intelligenza possono essere suddivise, secondo
Cornoldi (2007), in teorie multiple di tipo psicometrico (Thurstone,
1938) e in teorie multiple contemporanee (Sternberg, 1988, 1997,
1999 e Gardner, 1983).
Già della prima metà del 1900, la posizione unitaria di Spearman,
venne messa in discussione da chi considerava quei fattori specifici s,
messi in secondo piano dallo psicologo americano, come centrali nel
concetto di intelligenza. Thurstone, fu probabilmente il più accanito
antiunitario.
Egli alla fine degli anni ’30, comparando con il metodo dell’analisi
fattoriale i risultati ottenuti da ragazzi e giovani adulti ad un gran
numero di test, non trovò un unico fattore generale ma tanti fattori che
corrispondevano a quelle che lui chiamò abilità primarie. Secondo la
sua teoria multidimensionale, l’intelligenza è dunque composta da
sette principali abilità primarie di uguale importanza nella definizione
di intelligenza:
Comprensione Verbale: misurata tramite prove di vocabolario
(ad es. comprensione di un testo o l’individuazione di sinonimi
e contrari di una data parola);