per essere portate a compimento ed entrambe coinvolgono e fanno partecipi più
individui, per cui si stabiliscono dinamiche di gruppo legate al doppio compito che si
deve eseguire. La caccia (così come l’agricoltura, in seguito) ha spinto l’uomo a
collaborare con i membri del proprio gruppo per l’approvvigionamento delle risorse e il
pasto lo ha indotto a trovare un equilibrio interno per la re-distribuzione del premio.
Dare la caccia ad un mammut è una pratica di out-group, implica cioè uno sforzo
congiunto verso un nemico comune ed è motivato da un obiettivo condiviso all’interno
del proprio gruppo (mangiare) che stimola a rafforzare lo spirito di cooperazione,
perché imperniato sull’interdipendenza tra i membri per la reciproca sopravvivenza.
Tuttavia esso non è altro che il mezzo per soddisfare il fine ed è quindi nell’atto
successivo, cioè nel mangiare, che si manifesta concretamente la coesione, il senso di
appartenenza e lo spirito di solidarietà, in una parola sola la socialità. Rimanere uniti e
collaborare, aiutandosi anche all’occorrenza, è più naturale e agevole quando lo scopo
di ognuno converge con quello di tutti (cacciare un mammut per mangiare, tutti contro
uno), ma è più problematico e complesso quando lo scopo coincide (mangiare per
sfamarsi e nutrirsi, uno contro tutti).
L’approvvigionamento e la ripartizione delle risorse sono attività che prevedono
specifiche tecniche: la caccia porta alla ed è resa possibile dalla cooperazione e dalla
specializzazione delle funzioni, in rapporto alle doti dei soggetti, per cui i più forti, i
migliori, sono quelli che contribuiscono in misura maggiore alla conquista del premio.
Dividere un premio invece necessita di una organizzazione diversa, tale da non dover
costringere il singolo a lottare anche con i propri “soci” per garantirsi la sopravvivenza:
implica un ordine - gerarchico o egualitario che sia - e quindi un sistema simbolico e
normativo che tenga conto dei ruoli di tutti non solo per quanto riguarda la caccia, ma
anche per quello che concerne le altre funzioni necessarie alla continuità, come la
riproduzione (visto che probabilmente era l’uomo ad andare a caccia perché più forte
fisicamente, nasce forse da questo lo stereotipo donne = casa e bambini?) o
l’esperienza, la conoscenza dell’ambiente (utile a indicare le soluzioni che nel tempo si
erano dimostrate più adatte, come le tecniche di caccia, la conoscenza dell’habitat, i
rimedi alle malattie comuni: da qui la solidarietà verso gli anziani?). È nella spartizione
delle risorse che si deve dimostrare la coesione e questa deriva da un comune senso
di appartenenza che ha le sue fondamenta nella capacità dell’essere umano di
rappresentare simbolicamente gli eventi e quindi anche se stesso: l’Uomo si riconosce
come parte di un gruppo, si definisce e si identifica in rapporto ai propri simili perché sa
di non potersi affidare solo a se stesso per la propria sopravvivenza e perché sa di
dover dipendere dai propri affini per vedersi assicurata un’esistenza più prolungata.
Attraverso la capacità di rappresentazione simbolica ha acquisito la cognizione e la
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consapevolezza delle maggiori possibilità e dei maggiori benefici che l’unione con gli
altri simili avrebbe prodotto, sviluppando la propensione a cercare la comunicazione ed
a controllare e incanalare gli istinti in un’ottica di interesse collettivo.
In sostanza quello che voglio dire è che il mangiare nasce come un’azione sociale e
collettiva, che vedeva presenti i vari membri del gruppo ed era valida a sancire
l’appartenenza ad esso attraverso la partecipazione alla ricompensa (magari in base ai
meriti e alle funzioni, con l’emergere della figura del leader), ed era quindi utile per
rafforzare la coesione anche perché pratica quotidiana. Mangiare diventava
un’occasione sociale, premio da condividere in uno spazio ravvicinato e in un tempo
concordato - anche per difendersi dagli altri gruppi di uomini, desiderosi di scippare la
preda - e forse ha anche rappresentato uno dei primi metri di giudizio sul proprio ruolo
e sul sé (chi non era considerato utile era escluso o mangiava meno). Non era un
semplice momento in cui ci si sfamava, era di più: era una manifestazione simbolica di
appartenenza, era il riconoscimento alla propria condotta, era il segnale
dell’accettazione e dell’inclusione nel gruppo, era l’occasione in cui dimostrare di
rispettare le regole e guadagnarsi l’approvazione; un po’ come un banco di prova, dopo
aver dimostrato doti magari eccelse nelle altre attività doveva ora assumere
comportamenti comunque non prevaricatori per essere promosso.
Certo di anni ne sono passati parecchi, ma mi sembra che si sia conservata l’abitudine
di consumare il pasto assieme ai membri di uno dei gruppi di cui si fa parte (famiglia,
lavoro, amici, etc…) o comunque a preferire questa opzione. E comunque tutti
mangiamo in famiglia per i primi anni di vita: ricordo il mio pranzo a casa come un
momento solenne, aspettare gli altri per cominciare, tutti insieme con la serotonina che
pompava nel cervello grazie ai maccheroni, tutti insieme in pausa, parlare di noi e
guardarci negli occhi, il cibo che doveva bastare per tutti, il dire sempre è buonissimo o
i piccoli che a Natale avevano un tavolino tutto per loro, separato da quello dei grandi e
che gioia quando anche io ne sono entrato a far parte, i loro discorsi e le loro leccornie.
Quando si dice la tradizione.
Se il mangiare è nato e si è consolidato come azione sociale e manifestazione di
appartenenza e ha perciò spinto a privilegiare la condivisione e la compartecipazione
con gli altri membri del proprio gruppo all’atto, allora si può ipotizzare che ogni
individuo mangiava solamente nella propria comitiva, da cui - automaticamente - ne
erano esclusi tutti gli altri? Si mangiava con i propri affiliati e quindi chi mangiava da
solo non faceva parte di nessuna claque, non era stato accolto da nessuno, aveva
qualcosa che non andava: è azzardato? Il gruppo rappresenta da sempre un’ancora di
salvezza e garantisce maggiori potenzialità e quindi un maggiore ritorno in termini di
utilità e soddisfazione, soprattutto se ci si riferisce all’approvvigionamento delle risorse
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alimentari: in breve, sicuramente ci sono stati individui che mangiavano da soli, magari
raccogliendo frutta o cacciando piccoli animali, ma altrettanto sicuramente in questo
modo essi stavano rinunciando a prede più rilevanti, che potevano essere catturate
solo tramite la cooperazione dei membri del gruppo, accontentandosi di quello che
erano in grado di trovare da soli e non potendo contare, di conseguenza, su quei
vincoli di solidarietà che garantivano un aiuto in caso di bisogno.
Mangiare insieme è stato anche un espediente per cementare la coesione e favorire
l’armonia tra gruppi diversi, mezzo per dimostrare socialità - anche attraverso l’offerta
di averi propri - e allargare i confini, per tessere una rete di alleati e ricevere la loro
preferenza. Manifestazione palese di socialità, di ulteriore valenza simbolica del gesto,
che univa nella condivisione. Il mangiare si è stabilizzato come simbolo associato ad
una compartecipazione e mi sembra che qualche retaggio sia rimasto: non preferiamo
forse tutti stare con le persone care piuttosto che pranzare da soli o con degli
sconosciuti? E non è forse vero che alcune persone si sentono in imbarazzo se
mangiano in un ristorante senza nessuno a fianco? O ancora, non si è soliti chiedere
scusa quando si inizia un pasto da soli, senza aspettare gli altri?
Queste sono alcune delle domande che stuzzicano il mio interesse e cercherò di dar
loro un’interpretazione, ben sapendo che la validità del mio studio passerà per la sua
capacità di circoscrivere il fenomeno e adottare gli strumenti adatti alla sua descrizione,
facendo riferimento ad un quadro concettuale e scegliendo le procedure secondo
principi di sistematicità e conseguenzialità logica, al fine di rendere la ricerca un
processo aperto e circolare.
1.2 Mangiare a casa: in relax cognitivo.
Mi sembra di poter asserire con tranquillità e senza sentire la necessità particolare di
portare numeri a riguardo che gran parte degli individui utilizzi il proprio spazio
domestico per mangiare. Credo che tutti noi preferiremmo mangiare ogni giorno in un
ristorante diverso, senza dover cucinare né lavare e addirittura avendo l’imbarazzo
della scelta. Tuttavia è evidente come tale desiderio si scontri duramente con la realtà:
la vita del lavoratore è imperniata sullo stipendio e sul reddito, ragion per cui deve
considerare le sue esigenze primarie e i relativi costi sul medio e lungo periodo. Il
risparmio che si ottiene comprando i prodotti e cucinandoli a casa è sostanziale,
soprattutto se si tiene conto del ridotto potere d’acquisto di questi tempi e del
progressivo impoverimento generale. In sostanza la facoltà di scelta dipende dalle
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capacità economiche, ragion per cui essa tende a riflettere l’ordine sociale; per questo
motivo sarà molto limitato il numero di coloro che può permettersi di mangiare fuori
casa ogni giorno e molto più ampio quello di coloro che non possono permetterselo
mai o quasi e, in mezzo, una galassia di individui che può permetterselo più o meno
abitualmente. Il significato dell’azione varia quindi da persona a persona ed è un
indicatore dell’identità sociale poiché riflette le possibilità - e la libertà - di ognuno nel
vivere e interpretare il mondo.
Quello che attira la mia attenzione è quindi soprattutto descrivere i comportamenti
connessi alla prestazione, che si materializza in differenti contesti e lontano dalle mura
domestiche: dentro casa l’individuo gode di maggiore libertà e autonomia perché è in
uno spazio privato ed è padrone della situazione, mentre al ristorante o al fast- food è
in un luogo partecipato con persone che condividono lo stesso fine, ma che sono
sconosciute e deve rispettare delle regole tipiche e specifiche se vuole ottenere lo
scambio. A casa l’individuo gode di un ruolo proprio, da protagonista: è parte di un
gruppo e viene percepito dagli altri membri come una persona (comunque una persona
che identifica un ruolo); in un locale invece il suo ruolo coincide con quello di tutti gli
altri, e cioè è un cliente.
La casa è da sempre un mezzo di protezione e comodità (la primitiva grotta dei nostri
antenati ne è il simbolo più eloquente), quindi spazio adatto per rispondere alle comuni
necessità umane; è ragionevole dunque pensare che sia stata da sempre vettore di
aggregazione e che abbia rappresentato un luogo in cui stabilire delle regole di co-
abitazione per migliorarne la funzionalità complessiva; in particolare poi ha
rappresentato lo spazio del proprio gruppo - e oggi anche del proprio io - simbolo di
identità e libertà (oltre che di status). La casa si anima dei soggetti che la riempiono,
stretti da un vincolo e in rapporti diretti e continuativi tra di loro: essa rappresenta per
l’individuo uno spazio personale e sicuro, intimo e affettivo, in cui le regole vengono
stabilite assieme ai membri del proprio gruppo secondo logiche interne (ovviamente
influenzate dai condizionamenti esterni e per questo tramandate) e la cui verifica
quotidiana conferisce un ampio grado di prevedibilità ai rapporti. Essa simboleggia per
antonomasia lo spazio della famiglia ed anche quello della propria affermazione
sociale: man mano che le condizioni economiche sono migliorate si è manifestata la
tendenza al distacco dalla famiglia d’origine da parte dei figli, per creare un nucleo
indipendente in uno spazio proprio in cui formare un proprio gruppo e in cui essere
dominante nella genesi e nella negoziazione delle regole di funzionamento. Non è
questo il luogo per approfondire le svariate tematiche connesse al tema casa, quello
che mi interessa è soprattutto sottolineare la sua natura solida e definitiva, la sua forza
nel porsi come dimensione visibile delle abitudini perché è in essa che si realizza il
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dove dell’esistenza sociale dell’individuo. La casa è lo spazio della prevedibilità e
fornisce alla persona un momento di certezza esclusiva, la rende sicura perché
rappresenta uno spazio proprio e per questo più libero, in cui conosce quali
comportamenti sono concessi e cosa significano quelli degli altri.
Occorre a questo punto una precisazione. Dentro le mura domestiche i comportamenti
degli inquilini riflettono il sistema di aspettative reciproche e vengono quotidianamente
confermati, poggiando le loro fondamenta sul senso di appartenenza che si stabilisce
all’interno del gruppo. Infatti l’appartenenza ad un insieme - specie se la famiglia -
spinge l’individuo all’assimilazione dell’identità sociale degli altri membri, svolgendo
una funzione di riconoscimento e identificazione nella valutazione della propria
immagine e rassicurandolo sulla propria condotta perché significativa e socialmente
approvata almeno in quel sistema. Il we sense presuppone e implica uno scopo
comune, che può essere raggiunto solo tramite la cooperazione degli elementi che
compongono il sistema; la struttura quindi deve essere retta da uno circuito simbolico
che si concretizzi in un ordine capace di indirizzare le relazioni, rendendole significative
e gratificanti. La condivisione di un obiettivo orienta i comportamenti dei soggetti in
funzione del sistema di aspettative reciproche: queste rappresentano le condizioni
iniziali da cui partire per rendere gli scambi produttivi verso lo scopo e si materializzano
nelle parti attraverso la definizione dei ruoli. A loro volta i ruoli permettono agli individui
di verificare in maniera efficace la propria posizione e la propria condotta, poiché si
riferiscono ad un insieme specializzato di norme e comportamenti che è stato definito e
negoziato dai membri.
In sostanza ricoprendo un ruolo l’individuo sente di far parte di un insieme più grande
di lui e di condividere con questo uno scopo, il cui raggiungimento può essere
conseguito solo tramite il rispetto delle aspettative reciproche, che definiscono le regole
e la natura delle relazioni; l’individuo sa che ricoprendo un ruolo l’efficacia della sua
azione (in termini di ritorno di utilità) passa per l’esecuzione di quel compito e questo lo
tranquillizza nella sua condotta perché incrementa il grado di prevedibilità dei
comportamenti appropriati, suoi e degli altri, consentendogli una valutazione più sicura
e rilassata della propria immagine perché associata al rispetto dell’impegno, che dentro
casa si è venuto consolidando nel tempo tramite un apprendimento e una verifica
costanti e regolari.
Guardando all’atto del mangiare, si può ritenere che - a casa - lo stress legato alla
prestazione sia minimo (se non assente del tutto, come può essere per un single)
perché la pressione esercitata dalle altre parti è bassa - perchè esistono vincoli affettivi
- e soprattutto si è manifestata gradualmente e continuativamente attraverso la
definizione delle regole, acquisite nel tempo tramite la personificazione nel ruolo e
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quindi tali da rendere altamente prevedibili le aspettative percepite su di sé da parte
degli altri. In sostanza, rimanendo sull’atto pratico del mangiare, a casa l’individuo si
sente più a suo agio perché gode di un ruolo importante e sa che un suo errore poco
probabilmente verrà valutato in maniera irreversibile, così come che le sanzioni
difficilmente saranno gravi perché portate da membri del proprio gruppo. E soprattutto
conosce con certezza le regole e le aspettative degli altri compartecipanti perché
acquisite nel tempo e verificate/negoziate continuativamente: dentro le mura
domestiche l’atto del mangiare è ogni volta uguale a se stesso, temporalmente
scandito e il suo significato è acquisito per il gruppo così come le funzioni svolte dai
membri (si mangia tutti insieme, ad un orario condiviso e auto-determinato, la madre
che cucina, il padre a capotavola che poi lava i piatti, i figli che mettono in ordine o non
fanno niente…), il tutto con l’ovvio motivo di ridurre lo sforzo cognitivo e creare un
contesto più prevedibile e sereno.
La casa rappresenta uno spazio polisemico di protezione e intimità, prevedibilità e
sicurezza, libertà e affettività che tranquillizza l’individuo sulla prestazione e nella
valutazione della propria condotta: la maschera che quotidianamente indossa coincide
(in misura variabile a seconda del contesto domestico) con quella che gli altri
pretendono da lui - meglio, gli chiedono - perché si riferisce a comportamenti ed
atteggiamenti specifici prodotti, concordati e negoziati dalle parti nel corso del tempo
passato assieme, rendendo altamente probabili e significative le reazioni. Essa inoltre
concede all’individuo la possibilità di correggere un suo errore poiché ripropone lo
stessa situazione ogni giorno e, soprattutto, la inserisce in un contesto costituito da
persone vicine emotivamente e a cui si può spiegare il motivo dell’incomprensione che
ha portato alla disapprovazione sociale o alla sanzione (che sarà sempre ricondotta
alla natura del rapporto – affettivo - e per questo più mite, transitoria e non definitiva). Il
soggetto dilata tempi e modi della valutazione di sé, facendo rientrare la prestazione -
mangiare a tavola con la propria famiglia - in un quadro più ampio di significati che
dipendono meno dalla specifica situazione e molto più dalla struttura complessiva delle
relazioni. Le qualità che gli sono richieste vengono valutate con tolleranza,
comprensione e severità circoscritta, anche perché questo concede agli altri membri
che esercitano il controllo ed esprimono il giudizio una maggiore libertà di
comportamento, rendendoli a loro volta più naturali e rilassati.
A casa, semplificando e generalizzando, ho meno paura di sbagliare e non mi
vergogno perchè so che il giudizio degli altri sarà comunque mitigato dai rapporti di
conoscenza e affettività e non verrà nascosto, ma spiegato per migliorare la prossima
prestazione, il giorno dopo. La valutazione del sé sarà quindi più flessibile e meno
esigente, permettendo di ridurre lo stress legato alla necessità di dover fornire la
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migliore immagine di sé. In conclusione, la casa permette di risparmiare energie
cognitive perché 1) le aspettative sono ben note e rendono altamente prevedibili le
relazioni, 2) i rapporti sono affettivi e riducono lo stress competitivo legato alla
prestazione.
1.3 Mangiare fuori casa: definizione e considerazioni iniziali (la differenza dal
mangiare a casa).
Innanzitutto quando parlo di mangiare fuori casa faccio indistintamente riferimento a
tutti i punti di ristoro “sul mercato”, anche se in fase di raccolta dati ho poi analizzato la
specifica categoria del ristorante. Il mangiare fuori casa si presenta quindi come uno
scambio di natura prevalentemente economica che pone in rapporto diretto cliente e
proprietario, elementi costitutivi della relazione stretti da fiducia reciproca (il cliente
accetta il piatto proposto e il ristoratore fa credito, facendosi pagare alla fine dello
scambio senza chiedere prima all’avventore se è in grado di sostenere il conto) e i cui
comportamenti vengono orientati in vista dei corrispettivi scopi (il cliente vuole
mangiare e il ristoratore vuole ottenere un profitto economico).
Detto ciò, proverò a circoscrivere gli elementi che costituiscono la prestazione -
mangiare in un punto di ristoro - e cercherò di descrivere e spiegare le differenze che
inevitabilmente si determinano tra l’atto del mangiare a casa e fuori casa.
Innanzitutto mangiare fuori casa vuol dire trovarsi ogni volta in una situazione diversa,
ogni volta in presenza di persone diverse che condividono lo spazio per lo stesso
motivo oppure perchè vi stanno lavorando, e anche se si sceglie di andare sempre
nello stesso ristorante comunque i comportamenti dei soliti camerieri saranno
influenzati dagli altri clienti in quel momento presenti.
Entrato in un locale l’individuo cerca per prima cosa di “etichettarlo”, di farlo rientrare
cioè in una categoria conosciuta e coerente, richiamando le analogie e le similitudini
con gli altri casi esperiti con lo scopo di definirne il tipo e adottare i codici
comportamentali appropriati. Il secondo passo è il riscontro dei ruoli, il consenso
operativo ( tra cliente e ristoratore) che ribadisce le posizioni e le funzioni delineando -
in virtù dell’interpretazione che ad esse viene data dai soggetti dello scambio - anche i
margini di libertà (posso fare una battuta al cameriere o è il caso che non sia troppo
esigente visto che sono sommersi da lavoro? È una trattoria allegra e caciarona o si
deve stare calmi e composti perché questa è l’atmosfera che si vuol creare nel
locale?).
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