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Introduzione
La riflessione filosofica sul «nulla» si fonda su un paradosso: infatti, pur non designando
entità alcuna, in quanto si fa ricorso al termine nulla qualora si voglia indicare la mancanza
di qualcosa (ovvero l‟ assenza dell‟ essere), tuttavia questa assenza è pur atta a designare
qualcosa, proprio in virtù del fatto che ci è data la possibilità di concepire il nulla; non
propriamente una vera e propria entità-nulla, quanto piuttosto la presenza del nulla nella
forma del «non essere» di qualcosa, o la mancanza stessa dell‟ essere. L‟ idea che il
pensiero del nulla suggerisce è immagine del vuoto, per cui fa riferimento a qualcosa che
non è neppure immaginabile – giacchè non possiamo formulare alcuna immagine che
rappresenti il vuoto – e che di conseguenza non può essere affatto percepibile; eppure ne
riconosciamo l‟ esistenza, e tale riconoscimento avviene nella misura in cui percepiamo l‟
assenza di qualcosa che, paradossalmente, si offre nella forma di una presenza. In tal
senso il nulla è sensazione che si manifesta mediante l‟ assenza di qualcosa, è una percezione
dell‟ assenza della percezione.
Già da questa breve introduzione a carattere puramente preliminare si può ben notare
come il nulla, nato come semplice paradosso logico-linguistico, si sia automaticamente
trasposto dal piano meramente concettuale ad una dimensione relativa propriamente alla
definizione dell‟ essere, ovvero alla percezione del nulla in quanto nulla. Se il paradosso
linguistico sembra non poter essere facilmente districato – dato che il termine nulla, in
quanto offerto al linguaggio, deve pur stare per qualcosa – all‟ interno del piano dell‟ essere
esso intensifica la problematicità che contempla in sé, giacchè l‟ assenza dell‟ essere viene
tuttavia percepita.
L‟ analisi che mi sono proposta di condurre nel corso della trattazione del tema riguarda il
nulla inteso quale sentimento dell‟ uomo nei confronti dell‟ esistenza, e non del nichilismo.
Non che quest‟ ultimo non faccia esplicito riferimento al nulla stesso, in virtù del quale si
sviluppa propriamente il pensiero filosofico a cui esso fa riferimento, ma non è del
nichilismo a cui propriamente è rivolta l‟ argomentazione seguente. Occorre operare una
piccola distinzione preliminare tra il «nulla», inteso come sentimento della negazione sul
quale intendo dirottare la riflessione, e il «nichilismo» propriamente inteso, relativo esso ad
un fenomeno filosofico e storico dotato di caratteri ben precisi che, in quanto tale, deve
tener di conto di una serie di fattori culturali e di ragioni intrinseche al pensiero stesso che
hanno dato luogo al processo che esso descrive. A caratterizzare il nichilismo è appunto la
storicità di cui esso è costituito, quale fenomeno scaturito non tanto da una serie di
riflessioni circa gli argomenti che esso propone, quanto piuttosto come conseguenza
filosofica di una serie di eventi che, nel loro insieme, hanno dato modo ai suoi autori di dar
luogo ad una certa idea circa lo stato della realtà da loro vissuta. Pur facendo, dunque,
riferimento entrambi alla negazione, il nulla ed il nichilismo sono tuttavia due concetti ben
distinti facenti riferimento a due universi di discorso completamente differenti l‟ uno dall‟
altro, non sono sinonimi.
6
Vi è una certa tendenza filosofico-linguistica
1
secondo la quale, per un verso, il nulla sussiste
in qualità di categoria filosofica a sé indipendente e perfettamente autonoma, svincolata dall‟
utilizzo cui ne fa il nichilismo che – oltre ad essere una corrente filosofica sussiste anche in
quanto fenomeno storico – aveva già avuto modo di prendere in esame riflessioni a sé
precedenti sorte in seno alla categoria del nulla (è opportuno sottolineare simile stato di
cose tale che, a scanso di equivoci, il nulla non risulti una creazione, per così dire, del
nichilismo, ma ne è solo una componente, dato che il pensiero circa il nulla affonda le
proprie radici già all‟ interno del pensiero greco antico); per un altro verso, invece, vi è la
convinzione che il nulla non sia soltanto un paradigma filosofico la cui funzione si limita al
dar luogo ad una vasta gamma di riflessioni a carattere puramente speculativo, quanto
piuttosto stia ad indicare una decisa presa di posizione circa l‟ assunzione stessa dell‟ essere
all‟ interno del mondo – ovvero un certo orientamento atto a cogliere l‟ essere e la realtà in
un modo completamente nuovo.
Ciò che quest‟ ultima considerazione intende mostrare è che il nulla non sia semplicemente
una categoria filosofica intorno alla quale volgere riflessioni unicamente fini a sé stesse,
bensì faccia riferimento a qualcosa di ben più sottile e concreto, aprendo alla possibilità di
sussistere quale presenza all‟ interno della realtà medesima dell‟ essere. Non una mera
categoria filosofica, cui compito si limita a dar origine ad una serie più o meno ampia di
argomentazioni a carattere puramente speculativo, piuttosto è insito il tentativo di far
affiorare una concezione nuova del nulla assumendolo quale condizione stessa dell‟ essere,
ossia come contrapposto essenziale dell‟ essere che non può tuttavia far a meno di essere
in un qualche modo. Partendo da questa considerazione il nulla appare intimamente
legato all‟ essere, ne è un aspetto imprescindibile e lo è in una maniera tale che l‟ essere
qualora risultasse manchevole del proprio contrapposto non potrebbe darsi affatto.
Ben lungi dal rimanere confinato nell‟ eremo del paradosso linguistico – mediante il quale la
logica ha tentato di mettere al bando il nulla etichettandolo come pseudo-concetto, tale che
ad esso deve essere negata non solo la legittimità ad indicare un certo stato di cose della
realtà ma la sua sola pensabilità
2
– il nulla diviene elemento fondativo dell‟ essere medesimo
quale condizione dell’ esistenza, e che per tal ragione merita una certa dignità concettuale. Se
l‟ impegno assunto dalla logica consiste nell‟ esorcizzazione del nulla, assumendolo quale
1
Il riferimento è volto al saggio di V. Verra all’ interno del quale mette a confronto le tesi di Kahl-
Furthmann (Das Problem des Nichts) con quelle di Heidegger (Was ist die Methaphisik?), in maniera
tale che da una parte sussista l’ idea del nulla quale categoria filosofica indipendente da qualsiasi altra e
autonoma in sé, mentre dall’ altra sembra voler sostenere la convinzione che il nichilismo non possa
essere adeguatamente inteso se non in virtù del suo stretto legame al concetto del nulla. Il saggio si
trova all’ interno dell’ Enciclopedia del Novecento, in riferimento alla sezione dedicata al Nichilismo.
2
Carnap, obiettando la tesi di Heidegger circa la sua assunzione metafisica del tema, in Il superamento
della metafisica mediante l’ analisi logica del linguaggio svolge un’ approfondita argomentazione atta a
dimostrare l’ insensatezza di tutte quelle parole che, in generale, avanzano la pretesa di indicare
qualcosa nella realtà che invece non sussiste affatto, e che in un certo senso inquina il linguaggio che
dovrebbe altresì essere spurio di qualsiasi elemento a carattere metafisico o pseudo-concettuale.
puramente emotivo, le parole definite quali pseudo-concetti sono in sé prive di significato
7
«pseudo-concetto» dotato unicamente di carattere metafisico, per cui privo di senso in sé
in quanto non si riferisce ad entità alcuna se non avente carattere prettamente emotivo, il
ruolo svolto dalla metafisica ha fatto sì che il nulla diventasse una proprietà esclusiva di
quest‟ ultima. La metafisica, dunque, attribuendo al nulla carattere propriamente
trascendentale, come la logica, ha finito per svuotarlo della possibilità stessa del significato,
privandolo così di una qualche dignità filosofica relegandolo alla funzione di non essere
altro che «l‟ ombra dell‟ essere», quale suo simmetrico contrapposto.
Tanto il rigorismo logico quanto la speculazione metafisica condannando il nulla nella
categoria della trascendenza, seppure in maniera diversa e per ragioni tra loro opposte,
falliscono entrambe nei propri scopi, gicchè il nulla non può ne essere negato a livello
concettuale – dal momento che il termine entra normalmente in gioco all‟ interno del
linguaggio quotidiano facendo riferimento ad esso come se fosse un vero e proprio
oggetto sensibile – ne può essere limitato alla mera speculazione filosofica fine a sé stessa –
proprio perché ci serviamo di esso per riferirci ad un effettivo stato di cose, sia esso
qualcosa di realmente presente nel mondo materiale, sia che si intenda qualcosa relativo al
proprio sentire individuale. Fintantoché il nulla sarà relegato tanto nella condizione di
sussistere nella veste di complementare rovescio dell‟ essere quanto in quella di essere
dotato di una pseudo-concettualità che non fa riferimento ad entità alcuna né materiale né
spirituale, non potrà darsi alcuna reale riflessione circa il nulla stesso in sé, bensì solo
riflessioni secondarie attorno a ciò che fa ad esso riferimento o che tanta di salvarsi dal
nulla.
La logica e la metafisica, nonostante la loro reciproca opposizione, finiscono per
commettere lo stesso errore ermeneutico nella trattazione del nulla, attribuendo ad esso un
carattere propriamente trascendentale che, per sua stessa essenza, altro non fa che opporre
qualsiasi reale argomentazione tendente ad afferrare con mano il senso che il nulla incarna,
svuotando, indirettamente, anche l‟ idea stessa dell‟ essere che questi tentano altresì di
salvare dal nulla. Per poter salvare l‟ essere dal nulla occorre innanzitutto porre il nulla
quale sua stessa condizione, ovvero è necessario ammettere l‟ esistenza del nulla quale volto
stesso dell‟ essere, e non nella forma di ciò che è ad esso opposto; non quale contrario
dell‟ essere, bensì quale modalità attraverso cui all‟ essere stesso è dato essere, in virtù della
quale il nulla altro non è che quel fenomeno particolare che consente all‟ essere di esistere
nella forma del non-essere.
Tanto la logica
3
quanto la metafisica presuppongono una propria autonomia che, in
maniera apparentemente diversa, avanza la pretesa di descrivere lo stato dell‟ essere, ossia il
3
L. WITTGENSTEIN, a proposito della logica e delle proposizioni che essa enuncia, Wittgestein sostiene
che esse non possono dir nulla circa la realtà, in quanto la logica è pura tautologia che, dicendo unum et
idem, in realtà dice nulla. Le proposizioni dotate di senso enunciano qualcosa circa la realtà e la sua
dimostrazione consiste nel mostrare che è così, ma tra esse non vi sono né leggi fondamentali né
proposizioni derivate che siano tali per loro stessa essenza; in al senso la logica, non essendo che un’
immagine speculare del mondo, non può che avere carattere trascendentale. Rif. Tractatus logico-
philosophicus, (1914-1916), traduzione di A. G. Conte, cit. [5.43], [6.1264], [6.13], pp. 73-99, (Einaudi
Editore)
8
suo essere così e così, ciascuna secondo i propri termini. Questa autonomia che essi
intendono preservare ha un‟ importanza non indifferente nel linguaggio filosofico in
generale, giacchè è proprio a partire da questa autonomia di fondo che possono svilupparsi
tutta quella serie di discipline filosofiche derivanti da logica e metafisica; tra queste
possiamo contemplare l‟ «estetica» e l‟ « etica», le quali se non fossero in grado di
richiamarsi entrambe tanto ad un principio di carattere logico – in quanto ciò che viene
definito «bello» e «giusto» è possibile solo in funzione di certi caratteri che definiscono il
bello ed il giusto, e nella misura in cui possiamo distinguerli da ciò che invece giudichiamo
brutto e malvagio – quanto ad un principio di carattere metafisico – dal momento che
possiamo godere della bellezza di qualcosa senza che vi sia una vera e propria ragione che
ci spinge ad essa ma ne beneficiamo solo in quanto essa procura una sensazione di piacere,
così come possiamo giudicare qualcosa come buono o giusto solo nella misura in cui
riteniamo che qualcosa sia tale indipendentemente da una certa morale prestabilita – non
potrebbero darsi nessuna delle due.
Alla luce di ciò possiamo a buon diritto dare ragione alla concezione wittgensteiniana che
aveva individuato una certa complementarità fra etica ed estetica
4
, secondo la quale ciò che
è bello non può che esser tale in quanto è anche necessariamente giusto, e ciò che è giusto
è tale poiché è bello e piacevole al senso. Se l‟ autonomia filosofica caratterizzante la logica
e la metafisica venisse meno, con essa crollerebbe l‟ intero edificio filosofico costruito
mattone per mattone, nel corso del tempo e della storia, lasciando nient‟ altro che le rovine
saccheggiate memori di un passato andato irrimediabilmente perduto da cui non si può
ricavare informazione alcuna circa il suo essere stato; occorre però, al tempo stesso,
tenere ben distinta quella che è l‟ autonomia filosofica dalla pretenziosità di imporsi a legge
universale e fondativa dell‟ essere stesso, in quanto entrambe (tanto la logica quanto la
metafisica) avanzano la pretesa di asserire in maniera inderogabile ed assoluta qualcosa
circa l‟ essere e la sua essenza.
Il processo di svuotamento dell‟ essenza del nulla, e la sua delegittimazione in quanto
dotato di un senso proprio, è un errore di carattere ermeneutico piuttosto frequente dato
che se il nulla indica l‟ essere nella forma del non essere – ovvero di un‟ assenza – non
sembrano esserci ragioni apparenti per preoccuparsi di esso; è, in un certo senso, lo stesso
errore compiuto da re Lear che, convinto che dal «nulla non scaturisca nulla»
(affermazione questa che, in un certo senso, altro non fa che negare tanto la sensatezza del
nulla quanto una sua presunta presenza nel mondo reale, dato che esso non può far
riferimento ad entità alcuna a parte il nulla stesso), finisce invero per rimanerne
intrappolato e cadere vittima di questo stesso nulla, in quanto è proprio a partire da ciò che
4
Ivi. Dell’ etica non può esser detto nulla di universale e definitivo in sé, giacchè il mondo non ha valore
in sè ma solo quello che di volta in volta viene attribuito dagli uomini, nella misura in cui essi giudicano
qualcosa in quanto buono e giusto; un giudizio etico è, in ultima analisi, un giudizio di carattere estetico,
dato che il giusto è tale nella misura in cui qualcosa è anche bello o piacevole: «Tutte le proposizioni
sono di pari valore *…+ Né quindi vi possono essere proposizioni dell’ etica. Le proposizioni non
possono esprimere nulla di ciò che è più alto.», «È chiaro che l’ etica non può formularsi. L’ etica è
trascendentale. (Etica ed estetica sono tutt’ uno).», cit. *6.4+, *6.42+, *6.421+, pp. 106
9
egli chiama nulla che scaturiranno tutta quella serie di eventi disastrosi che condurranno
nuovamente a quel nulla da cui hanno avuto origine. La negazione del nulla,
contrariamente a quanto l‟ eroe shakespeariano credeva, ha dato luogo alla sua più
completa realizzazione, nella forma in cui il dissesto che verrà a crearsi nel corso del
dramma scaturirà dal nulla per far ritorno al nulla medesimo. L‟ esempio citato, ben
lungi dall‟ essere un‟ asserzione a carattere profetico circa gli effetti che la negazione del
nulla possono provocare, intende mostrare quanto questa assenza dell‟ essere che
chiamiamo nulla sia invece qualcosa, seppur in un modo particolare ed ineffabile: il nulla
si costituisce invero quale modalità stessa dell‟ essere nella forma appunto del non essere,
che nell‟ esempio precedente trova rappresentazione fantastica all‟ interno della finzione
poetico-simbolica del dramma shakespeariano.
Ciò che mi sono proposta di sviluppare all‟ interno di questa mia analisi del nulla inteso
quale condizione dell‟ essere, non vuole essere né una ricostruzione storico-concettuale del
significato termine in questione – di come cioè l‟ idea circa il nulla abbi avuto origine e
sviluppo nel corso del pensiero filosofico – né vuole catalogare singoli episodi, individuali o
collettivi, di come tale idea abbia potuto trovare una qualche definizione atto a riferirsi a
qualcosa di ben preciso. Il mio intento specifico sarà quello di mostrare come il
«sentimento del nulla» abbia trovato luogo ed espressione attraverso le varietà delle attività
umane, e di come tale sentimento abbia trovato corrispondenze più o meno simili tra loro
in uomini diversi ed appartenenti ad epoche diverse. Inteso come sentimento, il nulla
diviene qualcosa che gli uomini possono percepire in quanto tale, assumendo in sé la carica
emotiva che da esso deriva e che, a sua volta, è capace di esprimere sé stessa mediante l‟
operare e l‟ agire umano indipendentemente dal pensiero e la riflessione filosofica ad esso
inerente; in tal senso il sentimento del nulla, al di là del legittimo riconoscimento filosofico,
ha potuto trovare espressione di sé attraverso una molteplicità di discipline umane – quali
l‟ arte, la poesia e, in un certo senso, anche la riflessione relativa alla storia ed allo sviluppo
scientifico – in quanto il sentimento in sé, ancor prima di trovare definizione in termini
prettamente filosofici, è anzitutto esperienza umana comune ed universalmente condivisa.
Ma cosa si intende con sentimento del nulla? Ovvero, cos‟ è questo sentimento del nulla?
Per poter spiegare nella maniera più semplice e chiara possibile ciò di cui intendo parlare
definendo il nulla come sentimento, ricorrerò ad un esempio pratico, preso in prestito da
un‟ immagine ricorrente nella disciplina buddista. Questa immagine si presenta nella
forma di una domanda: chi ode il rumore di un albero che cade in una foresta deserta? In
un primo momento la domanda sembra piuttosto insensata, giacchè un albero che cade
non può non far rumore; ma riflettendoci più attentamente si capisce che il rumore non è
qualcosa di esistente in sé, bensì sussiste solo in quanto vi è effettivamente qualcuno che lo
percepisce. Un albero che cade in una foresta deserta, in tal senso, non solo può non dar
luogo a rumore alcuno bensì, dal momento che nessuno può testimoniare né l‟ effettiva
caduta né la sua stessa presenza nella foresta, si può arrivare a sostenere che non vi è nulla
che provi la stessa esistenza dell‟ albero. La sua venuta al mondo, il suo sviluppo e infine
la sua caduta sono eventi di fronte ai quali l‟ esistenza stessa rimane indifferente, in quanto
essa non è sufficiente in sé a recane testimonianza; affinchè si possa dire che l‟ albero è
10
davvero esistito, per poter dire che è caduto, è necessario che vi sia qualcuno a testimoniare
l‟ evento che ne ha fondato l‟ esistenza.
Quest‟ immagine ben si presta a descrivere quel sentimento del nulla da me citato, quale
condizione stessa dell‟ esistenza. La stessa esistenza umana, in qualche modo, assomiglia
molto a quella di quest‟ albero che nasce e muore nell‟ indifferenza dell‟ esistenza in
generale: l‟ umanità in sé, presa nel suo insieme di fronte alla totalità dell‟ esistenza degli
altri enti del mondo e di fronte all‟ universo stesso, quale grande meccanismo cosmico in
cui vita e morte ne azionano e ne perpetuano costantemente il moto dei suoi ingranaggi,
nasce nella più totale indifferenza dell‟ esistenza in sé; la sua esistenza è un puro effetto
del caso, ossia il risultato di una serie di eventi particolari e puramente accidentali la cui
somma ha dato modo all‟ umanità di sorgere, i quali potevano anche non accadere affatto o
accadere in modo tale da non permettere l‟ insediarsi dell‟ umanità. Al di là dell‟ uomo
stesso, dunque, non vi è nessun altro che possa testimoniarne effettivamente l‟ esistenza,
non vi è nulla cioè che possa essere in grado di provare una qualche sorta di interesse nei
confronti dell‟ esistenza dell‟ umanità; un‟ esistenza, quella degli uomini, che è stata data
così in quanto capitata senza che vi fosse scopo alcuno, e senza che il succedersi degli
eventi e delle condizioni ambientali abbia potuto in qualche modo programmarne l‟
avvento. Gli uomini si trovano dunque nella condizione di esistere in quanto «gettati nell‟
esistenza» nella più totale indifferenza, per i quali né la natura né gli enti ad essi circostanti
sono in misura alcuna consapevoli della loro presenza. Essi si svelano essere soli,
abbandonati alla propria esistenza ed al proprio essere nella forma in cui sono, e
condannati ad essere coscienti sia di questa drammatica solitudine che li costituisce, sia che
nulla è dato modo di saper loro circa l‟ avvenire futuro, fatta eccezione della propria morte.
Dall‟ istante in cui gli uomini si sono svelati a sé stessi nella qualità di esseri abbandonati a
sé stessi e gettati nel mondo, senza che sia dato loro modo di sapere il perché della propria
esistenza dal momento che non esiste alcun perché, hanno preso coscienza dell‟
inevitabilità dell‟ avvento della morte – la propria e quella dei suoi simili – che altro non fa
che smascherare la provvisorietà e la precarietà che determinano e costituiscono l‟ essere
stesso; una precarietà, quella dell‟ essere, che nell‟ essere umano acquista una risonanza
maggiore in quanto quest‟ ultimo, pur essendo in sé una forma della limitatezza dell‟
essere, ha in sé nonostante tutto un‟ anelito spontaneo all‟ immortalità
5
, il cui contrasto
non può far altro che generare un perpetuo conflitto tra «ciò che si è» e «ciò che si
vorrebbe essere». La natura, il mondo ed il fluire incessabile del tempo sono indifferenti
tanto all‟ esistenza dell‟ uomo in sé quanto al dolore che da questa scaturisce, e proprio da
questa generale indifferenza nei confronti dell‟ esistenza umana genera quel sentimento del
nulla che, a prescindere dall‟ analisi filosofica, ha trovato un‟ ampia letteratura atta a
descriverlo coinvolgendo discipline di vario tipo e diverse le une delle altre.
5
M. DE UNAMUNO, descrive l’ anelito all’ immortalità quale sentimento naturalmente insito nella
stessa natura umana, la quale però si trova condannata a dover fare i conti il fatto di dover attendere sia
la propria morte che quella degli altri. In tal senso l’ uomo è caratterizzato da un destino tragico che si
manifesta con la sua sola esistenza ed il suo instaurare legami con gli altri uomini. Rif. a Il desiderio di
immortalità, in Il sentimento tragico della vita, (1910), pp. 82
11
L‟ esistenza in sé svela il suo volto oscuro, che è quello di essere anche quell‟ atto
originario che getta le basi essenziali per l‟ avvento della morte, proprio per il fatto stesso
di essere anzitutto vita; questa modalità originaria dell‟ esistenza, ovvero questo essere
che in termini heideggeriani possiamo chiamare «essere per la morte
6
», mostrano la vera
essenza dell‟ esistenza umana che è «essenza del nulla». Ma questo essere nulla resta
tuttavia la sola cosa che è dato modo di essere – la sola cosa in proprio possesso nella
misura in cui siamo questo nulla. E proprio in quanto nulla che scaturisce dal nulla può l‟
uomo essere potenzialmente tutto. Il mio lavoro vuole appunto essere la dimostrazione
dell‟ infinita possibilità di essere dell‟ uomo che, svelatosi nulla, ha scoperto di poter essere
tutto ciò che egli vuole, assumere cioè infinite maschere che ne offrono un‟ immagine
sempre diversa ed unica di sé che fa della nostra natura un tratto distintivo dell‟ esistenza in
sé.
6
M. HEIDEGGER, definisce la condizione dell’ uomo, ovvero il carattere specifico della sua esistenza, in
termini di essere per la morte, identificando in tale descrizione l’ inevitabilità dell’ uomo che abita il
mondo ed il proprio tempo esistenziale unicamente in funzione di una morte che non può evitare in
alcun modo; e tuttavia proprio in virtù di tale inevitabilità, di questa destinalità che lo costituisce in
quanto tale, è allo stesso tempo dotato di quel carattere di autenticità che rende ogni singola vita unica
e degna in sé stessa. Apparso per la prima volta in Essere e Tempo (Sein und Zeit) in forma del tutto
preliminare finalizzato ad una trattazione puramente speculativa di esso, il concetto di essere per la
morte trova vero e proprio significato nella Lettera sull’ umanismo (Brief über den Humanismus)
12
Parte Prima
Essere il Non Essere
13
Prologo
Nel corso di questa prima sezione tenterò di fornire i caratteri generali che, nella storia della
filosofia e del pensiero, hanno concorso alla concezione di qualcosa che denotiamo come
Nulla. L‟ aspetto più curioso è, innanzitutto, osservare quanto sia necessario al nostro
linguaggio – quale veicolo che conduce direttamente il nostro pensiero ad entità
empiricamente esistenti nel mondo esterno, e che senza di esso i due mondi, quello cioè
delle cose empiriche e quello del nostro pensiero, non entrerebbero mai in reciproco
contatto – qualificare qualcosa sotto il segno di un termine che lo designi, che lo afferri
anche nel caso in cui un termine non stia ad indicare un‟ entità, quanto piuttosto una non-
entità.
La parola Nulla sta, infatti, ad indicare un qualcosa che «è» tale in quanto «non è», ed in ciò
consiste una prima difficoltà, poiché qualificare qualcosa che è un non essere (o non-ente)
non basta a dire con esattezza cosa sia tale non essere
7
. A partire da questo problema,
ovvero quello della qualificazione dell‟ essere in quanto non essere, si sono sviluppate tutta
una serie di riflessioni relative alla questione del Nulla e alla sua reale presenza, attuata
mediante la non presenza di qualcosa – avente esse sia carattere logico sia meramente
estetico o emotivo, e relativamente anche nella valenza il nulla possiede sia a livello
teoretico che pratico. Circa la questione paradossale di dover definire qualcosa che è in
quanto non è, possono essere formulate le seguenti domande: che cos‟è questo qualcosa
che è in quanto non è? Si può parlare, o meglio ha senso parlare di qualcosa che non è e pur
tuttavia è? E se ha senso parlarne, che cosa questo non essere designa? Domande
queste che non possono fornire una risposta unica, chiara e definitiva, che dia cioè un
senso ultimo a quanto viene posto in questione, poiché in effetti è proprio sul nulla che si
fondano le seguenti questioni, ovvero sull‟ incerto e sull‟ inverificabile per principio.
Per poter descrivere una volta per tutte cosa denoti la parola nulla nei contesti in cui essa
ricorre, sia che venga usata come sostantivo o come aggettivo in forma predicativa di
qualcosa, occorrerebbe attribuirle un significato ultimo ed universale che stia a denotare
qualcosa che sia sempre valido in qualsiasi tempo, luogo e modo di utilizzo; ma in ciò
propriamente consiste una difficoltà ulteriore, poiché non tutti ricorrono all‟ utilizzo di un
termine come nulla – che non denoti cioè un oggetto empiricamente concreto – per
intendere la stessa cosa o per riferirci alla medesima cosa, poiché quanto diverse possono
essere le motivazioni che spingono a far ricorso alla parola nulla, ugualmente saranno
diverse le intenzioni mediante le quali vogliamo esprime qualcosa in quanto nulla.
7
M. HEIDEGGER, Che cos’è la Metafisica? (Was ist Metaphysik?), scritto nel 1929, in relazione al Nulla
scrive «Indagato deve essere l’ ente soltanto e null’ altro; l’ ente solamente e inoltre il Nulla; l’ ente l’
unicamente e oltre a ciò Nulla. Come sta la cosa con questo Nulla? Esiste il nulla solo perché c’è il Non,
ossia la Negazione? O forse la cosa sta diversamente? *…+ Come sta la cosa con il Nulla? Il nulla stesso
nulla.»
14
Qualsiasi cosa sia questo nulla che tanto spesso ricorre nei nostri discorsi, esso non può
riferirsi né ad un preciso stato di cose, o ad una entità definita, né intendere la medesima
cosa per tutti coloro i quali formulano o proferiscono tale termine. Il nulla è, in quanto
tale, nulla: ovvero non chiaro, impreciso ed estremamente labile, il cui contenuto non è
definibile in forma alcuna, sebbene possa assumere, all‟ interno della varietà e molteplicità
dei discorsi, infinite forme. Altro aspetto curioso su cui occorre riflettere è dato dal fatto
che è proprio l‟ Essere, ovvero ciò che per principio è ed esiste, a dar luogo al nulla e alla
possibilità stessa del suo avvento, quale forma quest‟ ultimo dell‟ essere in quanto non
essere. Se possiamo parlare di qualcosa, questa cosa è ed esiste, e ciò vuol dire che
siamo anche in grado di poter concepire e parlare di ciò che non è, giacché, in fedele
riferimento al pensiero eracliteo, l‟ essere fonda sé stesso sul proprio contrario e in virtù di
esso (si può parlare di caldo poiché in esso si fonda l‟ idea stessa del freddo).
Gli opposti, dice Eraclito, si trovano armonicamente in perenne conflitto tra di loro, e
proprio da tale conflitto il mondo viene generato e mantenuto come tale; e se il mondo
dell‟ essere di tutte le cose «è», in quanto esse esistono e si trovano all‟ interno di esso,
questo stesso mondo reca con sé anche il «non essere» delle cose medesime. Le cose
sono in virtù del fatto di essere e non essere al contempo: di essere ciò che sono poiché
fondano il proprio essere su quanto è loro contrario, e non possono prescindere da tale
processo che permette al mondo stesso di essere ed esistere così come esso viene esperito.
Nemmeno la vita e la morte, quali entità che detengono il gioco stesso dell‟ esistenza,
possono scampare il conflitto degli opposti
8
. E possiamo vivere la vita poiché essa dà
luogo alla morte, e in virtù di quest‟ ultima essa può qualificare il proprio essere vita;
ugualmente, la morte è ciò che subentra in assenza della vita, qualificandosi come quello
stato dell‟ essere opposto a quello della vita, laddove è la vita stessa che predispone il
mondo in modo tale che la morte avvenga. Dal momento che qualcosa giunge alla vita,
essa è anche giunta per la morte, in previsione di questa, poiché tutto ciò che è in vita è
inevitabilmente destinato alla morte – laddove la morte appare quale castigo che si sconta
per la colpa di essere stati in vita. Nulla abbiamo fatto per provocare la propria venuta al
mondo, ed essa stessa è avvenuta contro la nostra volontà, o almeno senza che potessimo
liberamente scegliere se nascere o meno; eppure ci ritroviamo colpevoli di esistere, di
usufruire di questa vita consapevoli del fatto che lo spazio da noi occupato nel mondo
significa sottrarre spazio a qualcun altro, ed in ciò è radicata la nostra colpa.
L‟ avvento della vita, la nostra venuta al mondo, rappresenta al tempo stesso l‟ avvento
della morte, quale atto finale che per ogni singola esistenza si compie. Ogni vita, in
quanto vita, è destinata alla morte, conseguenza necessaria quest‟ ultima dell‟ essere venuti
alla vita e dell‟ aver abitato in essa per un certo tempo. Dall‟ idea di questa destinalità alla
morte che si attua con e per causa stessa della vita, questo stato che Heidegger descriveva
8
ERACLITO: «Ciò che si oppone converge, e dai discordanti bellissima armonia», in Dell’ Origine (
Frammenti), traduzione di A. Tonelli, Fr. 11 pp. 54
15
come un essere per la morte
9
– definizione questa entro cui vi è racchiuso il cuore del pensiero
esistenzialista – da un certo punto di vista svela la profonda fugacità delle nostre esistenze e
la loro vanità dell‟ essere ciò che sono, laddove ognuna di esse non è altro che la
manifestazione di un perenne e costante essere qualcos‟ altro, totalmente permeato dall‟
incessante flusso del divenire. Attraverso una riflessione più profonda ed accurata in
merito a tale condizione dell‟ essere, è possibile invero estrapolare un senso del tutto
diverso, possibile questo proprio in virtù di quella medesima fugacità e quella stessa vanità
che, insieme alla caducità, mettono in risalto il carattere di unicità della vita, ovvero – in
termini heideggeriani – di autenticità della vita.
L‟ aver coscienza che disponiamo solo di questa vita, e che in alcuna maniera possiamo
sapere se al termine di essa ci attenda un‟ altra vita di qualsiasi tipo, si trasforma dal suo
stato di caducità e precarietà dell‟ essere in reale possibilità data al singolo, ovvero all‟
individuo in quanto tale, di auto-affermazione; possibilità cioè di rendersi, in qualche
modo, immortale seppur morendo – nel senso in cui Unamuno intendeva per immortalità
quell‟ anelito personale all‟ eternità, possibile essa nell‟ eco che una vita lascia di sé nel
mondo seppur vinta dalla morte
10
(in quanto gli uomini si differenziano dalle proprie
divinità solo per il fatto che esse sono immortali). In virtù di questa auto-affermazione, di
questa sorta di senso supremo che il singolo individuo conferisce alla propria vita, è
possibile parlare di vita autentica quale unica possibilità a noi concessa per vivere il tempo
a disposizione in modo degno e all‟ altezza delle proprie aspettative, e di superare quest‟
ultime per poter ambire ad altre di grado maggiore laddove ciò è possibile.
Vero resta il fatto che, anche rendendo la propria vita un evento unico al mondo ed
irripetibile, in quanto Io sono propriamente la mia vita e non la vita di un altro (e in quanto
tale diversa da qualsiasi altra), ciò non ci consente comunque di evadere dal vortice del
divenire perpetuo, a causa del quale le cose non sono mai ciò che sono – o comunque
destinate a diventare sempre qualcos‟ altro rispetto a ciò che sono – che tutto inghiottisce
in sé. Per quanto noi esseri umani, per quanto cioè ognuno di noi si costringa a rimanere
aggrappato alla propria vita sforzandosi di condurla nel miglior modo possibile
coerentemente alle proprie aspettative personali, in nessun caso essa potrà tagliarsi fuori da
quella che è la propria destinalità: dall‟ essere vita che non è altro che un essere per la morte.
Gli uomini non vogliono abbandonare la vita, e ancora meno voglio abbandonare quanto
all‟ interno di ogni singola vita vi è di concretamente proprio, siano essi beni materiali o
affetti. Ma dalla vita, invece, finiscono per essere abbandonati.
Questa condizione a noi connaturata, questo essere per la morte, getta nello sconforto se
non nella disperazione, alla luce della quale tutto appare vano ed inutile, laddove il termine
tutto non è altro che sinonimo di ciò che dovrebbe essere il suo corrispettivo negativo,
ovvero nulla. Ciò che non è, nel senso in cui le cose altro non sono che, come Leopardi
aveva lasciato detto, il divenire eternamente qualcos‟ altro, non è reale – laddove con reale si
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M. HEIDEGGER, in Essere e Tempo (Sein und Zeit), e successivamente, nel 1945, compare anche nella
Lettera sull’ Umanismo
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M. DE UNAMUNO, Il desiderio di immortalità, in Il sentimento tragico della vita (1913)
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intende caratterizzare qualcosa come dotato di una certa stabilità temporale, di una
tendenza cioè a permanere in una qualche forma determinata e stabile. E se ciò che non è
reale non può essere, di conseguenza il reale medesimo non è altro che una mistificazione
del nulla, sostanza ultima di cui tutte le cose sono in realtà costituite e che le fonda in
quanti tali – in quanto cioè esistenti.
È interessante osservare che il paradigma qui preso in esame sia stato posto in questione in
epoche diverse e lontane fra loro, oltre ad essere stato fatto oggetto di studio e riflessione
all‟ interno di discipline non necessariamente a carattere filosofico, come ad esempio in arte
e in poesia. In merito a ciò ho voluto porre un confronto fra due personaggi poetici,
separati da un‟ ampia distanza temporale ed inseriti in contesti diversi: ovvero tra la figura
nostalgica di Ulisse, preso dall‟ esser-qui e dall‟ essere-altrove per cui tale compresenza lo
rende sia multi presente sia assente da qualsiasi luogo; e quella di Foscolo, che contempla il
ricordo della propria giovinezza, per sempre ed irrimediabilmente perduta, collocandola all‟
interno delle strade della propria città natale da cui si trova separato. Entrambi i
personaggi, sebbene siano divisi dal tempo e dalle situazioni personali che si ritrovano a
vivere (oltre al fatto, naturalmente, di essere il primo di pura fantasia e il secondo realmente
esistito), presentano numerose analogie che li rendono, in qualche modo, simili o
comunque degni di confronto.
Il paradigma del nulla si presenta, in ogni contesto in cui ricorre, attraverso una forma che
accumuna tutte le discipline chiamate in gioco: in qualsiasi caso, ed in qualsiasi accezione
venga utilizzato questo particolarissimo termine, il nulla è una condizione dell‟ essere che
non può manifestarsi se non in virtù dell‟ assenza di essere. Nulla è ciò che è poiché non
è, ma, tuttavia, è pur sempre qualcosa che coinvolge e rende partecipi di esso le nostre vite,
e per tal ragione non possiamo esimerci dal porre una qualche riflessione su di esso e sulla
paradossalità che lo costituisce, entro la quale ci ritroviamo a nostra volta gettati –
condizione, quella della paradossalità, che Hölderlin concepiva come unica possibilità che
qualcosa (qualsiasi cosa) ha a propria disposizione per auto-definirsi ed auto-affermarsi,
quale unica condizione che a noi è dato conoscere. Ed è proprio la paradossalità che
permea e caratterizza la nostra esistenza, quale struttura del mondo entro cui viviamo e
siamo propriamente ciò che siamo. E proprio in virtù di ciò la nostra vita appare
profondamente segnata dal carattere tragico, laddove essa non è altro che qualcosa che
sempre diviene qualcos‟ altro e che nulla può fare per scampare la propria venuta al mondo
ed il proprio destino, entro la quale noi esseri umani non possiamo far altro che essere ciò
che ci è stato dato modo di essere senza sapere perché o per come dobbiamo essere –
esistenza la nostra che si getta in una vita e in un mondo dei quali non possiamo conoscere
nulla se non la mera apparenza delle cose con le quali entriamo in contatto, e per la quale ci
ritroviamo a dover vivere una vita sia che essa abbia senso o meno.
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Capitolo Primo
Esultate!
La razza aborrita
Che non riuscì a conservare nell‟ Eden il suo alto posto,
ma ascoltò la voce
del sapere privo di potere,
è prossima all‟ ora della more!
GEORGE BYRON, Cielo e Terra
Perché il Nulla?
Con la parola thaumàzein i greci intendevano significare la meraviglia, quel particolare stato
emozionale che affiora nel momento in cui volgendoci alle cose per la prima volta esse
rispondono al nostro sguardo. I nostri occhi, e i nostri sensi in generale, vergini da ciò che
prima era ignorato vengono da esso colpiti , e ciò fa sì che gli esseri umani - come bambini
che si avventurano in un mondo in cui tutto è nuovo e interamente da scoprire – si
ritrovino contemporaneamente pervasi da quello stato d‟ animo quale è appunto la
meraviglia, ossia ciò che sorprende perché inatteso. E come non potrebbe essere
altrimenti in un mondo, come il nostro, colmo di cose da scoprire? Come esser ciechi, o
semplicemente indifferenti, alla sorprendente quantità degli elementi che costituiscono ciò
che siamo abituati a chiamare realtà tangibile? Ogni angolo, ogni spazio del nostro mondo
appare totalmente ricoperto di cose alle quali attribuiamo una qualche sorta di significato,
un perché o un‟ essenza, e laddove sembra non esservi senso alcuno vi è presto fatto
trovare. Nulla deve restare privo di senso perché nulla può essere privo di senso, poiché
ogni singola cosa è intrinsecamente dotata del proprio senso, identificandosi con esso che
propriamente la fa essere ciò che è. Di conseguenza, se nulla può essere privo di senso,
appare assurdo e contraddittorio porre in questione l‟ esistenza del Nulla, dove con simile
termine si intende designare il non essere.
In un mondo in cui tutto è perché esiste – e ciò è provato dal fatto che le cose possiamo
vederle, sentirle e toccarle – e, se è vero che esiste, ha senso, non può esservi posto per il
nulla; laddove l‟ Essere appare il signore incontrastato che pervade tutte le cose,
necessariamente le cose sono, e se le cose sono non possono non essere poiché ciò appare
una contraddizione in termini. Il nulla non fa parte del mondo degli esseri umani, per i
quali l‟ essere è intimamente connaturato ad essi, quali appunto esseri caratterizzati dall‟
essere umani. Il nulla non appartiene al mondo degli uomini, poiché essi sono ed
esistono, e, in quanto tali, possono entrare in contatto solo con ciò che, a sua volta, è ed
esiste; e se per definizione il «nulla» è ciò che non è, inteso come non essere delle cose, e
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se le cose che sono non possono non essere, è logicamente contraddittorio alla loro natura
di esseri esistenti – i quali possono essere percepiti e compresi dagli uomini che fanno di
loro esperienza.
Nonostante lo spettacolo dell‟ Essere che è stato appena descritto non può non apparire
immediatamente vero, se non addirittura ovvio, occorre riconoscere che, per quanto se ne
fugga, aleggia nei nostri pensieri l‟ idea del Nulla. E non solo nei nostri pensieri, giacchè
esso, beffardamente, si offre anche al nostro linguaggio, in quanto per poter identificare il
non essere delle cose – o l‟ assenza dell‟ essere dalle cose – dobbiamo propriamente dirlo,
ossia dare ad esso un nome per poterlo pronunciare; e se ciò che appartiene al nostro
linguaggio appartiene di conseguenza al nostro mondo, allora anche il nulla appartiene al
nostro mondo. Sebbene ogni nostra parola, ogni nostra azione e ogni nostro gesto siano
un costante tentativo di fuggire lontano dal nulla, il quale viene spesso liquidato come
momentanea ignoranza di qualcosa che attende solo di essere scoperta e compresa, questo
spettro impone costantemente la sua presenza, inseguendoci come l‟ ombra che ci
trasciniamo appresso. Ecco quindi svelata la doppia natura delle cose: da una parte
troviamo le cose illuminate dalla luce rassicurante dell‟ essere, dall‟ altra parte esse sono
anche la loro ombra che non è altro che l‟ oscuramento dell‟ essere, dunque il nulla. Una
volta scoperto che tutte le cose hanno un‟ ombra e che essa è caratterizzante propriamente
l‟ Essere, la visione idilliaca di un mondo armonicamente organizzato ed equilibrato, in cui
tutto è in quanto esistente e, quindi, dotato di senso – in virtù del quale si crede essere il
mondo stesso collocato in un punto preciso dello spazio perché è proprio lì che deve
precisamente essere – si interrompe bruscamente come un sogno lasciato a metà sul più
bello.
Questa immagine che avevamo del mondo quale luogo protetto, ovattato e comodo,
inteso come dimora degli esseri umani, come luogo cioè che non potrebbe essere più sicuro
per essi, in cui tutto sembra dato alla mano semplicemente perché è e in modo del tutto
immediato, ad un tratto diventa sfuggente e si nasconde alla nostra capacità di conoscerlo e
comprenderlo. La nostra possibilità a noi connaturata di comprendere ciò che ci
ritroviamo di fronte, e con essa la possibilità di porre domande circa ciò che abbiamo o
siamo, è ciò che propriamente ci allontana definitivamente dalla natura degli animali, in
quanto il nostro sguardo non si accontenta di passare semplicemente in rassegna tutte le
cose che si presentano ad esso, di operare la mera distinzione fra cose che possono nuocere
o essere letali da cose che possono recare qualche vantaggio. Lo sguardo che posiamo
sulle cose vuole qualcosa di più, ci chiede e pretende di essere scosso, di essere quindi colto
dalla meraviglia; nel momento in cui esso tocca le cose non si limita semplicemente a
sfiorarne la superficie, bensì le afferra saldamente a sé attendendo che le queste, a loro
volta, ricambino quello sguardo che noi abbiamo osato rivolgere loro. Nell‟ istante in cui
si sente il bisogno di interrogare le cose che ci circondano, nel momento in cui nasce la
necessità impellente di rendere il “perché” delle cose ad esse oltre che a noi stessi, ciò
segna, da parte degli uomini, la perdita definitiva di quegli ultimi brandelli di natura che
aveva originariamente generato tutti gli esseri, per la quale ci scopriamo essere qualcosa che