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Egli adotta una via per arrivare a tali risultati, quella della logica. Prima di
chiarire come e perché fu scelta questa strada nel Tractatus, credo sia utile
ripercorrere le motivazioni per cui Wittgenstein la scelse per sé. Allievo, molto
particolare, di Russell e di Frege, tutta intera la sua vita, prima del Tractatus, il cui
completamento può essere posto con sufficiente veridicità nell’estate 1918, per poi
essere pubblicato nel ’21 in tedesco e nel ’22 in inglese, era stata profusa nel tentativo
di fondare una logica matematica esatta, incontrovertibile, che non potesse essere
falsificata e non potesse incorrere in contraddizioni. Le quali contraddizioni si
aprivano abbondantemente in ogni modello di logica prodotto nella storia della
disciplina, finanche nella logica matematica dei “Principia Mathematica” del suo
professore e amico Russell, in cui fatalmente in conclusione si apriva la nota
contraddizione della questione se la classe di tutte le classi che non contengono se
stesse come elementi sia o meno un elemento di se stessa. A tale difficoltà, che
minava alla base tutta la logica prodotta da Russell, egli aveva cercato di rimediare
con la sua nota teoria dei tipi, che sarà uno dei principali riferimenti da demolire nel
Tractatus, comparsa nell’Appendice B dei Principia. Una teoria del tutto
insufficiente, innanzitutto perché ugualmente demoliva, e lo faceva anzi
maggiormente in quanto era un chiaro deus ex machina logico, ovvero una teoria del
tutto inderivabile sia dalla logica che dalla matematica, la stessa linea-guida dei
Principia, che intendevano sostenere che tutta la matematica si basava su un numero
limitatissimo di postulati logici fondamentali. Inoltre dava luogo ad un catena infinita
di tipi che spiegano loro oggetti, di tipi che spiegano tipi e così via. Inoltre, punto
ancora più grave, era essa stessa un oggetto tra gli oggetti in quanto teoria logica, e
doveva essere giustificata. Nel tentativo di superare le teoria dei tipi di Russell
Wittgenstein decise di iniziare i suoi studi in logica, ovvero di filosofia.
Sia Russell che Wittgenstein condividevano il fatto che la logica fosse l’unica
disciplina filosofica che meritasse di essere studiata, o meglio fosse l’unica disciplina
filosofica che avesse il diritto di esistere, dato che era essa a caricarsi tutto intero il
compito di indagare il pensiero, anzi era essa a costituire la struttura stessa del
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pensiero, e quindi del pensabile. Si trattava ora solo di chiarificare a se stessa questa
struttura, e questo era il progetto del logicismo: derivare dallo studio della
matematica, logicamente derivata e intesa, le forme di rappresentazione, svolgimento
e comprensione della realtà. È proprio per questo la logica venne scelta come base del
Tractatus, in quando era l’unica in grado di possedere, dato che era essa stessa
costituita da queste, l’ossatura e lo schema del mondo. Che il mondo sia il caso,
questo già però fa presagire, al contrario della più limitata definizione di “tutto ciò
che accade”, che i confini di tale opera si spingeranno ben oltre la chiarificazione
definitiva dello schema del mondo, e peraltro tale risultato parziale verrà conseguito
seguendo metodi del tutto diversi da quelli del programma logicista.
“Il mondo si divide in fatti” (T. 1.2), “Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di
stati di cose” (T. 2), “Lo stato di cose è un nesso d’oggetti (entità, cose)” (T. 2.01),
queste tre sezioni costituiscono ciò che parte della critica tradizionale ha definito la
“premessa ontologica” del Tractatus. Tale premessa può essere considerata il primo
atto del progetto del Tractatus di risolvere il problema del rapporto tra mondo e
contingenza, postulando dei componenti che si potrebbero ritenere ontologici, ovvero
i fatti, costituiti da cose, oggetti, messi in relazione fra di loro in maniera tale da
costituire uno stato di cose, ovvero una modalità di relazione, una configurazione (T.
2.0272 e T. 2.032) di oggetti semplici, non ulteriormente divisibili. Sull’atomismo
degli oggetti Wittgenstein è chiaro: “L’oggetto è semplice” (T. 2.02). Il mondo
dunque è costituito dai fatti, i fatti sono stati di cose, gli stati di cose sono
configurazioni di oggetti, gli oggetti sono fissi e immutabili.
Come descrive De Carolis
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, l’attenzione non va posta sui termini, ma sulle
relazioni che contemporaneamente alla loro postulazione Wittgenstein instaura tra i
termini. Nel Tractatus infatti non c’è nulla di ontologico, e nessuna opera come
questa costituisce di più un unicum, per cui è anche assurdo parlare di premessa.
Dopo le sezioni cosiddette ontologiche, Wittgenstein introduce la logica, o per meglio
dire lo spazio logico, dicendo che “I fatti nello spazio logico sono il mondo” (T.
1.13), e dopo ancora “Nella logica nulla è accidentale: se la cosa può ricorrere nello
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stato di cose, la possibilità dello stato di cose dev’essere già pregiudicata nella cosa”
(T. 2.012), ovvero viene prima lo stato di cose, e poi la cosa, cioè la cosa è tale solo
perché inserita in uno stato di cose che costituisce il fatto. Ma un altro punto è
fondamentale, l’aver chiarito che nella logica non esiste caso, ma ordine. La logica è
lo strumento con cui la sua opera concilierà l’assoluta contingenza del mondo con un
ordine infalsificabile, lo strumento che metterà ordine nel caos: order from noise, il
programma capitale della filosofia, come di ogni filosofia.
Ma per meglio chiarire la logicità di tali parti iniziali dell’opera un altro
termine introdotto dalla sezione 2.012 è essenziale: la possibilità. La logica infatti,
contrariamente a qualsiasi altra scienza, non tratta di elementi reali o presunti tali, ma
di elementi possibili. Afferma Wittgenstein: “La logica tratta di ogni possibilità, e
tutte le possibilità sono i suoi fatti” (T. 2.0121), e quindi sulle cose: “La cosa è
indipendente nella misura nella quale essa può ricorrere in tutte le situazioni possibili,
ma questa forma d’indipendenza è una forma di connessione con lo stato di cose, una
forma di non-indipendenza. (È impossibile che le parole appaiano in due differenti
modi: da sole, e nella proposizione.)” (T. 2.0122), e ancora “Se conosco l’oggetto, io
conosco anche tutte le possibilità della sua ricorrenza in stati di cose. (Ognuna di tali
possibilità dev’essere nella natura dell’oggetto). Non può trovarsi successivamente
una nuova possibilità” (T. 2.0123), e infine “La possibilità della sua ricorrenza in stati
di cose è la forma dell’oggetto” (T. 2.0141). Come si vede, questa analitica
dell’oggetto, a cui Wittgenstein mette mano nell’avvio dell’opera, considera l’oggetto
non un costituente ontologico, ma un costituente logico, ovvero inscritto in un
universo logico di sue possibili applicazioni che lo caratterizzano e lo fanno esistere
come tale. L’oggetto è la sua applicazione possibile in stati di cose. L’oggetto, e di
conseguenza gli stati di cose e i fatti, è quindi un oggetto logico, in quanto l’unica sua
giustificazione d’esistenza è data dai legami che esso instaura con la sua
applicazione, che non può essere altro che un’applicazione nella logica,
un’applicazione logica.
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Eliminata questa falsa “premessa ontologica”, sul suo esempio è meglio
eliminare anche ogni possibile futuro fraintendimento del Tractatus: in esso non c’è
nulla che non appartenga alla logica, compresa l’etica. Tutto ciò si renderà
maggiormente manifesto nel prosieguo del riepilogo, ma Wittgenstein pone subito il
fatto che l’unico piano di cui si tratterà è appunto quello che hanno in comune tutti i
possibili piani, ovvero il piano logico, il piano della possibilità. Anche se e quando si
parlerà di esistenza o di esperienza, tali termine devono intendersi immediatamente
come esistenza logica ed esperienza logica.
Stabilito che il mondo è la totalità dei fatti, i quali sono null’altro che possibili
configurazioni, unitarie, chiamate stati di cose, di oggetti, i quali, in sé indivisibili,
immutabili e atomistici, sono null’altro che le loro possibili applicazioni in tali stati di
cose, chiameremo dunque il campo di tutte le possibili tali applicazioni in stati di
cose degli oggetti, forma degli oggetti: “La possibilità della sua ricorrenza in stati di
cose è la forma dell’oggetto” (T. 2.0141). Risalendo dunque la catena logica, la forma
dell’oggetto è la forma dalla sua configurazione possibile altrimenti detta la forma del
suo possibile stato di cose, quindi la forma del fatto costituito da tale stato di cose,
ovvero la forma del mondo costituito da fatti: “È manifesto che un mondo, per quanto
differente sia pensato dal mondo reale, deve avere in comune con il mondo reale
qualcosa – una forma” (T. 2.022), “Questa forma fissa consta appunto degli oggetti”
(T. 2.023). Ora, la forma degli oggetti non è la forma generale del mondo
propriamente inteso, ma solo di un mondo possibile. Ad esempio, una forma degli
oggetti potrà essere il colore, ciò che hanno in comune una determinata categoria,
ovvero relazione, di oggetti, e il colore sarà allora il mondo logico, ovvero lo spazio
logico, in cui tali oggetti sono inseriti e relazionati. Un altro mondo di oggetti sarà
quello ad esempio sonoro, ed è facile pervenire alla conclusione che i due mondi sono
inconciliabili. Noi non possiamo pensare un colore rumoroso, o un suono colorato,
come non possiamo pensare un suono a destra di un libro, con riferimento, stavolta,
allo spazio fisico.
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Il mondo infatti è la totalità di tutti i possibili stati di cose, ovvero di tutti gli
oggetti sussistenti, cioè realizzati: “La totalità degli stati cose sussistenti è il mondo”
(T. 2.04). Da ciò consegue che, se è data la totalità di tutti gli stati di cose, è data
anche la loro negazione, ovvero tutti gli stati di cose che non sussistono: “La totalità
degli stati di cose sussistenti determina anche quali stati di cose non sussistono” (T.
2.05). Gli stati di cose che non sussitono non lo fanno perché sono logicamente
impossibili, chimere. Nel mondo non c’è nulla di illogico, innanzitutto perché tutti i
suoi componenti, oggetti, stati di cose, fatti, vanno intesi come oggetti logici, stati di
cose logici, fatti logici, ma soprattutto perchè anche ciò che non sussiste ha la sua
logica, una logica negativa, cioè svolta per negazioni. L’insieme infatti di stati di cose
che sussistono e di stati di cose che non sussistono, ricordo che dati gli uni sono dati
automaticamente e contemporaneamente anche gli altri, la chiamiamo realtà, che è sia
positiva che negativa: “Il sussistere e non sussistere di stati di cose è la realtà. (Il
sussistere di stati di cose lo chiamiamo anche un fatto positivo; il non sussistere, un
fatto negativo)” (T. 2.06). Infine tale realtà così derivata, è essa stessa ora davvero il
mondo: “La realtà tutta è il mondo” (T. 2.063). Il caos vero quindi non è quello dei
sogni, o delle chimere, o delle negazioni possibili, o delle stelle che danzano, ma di
ciò che non esiste, mentre queste cose, nel loro spazio logico, esistono.
“Noi ci facciamo immagini dei fatti” (T. 2.1), e “L’immagine presenta la
situazione nello spazio logico, il sussistere e non sussistere di stati di cose” (T. 2.11).
Siamo qui ad un primo riconoscimento, per noi lettori, di che cosa sia lo spazio logico
di cui parliamo. Esso consta di immagini, le quali sono modelli della realtà (T. 2.12).
L’immagine in pratica è essa stessa un fatto (T. 2.141), ma un fatto con uno statuto
diverso dal fatto semplice, ovvero è un fatto che riproduce un altro fatto. Il fatto-
immagine, raffigurante, ha una struttura tale per la quale ad ogni suo elemento
corrisponde un elemento del fatto raffigurato, alla sua struttura corrisponde la
struttura, altrimenti detta stato di cose, del fatto raffigurato, e al suo essere un fatto
unitario corrisponde il fatto unitario a cui essa si riferisce.
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ome può avvenire una simile connessione? Attraverso qualcosa che sia l’immagine
che il fatto hanno in comune, e questo qualcosa non può essere che la forma, descritta
in precedenza, cioè tutto l’insieme delle possibili applicazioni di un dato oggetto in
stati di cose, oppure, con altri termini, il suo possibile spazio logico. Immagine e fatto
insomma condividono lo stesso spazio logico perché entrambi hanno la stessa
identica forma, e in base a tale forma l’una può, con sostanze del tutto diverse,
raffigurare l’altro. Chiameremo tale forma condivisa forma della raffigurazione: “La
forma di raffigurazione è la possibilità che le cose siano l’una con l’altra nella stessa
relazione che gli elementi dell’immagine” (T. 2.151). Qui già si sta chiarendo il
passaggio decisivo in cui è coinvolto il concetto logico di immagine: noi, è la tesi del
Tractatus, non riconosciamo un’immagine in quanto immagine di un fatto, ma è il
fatto che viene riconosciuto da noi come fatto in quanto rappresentato da
un’immagine. L’immagine cioè è lo strumento che ci permette di inserirci, di vedere
e quindi anche di comprendere, nella realtà, ovvero di rappresentare la realtà, non
viceversa. Sebbene siano entrambi fatti, il fatto raffigurante viene logicamente prima
del fatto raffigurato: “Che gli elementi dell’immagine siano in una determinata
relazione l’uno con l’altro rappresenta che le cose sono in questa relazione l’una con
l’altra” (T. 2.15). Ricapitolando: struttura dell’immagine = struttura del fatto; forma
della raffigurazione = forma degli oggetti; ed entrambe tali congruenze sono possibili
in quanto gli oggetti, dunque gli stati di cose, dato che non esiste oggetto fuori dallo
stato di cose e ogni oggetto è tale solo in quanto possibile applicazione in stati di
cose, dunque i fatti, sono tali esclusivamente in quanto veicoli di immagini, o per
meglio dire di immagini possibili.
A parte il costituire l’essere immagine, c’è un’altra cosa per la quale lo statuto
dell’immagine è speciale rispetto allo statuto del fatto, che mentre il fatto, cioè un
fatto, esiste e basta, sussiste e basta, l’immagine, dato il campo logico in cui si trova,
il campo della raffigurazione, può sussistere o non sussistere, esistere o non esistere,
ovvero può essere vera, corrispondente ad un fatto che sussiste, o può essere falsa,
corrispondente ad un fatto che non sussiste: “L’immagine rappresenta il suo oggetto
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dal di fuori (suo punto di vista è la sua forma di rappresentazione), perciò l’immagine
rappresenta il suo oggetto correttamente o falsamente” (T. 2.173). Mentre cioè un
fatto esiste e non si può dire che non esiste, il non esistere di un fatto è un assurdo,
dato che posto il fatto esso è fatto perché esiste, accade, l’immagine può anche
esistere ma non corrispondere a qualcosa che esiste. In tal modo essa copre l’intero
spazio logico, dato che copre il positivo e il negativo. Coprendo l’intero spazio
logico, l’immagine copre il mondo.
Occorre a questo punto aggiungere un aggettivo alla forma di raffigurazione:
forma logica di raffigurazione. E una forma logica non può che condurci ad
un’immagine logica. Dato infatti che ciò che un’immagine deve avere in comune con
il fatto raffigurato è il suo campo, la sua forma, l’immagine ad esempio di un colore,
il giallo, avrà il campo colore in comune con il fatto rappresentato, l’immagine di un
oggetto in uno spazio, una tazzina su un tavolo, il campo dello spazio, ciò a riguardo
delle immagini però non è sufficiente. L’immagine infatti deve poter rappresentare la
realtà, ma per farlo deve avere qualcosa in comune con tutta la realtà, altrimenti non
ne potrebbe nemmeno rappresentare una parte, e tale cosa in comune è lo schema sia
della realtà sia, evidentemente, della stessa immagine, anche perché pure l’immagine
è un fatto e pure essa è parte integrante della realtà, e questo schema si chiama logica,
dove la realtà, in quanto realtà logica, è totalmente inerita. Ecco perché parliamo di
immagine logica, immagine derivata dalla forma logica di raffigurazione: “Ogni
immagine è anche un’immagine logica” (T. 2.182). Anche ma non solo, perchè alla
logicità dell’immagine va aggiunta la specifica forma della sua raffigurazione. Come
fa notare Piana
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, l’immagine logica è ciò che tutte le immagini, spaziali, cromatiche,
sonore, eccetera, dello stesso fatto hanno in comune. Tuttavia proprio per questo
l’immagine logica è l’unica in grado di raffigurare il mondo (T. 2.19).
Chiameremo la possibilità di un’immagine logica di essere vera o falsa senso
dell’immagine, e tale possibilità di essere vera o falsa costituisce il fatto che
l’immagine rappresenta, che può essere appunto vero o falso.