4
influenzate da valori culturali e associati a modi di
comportarsi considerati assolutamente normali
nell’ambito della cultura di provenienza, ma che possono
risultare totalmente fuori luogo dal punto di vista di
un’altra cultura. Pensiamo ad esempio alla marcata
gestualità del popolo italiano. Molti di questi gesti
possono avere significati completamente differenti in
altre culture, e viceversa.
E’ importante, quindi, essere per lo meno a conoscenza
dell’esistenza di tali diversità, e soprattutto saper
riconoscere le matrici culturali di determinati
comportamenti (nostri e degli altri. E’ fondamentale
essere consapevoli anche dei propri comportamenti
dovuti a fattori culturali!) poiché l’ignoranza o
l’incomprensione culturale possono portare ad esiti
alquanto indesiderabili.
Capire le culture universalmente è diventato un
essenziale elemento di competizione. Spesso infatti i
problemi insorgono non dal lavoro in sé e per sé, o
semplicemente dalla lingua, ma appunto da
incomprensioni a livello della cultura, dei software
mentali, per usare la metafora di Hofstede, padre del
moderno approccio al management interculturale
ii
.
Come ovviare a tali diversità? Come interagire nel
miglior modo possibile, accettando le diversità senza
rinunciare alla propria identità? Come mescolare le
diverse culture per vincere nuove sfide in questo
particolare contesto?
La chiave è entrare in una prospettiva interculturale e
sviluppare una specifica competenza comunicativa. Ciò
non significa abbandonare i propri valori e far propri
quelli degli altri, ma assumere un tipo di atteggiamento
costante, che prende atto della ricchezza insita nella
5
varietà. L’obiettivo non è mirare all’omogeneizzazione
(creando il cosiddetto “melting pot”) ma permettere
l’interazione più piena e fluida possibile tra le diverse
culture
iii
.
Il successo di una compagnia dipende oggi anche dalla
sua “intelligenza” – e quella dei suoi dipendenti –
nell’osservare e nell’interpretare le dinamiche del mondo
in cui operano, abituandosi ad un global mindset
iv
e
sviluppando competenze interculturali (cross-cultural
competencies). Quindi avere nel proprio organico dei
manager con competenze specificamente internazionali
non può che giovare al proprio business, dato che
saranno essi a rappresentare l’interfaccia tra l’azienda e i
vari interlocutori stranieri.
La tesi comincia con un excursus teorico-storico sul
concetto di cultura, con l’apporto di numerosi contribuiti
accademici. Segue un approfondimento sulle variabili
culturali che intervengono nella comunicazione, in
situazioni tipo come quella di una negoziazione
interculturale, con particolare attenzione agli elementi
non verbali. Questi infatti, sono la parte più
inconsapevole della comunicazione, che pur avendo un
forte contenuto simbolico, non saranno mai oggetto della
negoziazione, pertanto non ci sarà possibilità di chiarirne
il significato. Nell’ultima parte si descrivono alcuni tratti
fondamentali della cultura italiana, specie quella di
business, poiché l’assunto che si vuole sostenere è che
solo attraverso una profonda consapevolezza della
propria cultura è possibile avere un confronto sereno e
oggettivo con le altre culture. Prima di valutare la
situazione secondo i nostri canoni, l’atteggiamento più
auspicabile sarebbe quello di cercare di descrivere
l’oggetto o la situazione attraverso delle cornici culturali
6
del luogo (cultural frameworks), soltanto in seguito
tentare di darne una interpretazione e valutazione. Infine,
ci si chiede se i nostri manager, preparatissimi dal punto
di vista del know-how tecnico, abbiano anche un buon
livello di know-how culturale. In effetti, la situazione che
emerge da una ricerca dell’Istud in proposito, non è
affatto rosea. Pertanto, dopo un’analisi dello status quo e
quindi delle mancanze e delle conseguenze dovute a una
scarsità di cultura internazionale, o meglio (mi si
permetta il gioco di parole) di una cultura della
comunicazione interculturale, il mio lavoro vuole porsi
come uno strumento propositivo, apportando delle schede
sulla business etiqutte di alcune città, nodi degli scambi
internazionali.
Concludendo, si precisa che questo lavoro non vuole
essere – e non può essere – uno studio completo di tutte
le differenze linguistiche e culturali esistenti (d’altronde è
forse possibile enumerare e definire tutte le culture?), ma
uno strumento che mette in guardia e fa riflettere sul fatto
che i maggiori problemi di comunicazione internazionale
sono dovuti appunto alle differenze culturali. Differenze
delle quali è difficile rendersi conto se non si ha per lo
meno una certa consapevolezza (“awareness” si direbbe
in lingua inglese) della propria cultura.
7
1.1 Excursus teorico-storico sul concetto di cultura
Il primo passo per comprendere la differenza culturale è
capire il concetto di cultura. Si è detto che i maggiori
problemi che possono sorgere in ambienti internazionali
hanno spesso matrice culturale e la cosa più grave è che
talvolta non se ne è nemmeno consapevoli. E’ possibile
farsene un’idea dopo tanti anni di esperienza e dopo aver
affrontato tante diverse situazioni. Eppure, a tale
proposito il teorico del management W.E. Deming dice:
“Experience by itself teaches nothing. Without theory,
experience has no meaning. Without theory, one has no questions to
ask. Hence, without theory, there is no learning."
v
Queste affermazioni enfatizzano la necessità di
interpretare le informazioni usando una teoria o un
framework di concetti, affinché si possa davvero
apprendere. In pratica: “L’esperienza può dare delle
risposte, ma è la teoria che consente di fare domande”
vi
.
Pertanto, d’accordo con Deming, in questo caso è
doveroso partire dal concetto base di cultura, definirlo
(per quanto possibile), per poi analizzarne le implicazioni
e le conseguenze.
Data anche l’interdisciplinarietà, non sarà di certo cosa
semplice avviare un discorso su un concetto come quello
di cultura, senza correre il pericolo di tralasciare qualche
studioso o di riportarne solo parzialmente il pensiero.
Tuttavia si cercherà di ripercorrere in senso storico-
cronologico le evoluzioni del concetto e di riportare
quanto necessario affinché sia possibile addentrarsi in un
8
concetto così complesso, tentando di raggiungere una
prospettiva, anche se generale, quanto meno a 360 gradi,
poiché solo partendo da un’ampia prospettiva in senso
sociologico, antropologico e psicologico si potrà
veramente capire l’argomento qui discusso (ciò vale
soprattutto per i “non addetti ai lavori”).
Quindi, per avere subito un’idea di ciò di cui si parlerà,
quasi in un percorso al contrario, si partirà da una
definizione generale, che possa più o meno riassumerle
tutte, alla quale si è giunti dopo anni di studi e
speculazioni sul concetto. Pertanto, sintetizzando gli
apporti di diversi studiosi, la cultura è: un modello di
organizzazione della realtà dato da un insieme di
elementi diversi fatti di abilità, di costumi, di valori, di
riti, miti e credenze, di religione, lingua parlata, di
pratiche e altre caratteristiche che tendono a integrarsi in
un insieme complesso e sono peculiari di un determinato
gruppo sociale, distinguendolo e separandolo dagli
“altri”.
L’importanza che la diversità culturale riveste nelle
società occidentali contemporanee è considerata
storicamente senza precedenti. La nozione di cultura
d’altra parte appartiene alla storia occidentale. Secondo
il sociologo Franco Crespi: “All’interno della complessa
esperienza storico-culturale lo sviluppo dell’etnologia,
dell’antropologia culturale e della sociologia, nella
seconda metà del XIX secolo e nel XX secolo, ha
grandemente contribuito all’approfondimento del
fenomeno cultura, determinando in modo decisivo
l’aumento della nostra consapevolezza circa l’influenza
preponderante che, sul nostro modo di sentire di pensare
e di agire, hanno le rappresentazioni culturali”
vii
.
9
La difficoltà di definire in modo preciso il concetto di
cultura è legata alla complessità che il fenomeno stesso
presenta. In questo paragrafo, come anticipato, si
cercherà di analizzare la prospettiva socio-antropologica
nata dall’incontro e dal superamento delle varie
elaborazioni del concetto di cultura.
In primo luogo prendiamo in considerazione la
prospettiva nata in opposizione alla visione umanistica
della cultura. Secondo una concezione classica la cultura
consiste nel processo di sviluppo e mobilitazione delle
facoltà umane che è facilitato dall’assimilazione del
lavoro di autori e artisti importanti e legato al carattere di
progresso dell’età moderna.
Secondo una concezione antropologica la cultura - o
civiltà - presa nel suo più ampio significato etnologico è
“quell'insieme complesso che include il sapere, le
credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e ogni
altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in
quanto membro della società” secondo la nota
definizione dell’antropologo inglese Edward B. Tylor
viii
.
Con la prima definizione ci si riferisce, nel linguaggio
comune, a finezza di ingegno, buon gusto, buone
maniere, ed è il modo di concepire la cultura
tradizionalmente associato al sapere umanistico, sebbene
le discipline umanistiche contemporanee stiano
ripensando questo approccio. Nell’epoca illuministica
invece vi si attribuiva un’aura di sacralità, separandola
dall’esistenza quotidiana e considerando la cultura come
un mezzo per la “salvezza” dell’umanità, contro l’aridità
della società dovuta al progresso scientifico. Da non
dimenticare è il fatto che quando allora si parlava di
cultura, si intendeva pur sempre la cultura dell’Europa
occidentale. Pertanto, tale concezione umanistica, oltre
10
ad essere elitaria era anche etnocentrica
ix
.
Le nuove discipline dell’antropologia e della sociologia,
nel corso del diciannovesimo secolo, si posero il
problema di pensare la cultura in modo molto diverso
rispetto a quello umanistico. “Quando i sociologi parlano
di cultura, ha osservato Richard Peterson (1979),
solitamente intendono una di queste quattro cose: norme,
valori, credenze o simboli espressivi. Le norme sono il
modo in cui la gente si comporta in una data società, i
valori sono ciò a cui essi tengono, le credenze sono il
modo in cui essi pensano che il mondo funzioni, e i
simboli espressivi sono rappresentazioni, spesso delle
stesse norme sociali, dei valori e delle credenze”
x
.
Invece, la nuova concezione della cultura come modo di
vita di una data società, fu introdotta nell’antropologia
inglese appunto da E.B.Tylor. Questa definizione
antropologica ad ampio raggio domina da allora le
scienze sociali, compresa la sociologia contemporanea.
In realtà il termine cultura si presta non ad una, ma a
diverse interpretazioni. Nel 1952, Clyde Kluckhohn ha
tentato di sintetizzare, nel seguente elenco, le più di
centocinquanta interpretazioni del termine cultura trovate
insieme a Alfred Kroeber: 1) la maniera complessiva di
vivere di un popolo; 2) l’eredità sociale che un individuo
acquisisce nel suo gruppo di appartenenza; 3) un modo di
pensare, sentire credere; 4) un’astrazione derivata dal
comportamento; 5) una teoria formata dall’antropologo
sociale sul modo in cui effettivamente si comporta un
gruppo di persone; 6) un deposito del sapere posseduto
collettivamente; 7) una serie di orientamenti
standardizzati nei riguardi dei problemi ricorrenti; 8) un
comportamento appreso; 9) un meccanismo per la
regolazione normativa del comportamento; 10) una serie
11
di tecniche per adeguarsi sia all’ambiente sia agli altri
uomini; 11) un precipitato di storia, una mappa, un
setaccio, una matrice
xi
.
A differenza della vecchia scuola umanistica, gli
scienziati sociali di varie scuole di pensiero tendono a
vedere armonia, e non opposizione, tra cultura e società.
Infatti, le due teorie sociali tra le più influenti del
Ventesimo secolo (Funzionalismo e Marxismo)
condividono l’assunto della forte congruenza tra i due
termini. Per esemplificare quest’assunto è utile prendere
in considerazione l’analisi svolta da Peter Berger (1969),
sulla cultura come esito di un processo di
esternalizzazione, oggettivazione e interiorizzazione.
Secondo Berger gli esseri umani proiettano la loro
esperienza sul mondo esterno (esternalizzazione), poi
vivono ciò che hanno proiettato come se fosse qualcosa
di indipendente (oggettivazione) e infine incorporano
queste proiezioni nella loro coscienza psichica
(interiorizzazione)
xii
.
Lo stesso processo è utile a chiarire come la cultura
agisca a livello inconscio, spiegando come a volte non ci
rendiamo conto di mettere in atto determinati
comportamenti, che sembrano naturali, ma che in realtà
sono una estensione del nostro mondo culturale, poiché li
abbiamo appunto interiorizzati. Chiarisce, ancora, come a
volte non si ha quel livello di consapevolezza
(awareness, in inglese) necessario ad attivare dei “radar
cognitivi”, che ci permettano di intercettare determinati
atteggiamenti dovuti al background culturale.
Una prospettiva diversa o piuttosto si potrebbe dire
“arricchita” è offerta dallo scienziato sociale Max
Weber
xiii
, il quale sostiene che l’influenza tra cultura e
società non va vista alternativamente nell’una o nell’altra
12
direzione, ma questa è mutua, funziona in entrambi i
sensi; egli dimostra come il nesso di causalità può
funzionare anche in modo inverso, laddove l’agire
sociale può riflettere i significati culturali e non
viceversa, come affermavano i marxisti e i
funzionalisti
xiv
.
Una definizione ancora più accurata di cultura, che va
oltre il concetto di un complessivo modo di vivere, così
come è concepito dagli scienziati sociali, è quella
dell’antropologo Clifford Geertz, che incentra la sua
riflessione sui simboli e sul comportamento, derivanti dai
modi di pensare e sentire simbolicamente espressi. Per
Geertz la cultura è:
“una struttura di significati trasmessa storicamente,
incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in
forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano,
perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti
verso la vita”.
xv
Questa definizione racchiude comunque ciò che la
maggior parte dei sociologi intende quando usa la parola
cultura. Non viene considerata una cosa sacra o
profondamente diversa da ogni prodotto o altra attività
della vita umana e pertanto può essere studiata
empiricamente come ogni altra cosa. Essa è vista più
come un’attività che come qualcosa che debba essere
conservata in archivio, dato anche che non è qualcosa di
così fragile come volevano far intendere gli umanisti, ma
è piuttosto qualcosa che persiste e dura. Nella definizione
di Geertz una cultura è un “modello di significati” che è
durato nel tempo. Il senso o il significato (le due parole
vengono qui usate in modo intercambiabile) si riferisce
alla capacità dell’oggetto di suggerire o indicare
13
qualcos’altro, oltre ad ogni proprietà pratica o diretta che
esso può avere. Tale significato viene attribuito da parte
dei membri della cultura ed è condiviso da essi. Il mondo
umano ha un bisogno innato di attribuire senso alle cose
e soprattutto che tale senso sia comune alle persone che
lo circondano. Un senso socialmente condiviso, appunto.
Ciò deriva dal fatto che la paura maggiore di un essere
umano, come afferma Peter Berger non è tanto il male,
quanto il caos, una totale assenza di ordine. Per
difendersi dal caos, gli esseri umani creano le culture
attraverso il processo di esternalizzazione-
oggettivazione-interiorizzazione. E’ per questo motivo
che ci si trova spaesati quando si viene a contatto con una
cultura differente, per il fatto di non riuscire a capire il
significato di alcune cose o situazioni nelle quali ci si
imbatte. Ed è da qui che si genera a volte la paura del
“diverso”: dall’incapacità di attribuire un significato
preciso alla cosa o dal non riuscire a condividere lo
stesso significato attribuitogli dalla cultura in questione.
Ma tale capacità si può apprendere. Gli esseri viventi si
sviluppano e agiscono in accordo con istruzioni
codificate nei loro geni. Nel caso degli animali, la
maggior parte della conoscenza che hanno e dei
comportamenti che mettono in atto, è impiantato
geneticamente. Gli esseri umani sono diversi: i codici
genetici dell’uomo non danno informazioni sufficienti
per la sopravvivenza e soprattutto sono psicologicamente
incompleti alla nascita. Gli uomini devono imparare a
vivere. E l’apprendimento negli umani è un processo
sociale attraverso il quale si trasmette la cultura. Geertz
ha sintetizzato il modo in cui la cultura umana compensa
l’incompletezza genetica:
14
“L’uomo ha bisogno di […] fonti simboliche di
illuminazione per trovare la sua strada nel mondo, perché quelle di
tipo non simbolico, inserite nel suo corpo costituzionalmente,
gettano una luce troppo soffusa. Negli animali inferiori i modelli di
comportamento si danno insieme alla loro struttura fisica, o almeno
in gran parte: le fonti di informazione genetiche ordinano loro azioni
entro possibilità di variazione molto più ristrette, […]. All’uomo
sono date capacità innate di reazione estremamente generali che lo
lasciano regolato con molta minor precisione: […] non diretto da
modelli culturali il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente
ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in
tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura,
la totalità organizzata di questi modelli, non è un ornamento
dell’esistenza umana ma – base principale della sua specificità – una
condizione essenziale per essa”
xvi
.
Geertz quindi supera con le sue affermazioni anche la
prospettiva biologica, profondamente influenzata dalla
teoria evoluzionistica di Darwin, la quale viene definita
nelle scienze sociali “darwinismo sociale”, ispirata in
primo luogo dal lavoro di Herbert Spencer. Brevemente,
secondo le teorie del darwinismo sociale, la società viene
concepita come un organismo, soggetta alle stesse leggi
di sviluppo: l’istinto è considerato come fattore causativo
fondamentale del comportamento umano, ma soprattutto
assume particolare importanza l’idea della selezione
naturale, secondo la quale sopravvive solo chi ha i
caratteri più adatti all’ambiente circostante i quali, tra
l’altro, sarebbero ereditari. Anche la cultura, considerata
all’epoca come civilizzazione, faceva parte di quei
caratteri che permettevano la sopravvivenza. Pertanto,
solo chi aveva la cultura più adatta, chi era civilizzato,
riusciva o aveva il diritto di dominare l’ambiente
circostante e i popoli meno civilizzati. In questo modo, si
poteva affermare l’inferiorità dei popoli primitivi,
contrapponendo la loro barbarie all’affinamento culturale