2
Ancora oggi, non si possiede alcuna certezza, nemmeno nei confronti della
specifica terminologia, perché persistono ambiguità semantiche, dovute
all’intersecarsi di variabili di tipo medico (follia = malattia) e di tipo socio-
politico e filosofico-esistenziale (follia = etichetta sociale, con indicazioni
di sintomi e carattere di persone “strane” o “diverse”).
Questo altalenarsi di interpretazioni sul problema della “follia” sottende
comunque sempre la paura, come ricorda Foucault
2
, particolarmente
mediata dal razionalismo dell’occidente, dei potenziali distruttivi di cui il
soggetto portatore di deficit psichico, o di diversità comportamentale è
espressione.
La forma-follia ha subìto continue trasformazioni, perché lo spartiacque tra
la normalità e la follia, tra la salute e la malattia mentale si è rivelato
storicamente determinato, modellato sugli interessi, sugli orientamenti
ideologici delle classi dominanti.
Ogni società, in periodi storici specifici, sembra produrre una popolazione
di folli dalla fisionomia sociale e morbosa definita e riconoscibile
3
.
Per esempio, sono pressoché scomparse le grandi sindromi ottocentesche
che avevano costituito l’espressione più importante, in senso quantitativo,
della malattia mentale perché legate alle condizioni alimentari, igieniche,
abitative e lavorative della popolazione.
La follia trovava frequentemente terreno di coltura del disturbo psichico
nella fame, nella miseria, nello sfruttamento, o era provocata dai fenomeni
delle carestie e dalle guerre. Su questi fenomeni non interveniva
un’organizzazione sociale di tipo etico-educativo, la mancanza di un
adeguato patrimonio di esperienza medico-scientifica impediva di
differenziare le diverse forme di alienazione, basandosi su un background
2
M. Foucault., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2001
3
A. De Bernardi, (a cura di), Follia, psichiatria, società, F. Angeli, Milano 1982
3
eziologico che metteva insieme cretinismo, imbecillità, psicosi, alcolismo,
pellagra ecc., con vere e proprie patologie di origine organica, o con
semplici disagi e stranezze comportamentali.
La segregazione manicomiale avveniva attraverso la riduzione ad unica
categoria generale di diverse manifestazioni fenomenologiche, indicanti
particolari degenerazioni o qualche diversità dalla norma.
La psichiatrica nasce proprio con lo scopo di classificare i soggetti malati
attraverso categorie cliniche. Inoltre, poiché si notò sempre più il legame
tra fenomeni patologici e malattie sociali, si pensò ad una specie di
predisposizione sociale e ad una dipendenza di fattori morali della follia, al
punto che i primi esponenti della psichiatria, come Chiarugi, Pinel,
Esquirol e Girolami, insistettero sulle terapie di recupero della moralità,
come fondamento dell’eventuale riabilitazione, avvicinando l’intervento
medico al fattore educativo, come base per l’acquisizione di una maggiore
disciplina comportamentale.
Se non è possibile una società capace di dare una collocazione e una
identità al folle, allora si pensa ad una società alternativa ideale per lui con
un ordine morale-disciplinare che gli consenta di ritrovare, attraverso un
percorso educativo, una ragione alternativa e una rinnovata identità.
L’emarginato, il rifiutato, l’improduttivo, le varie figure espulse dal
contesto socio-economico e familiare diventano folli per definizione,
proprio perché internati.
Se, secondo alcuni studiosi, le tecniche psichiatriche non erano in grado di
curare la follia, ma solo di classificarla, la conclusione era che i malati di
mente dovevano essere, per la maggior parte, incurabili. Questa visione
pessimista induceva a rivolgersi a teorie mediche per le quali la follia era
una malattia fisica o, forse, una tara ereditaria, e il pazzo una persona
regressiva e irrecuperabile.
4
Intanto cresceva la paura per la pericolosa degenerazione delle masse, che,
secondo molti psichiatri, stavano “affossando la civiltà con il loro
decadimento mentale”
4
, proprio nel periodo in cui il darwinismo andava
predicando che soltanto le società sane potevano sopravvivere.
Ci fu chi, come Girolami intuì la difficoltà di definire i confini della
malattia mentale e descrisse la nocività di soggetti “devianti” che, pur non
presentando stati morbosi evidenti, risultano socialmente pericolosi e,
quindi da internare. Il “deviante”, spesso, era considerato un malato da
rinchiudere e da studiare, perché socialmente pericoloso.
Il confine tra devianza e normalità e tra malattia mentale e salute è sempre
stato labile e spunto di riflessione. I primi rapporti tra devianza e malattia
mentale furono studiati da Lombroso, il quale era certo che la
predisposizione al crimine fosse di origine patologica ed in particolare egli
studiò la fisionomica della diversità mentale.
Nasce, in quel periodo, alla fine dell’Ottocento, l’esigenza di definire
quantitativamente la differenza tra uno stato di salute patologico e non,
attraverso l’ausilio di strumenti scientifici.
Nasce, quindi, la concezione fisiognomica della diversità mentale, che
considera il carattere dell’alienato come un’espressione della fisiologia
celebrale. La domanda che, più spesso, gli addetti ai lavori si sono posti è
quella che cerca di capire se l’identità del folle vada cercata nelle scienze
mediche (follia-malattia), o nell’evoluzione storica del contesto sociale e
relazionale.
Le dicotomie devianza-normalità, salute-malattia sembrano giustificarsi a
vicenda e il “diverso” psichico, malato o deviante nella sua inguaribilità
4
P. Gaspari., Aver cura, Pedagogia speciale e territori di confine, Edizioni Guerrini Scientifica, Milano
2002
5
sembra diventare sempre più oggetto di speculazione piuttosto che oggetto
della sofferenza.
La diversità del folle viene definita chiaramente come ostacolo all’ordine
sociale richiesto dalla società, in quanto elemento improduttivo e frenante il
progresso e di conseguenza il manicomio, può essere inteso come
contenitore di soggetti non produttori che sottraggono ricchezza alla
nazione.
Come si può intuire, il manicomio ha sempre trovato giustificazione,
principalmente, nella preoccupazione di rimuovere dal contesto sociale i
soggetti che potevano creare turbamento all’ordine pubblico, pur non
essendo delinquenti comuni.
La posizione del malato di mente era assimilata a quella del delinquente e
nel corso degli anni, di frequente, è capitato di tralasciare l’idea della
guarigione sostituendola con il concetto di ordine pubblico.
L’emanazione della legge 180 del 1978 porta, in Italia, una trasformazione
non solo pratica ma anche culturale in tutto il campo della psichiatria.
Grazie a Basaglia, infatti, si intuisce che i meccanismi di esclusione
andavano combattuti alle radici, chiudendo i manicomi. Viene recuperata la
dialettica tra Ragione e Irrazionalità e tra follia e umanità che induce a
studiare il linguaggio del folle e ad intendere la follia come prodotto
sociale, cioè come momento critico in cui nell’esistenza di un individuo si
manifesta una malattia che altera i rapporti e la comprensione con gli Altri.
Le “scoperte” di Basaglia pur non porgendo soluzioni pratiche immediate,
hanno permesso una nuova apertura nei confronti di questo problema.
La “diversità” del folle era stata, fino a quel momento, scontata e ovvia, ma
con Basaglia si cerca di ridare al malato mentale la sua dignità e il suo
diritto di cittadinanza.
6
La diversità del folle rinvia al difficile problema dei confini tra normalità e
devianza, tra sanità e malattia, tra normalità e patologia, dove è difficile,
linguisticamente e semanticamente, giungere a definite collocazioni.
Baraldi
5
parla di costruzione sociale della salute e afferma che questa
analisi concerne lo studio della società ma non esclude, anzi presuppone
che la salute sia anche un problema individuale.
Questo tema è stato analizzato con un approccio sistemico, utilizzato da
diversi sociologi come Parsons, Luhmann e Habermas, poiché consente di
osservare la salute sia nella prospettiva sociale che in quella individuale.
Innanzitutto per definire la salute occorre distinguerla dal resto, una volta
tracciata la distinzione che permette di osservare il luogo della costruzione
sociale, è necessario tracciare una distinzione che permetta di dare forma
alla salute stessa.
La costruzione sociale della salute è innanzitutto costruzione sociale di
problemi del corpo e della psiche
6
.
Quello che appare più evidente è che tutti tracciamo una distinzione
basilare che è quella che separa la salute dalla malattia.
Quando si parla di salute non si fa riferimento ad uno sfondo generico ma
allo sfondo della malattia: l’altro lato della distinzione è la malattia. La
distinzione salute/malattia è alla base della costruzione sociale della salute,
è una forma determinata della comunicazione.
Essa è la premessa perché avvengano certe comunicazioni e definisce i
confini di un sistema che racchiude e produce tali comunicazioni.
Benché oggi si parli abbondantemente di “salute” la tradizione parla prima
di tutto di “malattia”. Il punto di partenza, il valore positivo nel codice
5
C. Baraldi, La salute come forma sociale e problema individuale, in La salute come costruzione sociale:
teorie, pratiche, politiche, M. Ingrosso, (a cura di), Angeli, Milano 1994
6
Ibidem, cit. p. 185
7
salute/malattia è sempre stato la malattia. Infatti, è intorno alla malattia che
vengono organizzati i programmi e gli interventi sanitari.
La salute serve a porsi il problema dell’assenza di malattia e, quindi, a
definire gli orizzonti per l’eliminazione della malattia stessa.
I termini “salute” e “malattia” hanno un significato piuttosto vago e
impreciso, e in effetti, è difficile stabilirne un confine netto.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per salute si intende “uno
stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non la semplice
assenza di malattia o di infermità.
Da ciò si deduce che, qualunque individuo che presenti alterazioni del
proprio comportamento rispetto alle norme e ai confini definiti dalla
società, può risultare ad un passo dall’essere deviante dalla società stessa.
La malattia, e nel nostro caso, la malattia mentale, è definita come
abbandono della normalità e di ingresso nella sfera del “diverso”.
Basti pensare alla medicina stessa, la quale crea la malattia: l’etichettare
uno stato come patologia non è un processo socialmente neutro, inoltre il
fatto di pensarsi malato ha delle conseguenze immediate per l’identità del
soggetto e la diagnosi della malattia è sufficiente, a volte, ad introdurre
l’individuo in uno status e in una “carriera” di malato.
Con questo lavoro, è mia intenzione analizzare la situazione attuale della
malattia mentale, come viene affrontata, curata e interpretata,
presupponendo che la reazione sociale nei confronti del malato mentale
rifletta conseguenze sull’identità del malato stesso.
E’ mio interesse concludere osservando come i servizi territoriali oggi
riescano a mitigare questo effetto e quali possano essere le nuove
prospettive su cui lavorare per migliorare il servizio in questo senso.
Lo stage effettuato nel Centro di Salute Mentale di Rimini, innanzitutto, mi
ha dato l’occasione di osservare da vicino l’organizzazione di questo
8
servizio e riflettere sulle funzioni e disfunzioni dello stesso, inoltre ha
permesso di confrontarmi con una realtà diversa e osservarla per la prima
volta da un punto di vista sociologico.
La sociologia, infatti, si occupa della malattia mentale da più punti di vista.
Assumendo la malattia mentale come realtà data e osservabile, almeno
entro certi limiti, la sociologia mira ad individuare, per gravità, la natura e
la localizzazione dei casi
7
.
La sociologia studia, inoltre, le varie componenti dell’organizzazione
sociale che si è consolidata attorno al trattamento istituzionale delle
malattie mentali, dalla psichiatria come insegnamento e professione alle
case di cura viste come sistemi antisociali o istituzioni sociali.
In terzo luogo, sono presi a oggetto di studio gli atteggiamenti collettivi
verso le manifestazioni reali o presunte delle malattie mentali, verso il
folle, il nevrotico e lo psicotico come tipi sociali, nonché il modo in cui essi
sono rappresentati dalle letterature e dai mezzi di comunicazione di massa;
la genesi e la distribuzione sociale dei pregiudizi e degli stereotipi a loro
carico; l’evoluzione storica di questi in rapporto allo sviluppo delle società
moderne.
Qui, la sociologia delle malattie mentali si lega alla sociologia della
devianza dal momento che la maggior parte delle malattie mentali sono
percepite come forma di devianza grave della coscienza sociale di quasi
tutti i popoli, in tutte le epoche.
Devianza e malattia mentale sono collegate anche nel modo in cui i loro
tipi sociali e le loro immagini, rispettivamente il deviante e il “folle”,
vengono percepiti e interpretati dal contesto sociale.
I processi di costruzione sociale del deviante e del malato giungono a
compimento nel momento in cui la società riconosce in loro quei ruoli ed
7
L. Gallino, Dizionario di Sociologia, UTET, Torino 1978
9
essi stessi si identificano come tali, ovvero come direbbe Lemert, si
realizza una “devianza secondaria”.
Negli ultimi anni l’interesse della sociologia per le malattie mentali si è
intensificato a causa anche dell’enorme impatto che certe notizie di
cronaca, trasmesse dai mass media, hanno sull’opinione pubblica.
Le malattie mentali non sono tutte uguali, non tutte sono della stessa
gravità e non tutti i malati mentali possono essere visti come dei pazzi
omicida. Diversi studi fatti in merito dimostrano che la percentuale di
autori di reati violenti contro la persona affetti da disturbi mentali non è
superiore a quella di rei considerati da quel punto di vista “sani”.
8
Alcune malattie inducono i malati a diventare apatici, depressi, timorosi
delle relazioni, a-sociali e difficilmente diventano pericolosi a tal punto da
uccidere, se ciò avviene è perché accanto al disturbo psichico sono
subentrati altri fattori aggravato spesso dalla negligenza delle istituzioni
nella rapidità di intervento.
Lo studio sociologico delle malattie mentali offre spunti di riflessione che
mettono in gioco il rapporto tra la sociologia stessa e la psichiatria.
La sociologia può aiutare a conoscere meglio la malattia mentale,
soprattutto oggi, in un periodo in cui la psichiatria ritorna a far parlare di sé
ed è di nuovo al centro di dibattiti politici.
La nuova proposta di legge Burani Procaccini mette in discussione
l’efficacia dei servizi territoriali psichiatrici che, con Basaglia ed i suoi
collaboratori, avevano segnato uno spartiacque importante nella storia della
psichiatria. Alla luce degli studi fatti da Lemert, Goffmann via via fino ai
giorni nostri dalla sociologia contemporanea, questa legge appare
8
T. Bandini, U. Gatti, M. Marugo, A. Verdi, Criminologia: il contributo della ricerca alla conoscenza
del crimine e della reazione sociale, Milano, Giuffré, 1991
10
solamente un ritorno alla psichiatria custodialistica e un ritorno alla
emarginazione ed esclusione del malato.
Occorre osservare quanto gli attuali servizi territoriali attivi nei
Dipartimenti di Salute Mentale siano in grado di realizzare gli obiettivi
proposti, quali siano le lacune e le disfunzioni in modo da migliorare i
prodotti offerti all’utenza e le risposte alla sua sofferenza.
11
CAPITOLO I
VIAGGIO NELLA MALATTIA MENTALE
1. La questione storica della malattia mentale
La realtà attuale del trattamento psichiatrico e la nascita dei nuovi servizi
non possono essere compresi se non inseriti nel loro contesto storico e
culturale.
Oggi riteniamo che i problemi abbiano avuto sempre la stessa fisionomia,
ma naturalmente non è così, e ciò vale anche per la follia. Uno sguardo
storico ai diversi modi in cui è stata considerata può servire a capire quanto
l’idea di follia sia variabile e collegata alle credenze della società del
tempo.
Fin dalle epoche più remote, l’uomo ha tentato di scoprire le cause della
malattia mentale, di classificarla nelle diverse manifestazioni, di curarla
con gli strumenti culturali che aveva a disposizione.
La difficoltà di controllare la sfera psichica, ha maturato nel corso del
tempo convinzioni superstiziose, terapie basate su false credenze
tramandate fin dall’antichità e metodi di cura che riflettono via via le
ideologie imperanti nei vari momenti storici.
Delirio, follia, pazzia, insensatezza, psicosi, malattia mentale…Tanti
termini che servono ad indicare, per il senso comune, un’unica condizione
in cui lo stato della Ragione non sembra avere alcuna autorità, dove regna
l’Irrazionalità e l’assurdo.
12
La forma-follia ha subìto continue trasformazioni, perché lo spartiacque tra
la normalità e la follia, tra salute e la malattia mentale si è rivelato
determinato storicamente, modellato sugli interessi, sugli orientamenti
culturali e ideologici di ogni epoca storica.
L’epoca classica e la modernità hanno spogliato la follia di quegli attributi
in qualche modo positivi che le erano stati conferiti nelle epoche
precedenti.
Durante il Medioevo e il Rinascimento, infatti, la follia è ancora libera di
circolare ed esprimersi col proprio linguaggio, è parte della Ragione, le è
complementare e non il suo opposto; “essa indica la verità profonda e
nascosta sotto la superficie delle cose”
1.
La follia diventa una forma relativa alla Ragione, o meglio, Ragione e
follia sono in una reazione di reversibilità che fa sì che ogni follia abbia la
sua ragione che la giudica e la determina, e ogni ragione la sua follia nella
quale essa trova la sua verità derisoria.
2
Nel Medioevo la concezione della follia era ancora inserita nell’antica
contrapposizione Bene/Male come parte inscindibile della tragicità umana,
e sebbene già sulla via dell’alienazione e della punizione, il folle era
largamente ammesso nella società come parte costitutiva di essa.
Più che un uomo, il folle nel Medioevo veniva visto dalla società come un
personaggio oggetto di rappresentazione artistica e di allegoria, stereotipo
dell’insensatezza della condizione umana e ricettacolo della paure dei
propri contemporanei.
Il campo in cui la figura del folle ebbe più successo fu sicuramente la
pittura, lo stesso Foucault nella sua opera dice: “Sotto la superficie
dell’immagine s’insinuavano tanti significati diversi a tal punto che essa
1
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 2001
2
Ibidem, cit. p.31
13
non presentava più che un volto enigmatico. Ed il suo potere non era più di
insegnamento ma di fascinazione”.
3
Le parole di Foucault mostrano il tipo
di rappresentazione della follia diffusa nei primi secoli dell’anno mille che
sarà poi codificata da geni visionari come Durer, Brughel, e Bosch.
Proprio Bosch è l’autore di un quadro, la “Nave dei Folli”, attorno a cui
Foucault fa ruotare la propria interpretazione dell’esperienza medioevale
della follia. Nel dipinto di Bosch il folle è in tutto e per tutto stereotipo
della sregolatezza e dell’insensatezza della condizione umana, reso
protagonista di un viaggio insulso alla volta del Nulla, o forse del Tutto. La
navigazione è simbolo dell’isolamento e della purificazione allo stesso
tempo, simboli che derivano da antiche cabale che nel Medioevo
accompagnavano costantemente l’immagine del folle.
Nella rappresentazione del folle di Bosch, oltre al viaggio verso l’ignoto, si
trova anche la tendenza a raffigurare animali fantastici ed il più delle volte
mostruosi, uomini dai visi deformi e dagli arti mutilati, ed una serie di altre
visioni sconcertanti in cui sono sfogate le paure inconsce della società a lui
contemporanea.
Il folle è anche visto come il possessore di un sapere oscuro e proibito,
capace di vedere realtà superiori che nascondono segreti misteriosi o
rivelazioni misteriose.
Nel Rinascimento italiano prevale una spiegazione religiosa della follia,
sentita come possessione demoniaca, segno della maledizione e del
peccato, la cui purificazione richiede sempre più spesso il ricorso a pratiche
di tortura e al rogo.
All’idea di follia comincia ad affiancarsi quella di pericolosità, che
permette di trovare un capro espiatorio per le numerose calamità che
3
Ibidem, cit. p. 32
14
colpiscono le popolazioni; comincia a prendere piede l’intolleranza verso il
soggetto affetto da disturbi mentali.
Gradualmente il destino del folle si confonde con quello del povero e del
criminale. La sua figura è vissuta come una minaccia alla quiete pubblica o
all’ordine costituito, in un periodo che si stava organizzando e
trasformando nelle forme di società moderna.
Le autorità pubbliche dispongono non solo di carceri, ma anche di luoghi di
ricovero più o meno coatto come gli istituti di segregazione, anche se a
volte venivano chiamati Ospedali. All’interno di queste strutture i folli
ricevevano assistenza ma soprattutto punizione e contenzione tra
condizioni igieniche e di vita pessime.
I secoli Seicento e Settecento sono stati caratterizzati dall’uso di questi
istituti di segregazione che contenevano e isolavano dal resto della società
soggetti che iniziavano a diventare “scomodi” ad una società in via di
sviluppo.
Sebbene questa non sia l’origine dei manicomi, ne costituisce comunque la
prima immagine drammatica.
Con le nuove idee diffuse nel secolo Settecento dall’Illuminismo, e con
l’affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino propagati dalla
Rivoluzione Francese, si chiudono gli Istituti di segregazione e comincia a
diffondersi la spiegazione della follia in termini di malattia.
E’ da qui che la situazione del folle inizia ad essere distinta da quella del
criminale e del povero, e si comincia a pensare in termini esclusivamente
medici.
Fu lo psichiatra Pinel, vissuto e sopravvissuto alla Rivoluzione Francese,
che, dopo 22 anni di studio, assunse il ruolo di medico interno in un
ospedale privato per facoltosi affetti da turbe psichiche e creò il Manicomio
che divenne luogo di cura dei malati.
15
Pinel dedusse dai suoi studi che la follia è un disturbo dell’autocontrollo,
un’incapacità di contenere la parte istintiva della personalità. All’origine
del disturbo si pone la predisposizione somatica dell’individuo, ma anche
cause di natura psico-sociale.
4
Pinel fu un filantropo che “liberò dalle catene” i folli: in questa operazione
egli vide una necessità di natura politica e una scientifica.
Circa quella politica, cercò di dare dignità ai malati di mente in attuazione
della dichiarazione dei diritti dell’uomo che decreta tutti liberi ed eguali.
Dal punto di vista della necessità scientifica, Pinel era convinto che
l’osservazione e la cura fossero possibili solo se i pazienti fossero stati
tenuti in un ambiente ordinato e rigoroso con un medico sempre partecipe
all’evoluzione clinica della malattia, in un luogo esente da disturbi esterni.
Per di più Pinel era convinto che abolendo ceppi e catene, lo spirito di
ribellione del malato sarebbe scomparso o comunque attenuato,
permettendo un miglior trattamento.
Da questa concezione nasce il “traitement moral” pinelliano, che può essere
definito un sistema di rigida rieducazione del malato, perché riacquisti la
volontà persa, di padroneggiare istinti e passioni, la cui liberazione
incontrollata produce follia
5
.
Con tono un po’ polemico, Foucault afferma che Pinel e la psichiatria del
XIX secolo non hanno fatto altro che segregare ulteriormente i folli in un
luogo indicato loro come naturale vantandosi inoltre di averli “liberati”.
Nonostante ciò l’opera di Pinel, insieme alla Rivoluzione Francese,
rappresenta comunque una tappa significativa nella storia della psichiatria.
Al malato di mente viene riconosciuto un ruolo specifico nella società
individuando con precisione chi e come si debba far carico del cittadino
4
Per approfondimenti sugli studi di Pinel e Tuke sulla nascita dell’asilo e del manicomio moderno vedere
la descrizione di Foucault in La storia della follia nell’età classica, op. cit. 395-437
5
R. Piccione, Manuale di psichiatria, Bulzoni Editore, Roma 1995.