4
che – oltre a consentire lo sviluppo di un’intera fase della ricerca teatrale, a
cui aderiranno non solo Carmelo Bene ma anche grandi nomi del
panorama novecentesco – implicherà anche la fine dell’adorazione servile
della psicologia e un differente utilizzo del linguaggio, nonché la
riconfigurazione del ruolo dell’attore e la conseguente modifica del
rapporto con il pubblico. «Crisi del testo e della scena, del rapporto tra
testo e scena, tra scena e pubblico, tra scrittura drammaturgica (letteratura,
parola, immagine verbale) e scrittura scenica»
3
. Tutto ciò di cui Carmelo
Bene si impossesserà – a volte non sempre consapevole di un’eredità
artaudiana, altre invece dichiarando in maniera forse un po’ azzardata i
propri meriti nell’aver realizzato ciò che Artaud non era riuscito a fare – si
ritrova ampiamente esposto in quello che verrà considerato il suo
manifesto teorico, Il teatro senza spettacolo, in realtà vòlto solo a mettere in
evidenza «l’impostura di ciò che sinora si è travestito da teatro»
4
. Da
questo stesso testo emergono le peculiarità di una ricerca che si farà
sempre più personale, cristallizzandosi nell’elemento vocale e
accentuando le differenze con il tanto ambìto teatro della crudeltà
artaudiano, a partire da quelle più immediate e superficiali – un teatro che
escluderà del tutto l’aspetto visivo focalizzando la propria attenzione sulla
voce, contro uno «spettacolo integrale»
5
che si avvale di tutti gli strumenti
possibili – a quelle più profonde, motivate da esigenze «esistenziali»,
intendendo con questo termine una ricerca intorno all’«essere» (del teatro
appunto, ma anche dell’uomo come protagonista dell’esercizio teatrale),
che ha inevitabilmente ‘travolto’ entrambi questi artisti. Sarà quella stessa
eccentricità e peculiarità di entrambi che condurrà ad una spontanea
differenziazione delle ricerche, mantenendo invece in comune la dinamica
ininterrotta da una forma espressiva all’altra, che contribuirà alla
3
M. Grande, Tecnologia della discrittura, in Otello, o la deficienza della donna, Feltrinelli,
Milano, 1981, pp. 30.
4
C. Bene, Il teatro senza spettacolo, Marsilio Editori, Venezia, 1990, pp. 12.
5
consegna di una tale mole di produzione artistica da rendere difficoltoso il
lavoro a chi – come avviene in questa sede – voglia tentare di
approcciarvisi. Il punto focale su cui concentriamo qui la nostra attenzione
è sì quello della rappresentazione – affermandone un totale e condiviso
rifiuto - ma anche – e soprattutto, filosoficamente parlando - quello della
ripetizione, inevitabilmente ad esso connesso quando l’esigenza di non
rappresentare imponga l’accadere di un evento originario e irripetibile.
Una vecchia questione quindi, quella dell’aporia di« qualcosa che si
vorrebbe, al tempo stesso, immagine originaria e riflesso veridico, evento e
simulacro, presenza e ripetizione»
6
. Questione che coinvolge d’altra parte
ogni cultura del teatro e dell’attore, per definizione chiamata a fare i conti
con il superamento della scena: ogni pensiero che riguardi corpo, gesto, voce,
soggetto, è in altre parole destinato a scontrarsi violentemente con
l’empirismo stesso del lavoro scenico. Sacrificando, per sopravvivere, uno
dei due. O forse no?
5
A. Artaud, Il teatro Alfred Jarry 1929, in Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit.,
pp. 21.
6
M. Grande, La macchina antilinguaggio, in AA.VV., La ricerca impossibile – Biennale teatro
’89, Marsilio Editori, Venezia, 1990, pp. 94.
6
I
LA NON RAPPRESENTAZIONE
Il teatro a cui Carmelo Bene ha sempre dichiarato di non appartenere è
quello «di rappresentazione», narrativo.
Nel Teatro senza spettacolo è egli stesso a dichiarare il distacco dalla
drammaturgia classicamente intesa, che da sempre ha cercato di seguire le
leggi di un genere, come indicato in quello che viene non a caso
considerato il manifesto della poetica classica
7
. «Affrancato dal tempo, il
teatro della trinità aristotelica è finalmente (dopo millenni) esploso, per
convertirsi (sperdersi) nel non-luogo del teatro, oltre «questo» e/o «quel»
7
Si fa ovviamente riferimento ala Poetica aristotelica, trattato dedicato quasi
esclusivamente alla tragedia, il cui concetto principale è quello di imitazione, termine
utilizzato ormai con una valenza completamente diversa da quella ontologica che aveva
assunto con la filosofia Platonica. Superata la trascendenza dell’idea infatti, (e decaduta
quindi anche l’accezione negativa del significato come ‘imitazione di secondo grado’, o
‘imitazione di imitazione’), oggetto di imitazione diventano con Aristotele le “azioni
degli uomini”; che a teatro vengono non narrate, bensì rappresentate drammaticamente.
Esse vanno a costituire, nella loro composizione, l’intreccio o racconto, la parte più
importante tra quelle qualitative ed essenziali della tragedia, elencate dettagliatamente: il
racconto, i caratteri, il pensiero, l’elocuzione, la musica, lo spettacolo. L’importanza del
racconto per Aristotele è tale che egli arriva ad affermare che la tragedia dovrebbe essere
in grado di rivelare tutto il suo valore anche alla semplice lettura. Proprio alla luce della
constatazione di tanta importanza, appare evidente il largo spazio che Aristotele riserva
alla trattazione di un esame particolareggiato delle condizioni cui il racconto deve
rispondere. Esso deve in primo luogo costituire un tutto compiuto, ovvero deve
possedere una certa grandezza, la quale consenta di distinguere un inizio, una parte
centrale e una fine: è necessario, in altre parole, che il racconto sia chiuso in sé e che le
differenti parti contenute al suo interno siano adeguatamente articolate ed organizzate.
Inoltre, le connessioni tra i fatti presentati devono essere necessarie, o almeno probabili e
verosimili, ma in ogni caso non casuali: questo garantisce l’unità del racconto. In secondo
luogo la tragedia dovrà avvalersi di linguaggio e ritmo (il mezzo), attenersi ad un
carattere drammatico (il modo), e infine dovrà possedere un particolare effetto, quello di
suscitare sentimenti di pietà e terrore, dai quali consentire successivamente la
purificazione. «La tragedia è dunque imitazione di un’azione nobile e compiuta, avente
grandezza, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle
parti, di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della
pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni». Arist.,
Poeth., 6, 1449 b 21.
7
modo.»
8
. Secondo i termini indicati da Aristotele viene infatti intesa la
rappresentazione in senso classico: rispetto della triade tempo-azione-
luogo, venerazione delle forme e coincidenza del linguaggio con il senso.
Prima della questione linguistica in sé, ovvero del rapporto tra la parola e
il suo presunto senso, tra il significante e il significato, tra i segni
linguistici appunto e i concetti a loro connessi, questione che merita una
riflessione specifica e dettagliata, è opportuno soffermarsi proprio sulla
concezione imitativa dell’arte, che conduce ad una particolare idea di
rappresentazione appunto. Carmelo Bene, come risulta evidente dalle sue
stesse parole, intende distaccarsi da una concezione dell’arte che sia
imitazione della vita, e nel caso specifico della rappresentazione teatrale,
imitazione delle azioni umane; già prima di lui però, in questo stesso
senso, Antonin Artaud aveva più volte dichiarato di voler far saltare le
fondamenta del teatro che appunto a quest’idea si richiamavano e
facevano riferimento. Entrambi si allontanano quindi da quell’estetica
aristotelica nella quale, come fa notare Derrida nella sua prefazione a Il
teatro e il suo doppio
9
, si è potuta riconoscere l’intera metafisica occidentale
dell’arte.
Perché per Artaud «l’arte non è l’imitazione della vita»
10
? Rispondere a
questa domanda significa affrontare una questione che va al di là della
semplice riflessione tecnica e teatrologica, significa abbracciare un ambito
assai più vasto, che ha a che fare con la dinamica della formazione delle
cose. Il decadimento del teatro ha infatti inizio nel momento stesso in cui
si pensi di poterlo trattare come un genere a parte, senza spingersi fino a
8
C. Bene, La ricerca teatrale nella rappresentazione di stato, in AA.VV., La ricerca impossibile –
Biennale teatro ’89, Marsilio Editori, Venezia, 1990, pp. 16.
9
J. Derrida, Prefazione a Il teatro e il suo doppio, cit., pp. 10. La prefazione riporta il testo di
una conferenza tenuta da Derrida nel 1966 nel corso di un convegno su Artaud, apparso
inizialmente come saggio nella rivista “Critique”, con il titolo Le théâtre de la cruauté et la
clôture de la représentation. Successivamente il saggio verrà ripreso e riveduto ne La
scrittura e la differenza, pubblicato nel 1967, e infine inserito appunto in apertura
dell’edizione italiana del 1968 Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, curata da
Einaudi.
8
quelle che costituiscono le vere e proprie fondamenta della storia
dell’occidente. Artaud intende ristabilire un’idea di teatro che vada al di là
del semplice evento organizzato in un luogo preciso per fare uno
spettacolo, restituendogli la sua essenza originaria, la sua necessità, che non
ha nulla a che vedere con la rappresentazione come mimesis
11
. Se è vero
allora che le azioni umane di cui parla Aristotele sono presentate sotto
forma di racconto in un testo, il primo passo consisterà nell’allontanarsi da
esso, nel modificare il rapporto con lo scritto fino a quel momento vigente:
«Questa, più d’ogni altra, mi sembra una verità elementare: il teatro, arte
autonoma e indipendente, per risorgere o anche soltanto per vivere, deve
sottolineare ciò che lo differenzia dal testo, dalla parola pura, dalla
letteratura, e da ogni altro mezzo scritto e codificato. Si può benissimo
continuare a concepire un teatro fondato sulla preminenza del testo – un
testo sempre più verboso, prolisso e noioso, cui sottomettere l’estetica
scenica. Ma questa concezione, che consiste nel far sedere i personaggi su
un certo numero di sedie o di poltrone messe in fila, e nel far raccontare
loro storie magari meravigliose, se non è necessariamente la negazione
assoluta del teatro, […] ne è piuttosto la perversione»
12
.
Il termine utilizzato è da intendere nel suo significato letterale, cioè
propriamente come un’inversione, per mezzo della quale la vera forza del
teatro è stata pervertita, eclissata, nascosta da quella «catena infinita delle
rappresentazioni»
13
, che ha sempre caratterizzato la storia della scena
occidentale. Il legame con il testo dà infatti il via alla serie di rapporti che
lega tra loro l’autore, gli attori, i registi e gli spettatori. La parola, intesa
come logos, domina dall’esterno la scena teatrale, imponendovi il suo
senso: questa constatazione porta Derrida a definire la scena occidentale
10
Ibidem.
11
Ivi, pp. 9. Ci occuperemo più avanti, specificamente, di quest’idea di essenza originaria
a cui Artaud intendeva rifarsi per la creazione del suo teatro della crudeltà.
12
A. Artaud, Lettere sul linguaggio, in Il teatro e il suo doppio, cit., pp. 220-221.
13
J. Derrida, op. cit., pp. 12.
9
una scena teologica
14
. Il testo presuppone infatti necessariamente un autore,
che tramite la stesura dello scritto, crea qualcosa che rappresenti in qualche
modo i suoi pensieri, le sue idee, una sua particolare veduta del mondo
esterno. Armato di tutto ciò, egli sorveglia, controlla e indirizza in qualche
modo tutto il lavoro successivo, che avviene tramite l’esecuzione di due
ulteriori rappresentanti: regista e attore. Il loro compito è di svolgere
nient’altro che un’interpretazione (tramite la messa in scena di personaggi,
ancora una volta rappresentanti), che sia corretta e il più possibile fedele
alle direttive del testo, quindi in ultima istanza del suo creatore. A
chiudere la catena dei rapporti di rappresentazione c’è il pubblico, che
subisce passivamente quella che è anch’essa un’originaria interpretazione
e non una creazione vera e propria: «(L’autore) non crea nulla, si dà solo
l’illusione di creare poiché non fa che trascrivere e dare da leggere un testo
che è necessariamente, a sua volta, di natura rappresentativa e che col
«reale» […] mantiene un rapporto imitativo e riproduttivo»
15
.
Tutto ciò che Artaud considera la vera essenza del teatro è stato sempre
oscurato da questa errata struttura di fondo, che la storia occidentale non è
mai arrivata a distruggere: qualsiasi innovazione, o cambiamento
spacciato addirittura per rivoluzione, non ha fatto che lasciarla intatta,
preservando, proteggendo il valore del testo. Infatti, finchè verranno
riconosciuti il valore e il dominio di un logos, regista e attori non potranno
evitare, malgrado tutti i cambiamenti possibili, di adempiere al ruolo di
‘schiavi’, come li definisce Artaud stesso: veri e propri strumenti nelle
mani dell’autore che si limitano, tuttalpiù, a illustrare, abbellire,
‘accompagnare’ in qualche modo un qualcosa che esiste già,
indipendentemente dalla sua realizzazione sulla scena, e che deve solo
essere degnamente rappresentato.
14
Ivi, pp. 11.
15
Ivi, pp.12.
10
Carmelo Bene accoglie pienamente questo rifiuto del teatro occidentale
come catena di rappresentazioni, nella convinzione che «Una scena che si
limita a illustrare un discorso non è più propriamente una scena (e che) il
rapporto che la lega alla parola è la sua malattia»
16
. La particolare
operazione eseguita da Bene nei confronti del testo è stata analizzata da
Deleuze nel saggio Un manifesto di meno, in Sovrapposizioni, testo
pubblicato nel 1978 e primo di alcuni scritti (appendici e prefazioni) che il
filosofo francese dedicherà alla pratica teatrale di questo artista
17
. Nella
prima delle cinque sezioni in cui il testo è suddiviso, intitolata Il teatro e la
sua critica, Deleuze analizza proprio la questione dell’eccessiva importanza
da sempre attribuita al testo originale, fondamento di ogni messa in scena,
al quale ogni interprete successivo si limiterebbe ad aggiungere degli
elementi; così stigmatizza la questione lo stesso Bene: «Non sarà mai più
concepibile una CRITICA che non sia al tempo stesso OPERAZIONE
CRITICA, ma OPERAZIONE CRITICA TAUMATURGICA, cioè OPERA
D’ARTE […] L’artista non è ALTRI dal CRITICO»
18
. Ciò che sottende ad
una tale affermazione è la volontà di Bene di giustificare e motivare
l’operazione da lui condotta nei confronti dei classici, rifiutando
l’identificazione della sua arte con la critica, laddove essa sia intesa come
giudizio, mediazione, «intervento estraneo» realizzato su opere del
passato, e riabilitando invece l’utilizzo del termine come matrice creativa,
come produzione di novità, e in nessun caso invece come reiterazione del
vecchio o riscrittura che scada nella tautologia.
L’operazione critica com’è intesa in questo saggio di Deleuze, e come la
intende lo stesso Bene, ha come suo fondamentale presupposto la messa in
16
Ivi, pp. 13.
17
La conoscenza tra i due avviene a Parigi nel 1977, periodo in cui Carmelo Bene porta in
scena Romeo e Giulietta e S.A.D.E. all’opéra Comique. Da quell’incontro nascono una
collaborazione e un’amicizia duratura: sarà proprio nel corso di uno dei loro succesivi
incontri che Bene esporrà a Deleuze un suo futuro progetto, il Riccardo III, e questi
deciderà di scrivere un testo su di uno spettacolo che non aveva ancora visto.
18
C. Bene, L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 169 (maiuscolo nel testo).
11
variazione degli elementi fissi e stabili di un testo, per quanto compiuto
come può essere un classico a livello dell’Amleto o di Romeo e Giulietta di
Shakespeare, e si caratterizza attraverso un procedimento definito di
sottrazione o amputazione di alcuni di questi elementi appunto. Non quindi
un confronto o una reinterpretazione sotto una diversa ottica di un testo
già dato ed ‘inviolabile’, ma invece un processo di sperimentazione che è
per Deleuze allo stesso tempo creazione: «..sottrarre la letteratura, ad
esempio il testo, o una sua parte, e vedere cosa succede. Che le parole
cessino di far “testo”…È un teatro esperimento, che implica molto più
amore per Shakespeare che tutti i commenti possibili
19
». Deleuze ci dice
quindi chiaramente come Carmelo Bene opti per un atteggiamento
piuttosto che per un altro; come rifiuti, senza dubbio, di commentare
un’opera scritta. È necessario allora domandarsi che cosa comporti
esattamente una sottrazione al commento, come si modifichi il rapporto
tra soggetto ed oggetto, quando quest’ultimo dovesse venire privato del
suo valore, e in che cosa scaturisca questa relazione quando, come nel
nostro caso, il testo in questione debba essere ‘messo in scena’.
Derrida ritiene che si possa individuare nella propensione al commento
una tendenza dominante e caratteristica di un’intera tradizione, quella
della metafisica occidentale. Il filosofo sviluppa un’articolata riflessione a
partire dall’analisi della funzione della parola in Artaud
20
, per arrivare a
constatare in quest’ultimo, una volontà di sottrarsi (e con lui la sua ‘opera’,
termine qui utilizzato con tutte le remore del caso
21
) alla metafisica del
19
G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet,
Macerata, 2002, pp. 86 (in corsivo nel testo).
20
Cfr. J.Derrida, Artaud: la parole soufflée, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino,
1990. Nel capitolo relativo al linguaggio faremo riferimento in maniera più dettagliata a
questa questione.
21
Accostarsi alla produzione di Artaud significa constatare un’impossibilità di fondo nel
potervi applicare la nozione di ‘opera’: Florinda Cambrìa illustra ampiamente nel suo
testo come Artaud costringa chiunque intenda avvicinarsi ai suoi testi all’assunzione di
una diversa postura, che non sia più quella di chi si pone di fronte ad un prodotto finito,
ad un oggetto che possedendo una sussistenza separata sia solo da interrogare:
sottraendosi come «argomento» infatti, l’«anti-opera» di Artaud costringe il lettore ad
12
commento. Considerare il testo come il punto di partenza del lavoro
teatrale significa, come è stato osservato, ritenerlo detentore di valore e
custode di un logos assoluto, il che equivale a presupporre che il testo sia
posto come ciò che è, come oggetto dotato di verità propria, e che la chiosa
del testo stesso sia conseguentemente nient’altro che un esercizio
ermeneutico. Carmelo Bene ribadisce più volte nel Teatro senza spettacolo
come l’approccio nei confronti dei classici abbia sempre rispecchiato
l’atteggiamento appena descritto, causando necessariamente la
trasformazione dei gesti compiuti in teatro in pensieri, in commenti stessi
appunto.
Antonin Artaud d’altra parte aveva già indicato con precisione
l’atteggiamento che era necessario assumere nei confronti dei classici: in
Basta con i capolavori egli ribadisce più volte quanto il rispetto per ciò che è
scritto, e che quindi «ha assunto una forma», possa essere deleterio per
l’attività teatrale. L’aver propinato alle folle per lungo tempo solo ed
esclusivamente un teatro descrittivo e narrativo, ne ha causato a lungo
andare l’allontanamento: la gente si è disabituata ad andare a teatro e ha
cominciato a considerarla un’arte inferiore. In realtà, avverte Artaud, non
si trattava di vero teatro ma solo di una «menzogna», che manteneva il
pubblico distaccato dalla scena imponendogli una rappresentazione che
non lo scuoteva mai adeguatamente nelle sue fondamenta. «Bisogna porre
fine a questa superstizione dei testi e della poesia scritta…i capolavori del
una destabilizzazione del suo ruolo, «sposta il centro dell’attenzione (la postura) di chi
legge verso il gesto, l’azione fisica che attraversa la pagina scritta, […] i testi di Artaud
[…] mostrano, ancor prima di tematizzarla, la loro natura di pratica che fa opera e perciò,
propriamente, non può esserlo». Introducendo la nozione di ‘operatività’, si delinea così
in questo testo una possibile soluzione ai problemi emergenti di fronte alla peculiarità dei
testi di Artaud: questi ultimi verranno considerati «come lo spazio circoscritto di
un’attività, fase di un progetto che lì precipita senza esaurirvisi», come qualcosa che
inevitabilmente scuota e mobiliti il lettore, costretto a mettersi in gioco e a interrogarsi lui
stesso, in «Un procedere per torsioni e ricorrenze, le quali costituiscono l’esercizio che,
praticandolo nella propria scrittura, Artaud impone al lettore». F. Cambrìa, Corpi all’opera:
teatro e scrittura in Antonin Artaud, Jaka Book, Milano, 2001, pp. 21-23 (corsivo nel testo).