- 7 -
motivo di giustificazione o dannazione, e non è possibile darne
una chiave di lettura lineare, univoca. Quello che è innegabile è
proprio il suo essere costantemente presente, in un modo o
nell’altro, nella nostra vita di tutti i giorni, nei nostri pensieri,
nei desideri, nelle relazioni.
Come abbiamo detto, ciò vale per la nostra cultura, per il
nostro mondo. È la nostra realtà “occidentale” a intrattenere
questo legame costante. Diversa è la prospettiva se ci
muoviamo dall’esterno della nostra cultura, se ci poniamo dalla
parte dell’“altro”. Molte differenze presenti tra le culture
scompaiono in questo movimento di allontanamento dal proprio
suolo d’origine, e così non è la cultura dei paesi islamici a porsi
come termine di paragone, apertasi molto presto alle idee
scientifiche e filosofiche di provenienza ellenistica; lo stesso
vale per la cultura iraniana come per quella indiana, venute a
contatto dello stessa realtà ellenica e della sua visione del
mondo. Queste culture hanno molto in comune con ciò in cui noi
cosiddetti “occidentali” ci riconosciamo, e come tali non si
distanziano notevolmente dal nostro tradizionale modo di
conoscere e rappresentare la realtà.
Diverso è invece il caso della Cina. Avvicinatasi tardi
all’altra “metà de mondo”, la Cina ha sviluppato un linguaggio
totalmente differente, estraneo alla famiglia indo-europea e
all’insieme concettuale a esso appartenente. È proprio questo
paese a porci la possibilità di un confronto con una realtà altra,
difficilmente comprensibile attraverso le nostre categorie.
- 8 -
Non vi è in Cina alcuna “teo”-“dicea”, né un pensiero della
provvidenza, perché là non si incontrano né théos né dike,
né “Dio” né “giustizia”
1
Ecco qualcosa che fa sobbalzare il nostro pensiero. La cultura
cinese non contempla Dio e la giustizia.
In realtà, nel II° millennio a.C. si impose la figura di un
“Signore” che domina dall’alto il mondo umano, Shangdi. Ma
questa figura venne soppiantata nel millennio successivo da
una diversa, un principio regolativo: l’alternanza del giorno e
della notte e delle stagioni, da cui proviene il rinnovamento
senza fine del mondo. Questo è il principio del “Cielo” a cui
risponde la “Terra”, sua compagna
2
.
Il compito dei pensatori cinesi fu soprattutto quello di
chiarire la coerenza del processo nato dall’interazione di questi
due elementi, lo yin e lo yang. L’idea del “Signore” non è
nemmeno stata criticata, è stata semplicemente posta ai
margini, relegata in un angolo.
Così come non c’è un Dio creatore e sovrano, un Dio
personale o un Primo principio, non vi è nemmeno l’idea di
giustizia, dike, come istanza sovrana e tutelare, o themis, che
trascende i rapporti di forza e precede la contrapposizione di
accusa e difesa.
In Cina non ci sono né mythos né telos. Mancando la
drammatizzazione degli eventi, non si è nemmeno sviluppato
un logos che se ne distaccasse. La visione dei fenomeni di
organizza per corrispondenze, non per causa-effetto, grazie alle
1
F. Jullien, L’Ombra del male. Il negativo e la ricerca di senso nella filosofia
europea e nel pensiero cinese, Angelo Colla, Costabissara, 2005; p. 75
2
Cfr. ivi, p. 76
- 9 -
quali tutti gli esistenti si rispondono e si influenzano. Nel
pensiero cinese non si parla di senso, ma di coerenza.
Cielo e terra sono una banale evidenza, ciò che è visibile
da chiunque: c’è cielo e c’è terra, c’è alto e c’è basso. Nessuno
dei due va escluso, nessuno è più importante dell’altro,
entrambi contribuiscono ugualmente al corso del processo.
Immanenza, non trascendenza, è la parola d’ordine del pensiero
cinese. “Una volta yin – una volta yang, questa è la via (Tao)
3
”.
Ogni momento del processo del mondo vede l’affermarsi di un
elemento e il ritirarsi dell’altro, chiamato poi a ritornare.
La colpa in quest’ottica non può essere concepita se non
come opposizione al fluire del tutto, cioè come stasi. Colpa è
non muoversi nell’elemento della vita, irrigidirsi:
Tutti considerano il bello come bello, e già è brutto;
Tutti considerano il bene come bene, ed è già non-bene
4
La determinazione che si impone è sul limite della sua
perversione e inversione. Ma se si ritorna all’interno del
movimento, se ci si immerge nuovamente nel tutto, se si segue
di nuovo la via, ogni traccia della colpa è cancellata.
Ogni infelicità personale si dissolve nella coscienza di un
ordine più generale, immanente, di cui si sa che deve
passare attraverso fasi diverse per mantenersi
5
3
Classico del mutamento, “Xi ci”, A, 5, citato in F. Jullien, op. cit., p.88
4
Laozi, I, citato ivi, p. 111
5
F. Jullien, Figure dell’immanenza. Una lettura filosofica del I Ching, Laterza,
Bari, 2005; p. 219
- 10 -
La via dell’immanenza si chiarifica da sé, attraverso la sola
esperienza. Siamo di fronte alla visione rassicurante della
regolazione in cui un buco spalancato sull’oscurità è riassorbito
all’interno del tutto.
Questi pochi elementi ci permettono di comprendere come sia
differente il pensiero cinese rispetto al nostro, come la cultura
si sia sviluppata in direzioni quasi opposte: l’immanenza, il
processo continuo, la durata, il tutto, la coerenza, da un lato; la
trascendenza, l’astrazione, l’analisi, la tecnica e la misurazione,
il senso, il tragico dall’altro.
Possiamo capire chiaramente come uno dei concetti più
legato alla nostra tradizione - la colpa - opponga molte
resistenze quando viene trasferito in un contesto così diverso.
Non sarebbe mai possibile rendere universali i nostri pensieri,
le nostre teorie, se non a patto di adoperare violenza sul
contesto o sul pensiero stesso, il quale diventerebbe per forza
qualcosa d’altro, si smarrirebbe, si disperderebbe.
Bisogna dunque tener conto di dove affondano le radici
del nostro modo di guardare al mondo, senza pretese di
ricomprensione della totalità. Le differenze, storicamente
determinatesi, esistono e vanno comprese se non si vuole
incorrere nel rischio di un improprio nell’esportazione di
concetti e modelli in maniera grossolana e inadeguata.
- 11 -
In realtà, le cose sono complesse, e non esistono soltanto
distanze o opposizioni. Esiste in effetti qualcosa che ci permette
di creare un ponte tra il nostro modo di rivolgerci al problema
della colpa e il pensiero cinese; questo tramite è il concetto di
integrazione.
L’integrazione presuppone una trasformazione e
un’elaborazione, e segue un movimento opposto rispetto alla
fissazione, alla non-processività. L’irrigidimento, la paralisi
impediscono il cambiamento, e creano uno scarto tra la parte e
il tutto, tra me e l’altro, tra il soggetto e l’oggetto.
Come in biologia si parla di aptosi, di morte cellulare per
non-comunicazione e divisione dal resto dell’organismo, una
sorta di suicidio per isolamento; come in psicoanalisi parla dei
pericoli riguardanti il blocco e la fissazione della libido, così in
Cina il peggio, il male, stanno proprio nell’irrigidimento, nella
chiusura di ogni emozione nei confronti del mondo. La
trasformazione è un passaggio (trans-), è una continua
apertura all’altro: se vi è una saggezza, questa consiste sempre
nell’aprirsi, nel lasciar passare, procedere, transitare le
emozioni, compreso il dolore.
Questa possibilità dell’apertura all’altro, il continuo
tentativo di integrare parti che sembrano scisse, è un lavoro
che può appartenere a entrambe le culture, al di là delle
differenze reciproche. Questo aspetto comune è il travaglio del
negativo, la sua accettazione all’interno della complessità dei
fenomeni, la rinuncia alla più comoda semplificazione. È la
possibilità di pensare in termini di polarità che cooperano, si
compensano o negoziano un compromesso, in una interazione
continua, affrancate dall’irrigidimento tra dualità esclusive.
- 12 -
In questa luce ci sembra di poter dire che esitano dei
punti di contatto, delle assonanze, e riguardano proprio la
possibilità di accettare l’ambivalenza, la complessità, la non
linearità dei processi, ancor più per ciò che riguarda l’uomo.
Tutto il lavoro di indagine e di riflessione sarà quindi mosso
proprio dal desiderio di non tradire questa prospettiva:
tenteremo di muoverci nell’orizzonte dell’integrazione.
Ciò non toglie che esistano dei confini invalicabili, che la
storia, i processi economici influiscano sul modo di pensare e di
guardare all’uomo. Significa soltanto che tenteremo di prendere
una strada meno semplice, più tortuosa, perché complessa e
tortuosa è la dimensione umana nelle sue molteplici
sfaccettature. L’importante è conoscere il limite di se stessi e
del proprio lavoro: ciò permette che si scampi al rischio di
banalizzazioni o totalitarismi culturali.
Viviamo in un tempo, abitiamo un luogo, parliamo una
lingua, abbiamo usanze e costumi, leggi, valori che ci
appartengono, con i quali siamo cresciuti e ci siamo confrontati.
Aver coscienza di ciò e tenerne conto, sapere che questo è solo
uno dei tanti mondi possibili e forse neppure il migliore, non
significa cadere nel relativismo, anzi. Forse questo è l’unico
modo di relativizzare le differenze e concederci la possibilità
che emerga qualcosa che sia più largamente condivisibile, al di
là delle peculiarità di ognuno.
- 13 -
CAPITOLO I°
Pensando alla colpa: riflessioni generali sul termine
Il termine colpa richiama in sé un universo di senso che si può
solamente definire per contatto e per elisione. La colpa riguarda la
teologia, la giustizia, la psicologia; questi sono i campi nei quali la
colpa è stata studiata, analizzata e teorizzata più vivacemente.
Peccato, confessione, perdono, responsabilità, dolo, delitto, ecc., non
sono che alcune delle parole che spesso si accompagnano alla colpa,
e ne sono in qualche misura suoi derivati e suoi contenitori: come
fare infatti a comprendere il significato del termine colpa nel caso in
cui si trovi avulso dal contesto? Forse si può pensare che esista un
significato primo, una purezza arcaica dalla quale sono scaturite le
progenie più o meno legittime, ma tutto ciò non ci aiuta affatto a
cogliere la complessità dell’universo della colpa.
- 14 -
Pare importante quindi discernere almeno due primi
significati attribuiti alla colpa a seconda del contesto in cui questo
termine è usato: stato, situazione obiettiva, oppure vissuto di colpa
6
.
Ci troviamo dunque a un crocevia di estrema importanza: da un
lato, esiste la definizione di colpa come condizione oggettiva (l’aver
commesso il fatto, il fatto stesso), assolutamente indipendente dalle
emozioni che suscita nel colpevole; dall’altro, il vissuto soggettivo
della colpa, il senso di colpa, il quale attanaglia l’individuo che
ritiene (a torto o a ragione) di essere in colpa.
Attraverso una breve digressione terminologica, è possibile
notare come in alcune lingue (per semplificare prenderemo a
esempio una sorta di antipodi nel nostro caso: l’inglese e il francese
7
)
sia in qualche modo implicito tale dualismo semiotico: in inglese e in
americano si è imposto un uso particolare della parola colpa. In
questo contesto, guilt ha assunto su di sé l’accezione non solo di
situazione obiettiva, bensì anche di senso di colpa: in un solo
termine convivono due significati tra loro molto diversi e spesso
difficilmente conciliabili. Si può dire che l’uso di guilt per i indicare il
vissuto soggettivo sia stato legittimato già da Shakespeare: “so full
of artless jealousy is guilt / it spills itself in fearing to be spilt
8
”, dice
la madre di Amleto nella celebre tragedia, in cui sembra addirittura
6
Cfr. a questo proposito G. Abraham: “la colpa si scinde in due aspetti
fondamentali. Da un lato vi è la colpa vista dall'esterno, la colpa diciamo
oggettiva, che corrisponde alla normativizzazione stabilita da un dato ambiente
in un dato momento storico. Dall'altro lato, invece, essa si presenta come
un'esperienza profondamente soggettiva ed allora essa coincide con il
sentimento di colpa. A questo sentimento si associano spesso dei sentimenti
collaterali o degli stati psico-affettivi particolari”, in Sulla funzionalità del
senso di colpa, Rivista di Psicoanalisi, 1963-3, pp. 257-267. I corsivi sono miei.
7
Cfr. l’analisi linguistica di R. Speziale-Bagliacca, in Colpa. Considerazioni su
rimorso, vendetta e responsabilità, Astrolabio, Roma, 1997; Appendice, pp. 261-
67
8
“Così piena è la colpa di sospetti incontrollati / che si scopre da sé per paura di
essere scoperta”. In Shakespeare, Amleto, IV, v. 19-20
- 15 -
che si prospetti un’ulteriore complicazione in tale accezione di colpa:
l’impulso a confessare, affrontato e studiato molti secoli dopo
9
.
Non così nella lingua francese: colpa è faute (traducibile
nell’inglese fault e nell’italiano fallo). Si potrebbe dire che la colpa,
almeno etimologicamente, è innegabilmente legata all’errore (e
all’errare), sia esso volontario o involontario. Accanto a questo
termine, esiste il più desueto coulpe, usato in senso teologico. Ai
primi due si aggiunge culpabilité, espressione tecnica che designa la
‘colpabilità’ giuridica o psichiatrica. L’accezione giuridica
corrisponde all’uso giuridico italiano di colpa, mentre l’accezione
psichiatrica e, successivamente, psicoanalitica si riferisce al
sentimento di colpevolezza accompagnato da angoscia e da
inquietudine.
Due lingue, solo due esempi per mostrare modi diversi di
nominare la colpa nelle sue diverse accezioni.
Senza addentrarci troppo in questo campo, teniamo
comunque presente la riflessione che l’esempio delle lingue ha
chiarito: nella colpa convivono due anime almeno, le quali si
miscelano e si amalgamano in maniera diversa a seconda dei
contesti e delle intenzioni che la specificano: come i colori del pittore,
le diverse componenti pigmentarie della colpa intercorrono a
formare concetti che posseggono fondi comuni, ma spesso quasi del
tutto irriconoscibili alla luce del melange che ne risulta. Il colore
della colpa non è mai primario, ed è per questo che è opportuno
affrontare l’analisi della colpa in relazione al contesto in cui è stata
nominata e teorizzata.
9
Cfr. Theodor Reik, L’impulso a confessare, Feltrinelli, Milano, 1967
- 16 -
Non essendo dei giuristi o dei teologi, l’analisi della colpa in questi
campi sarà assolutamente parziale e, a rigor del vero, strumentale
all’analisi che del termine colpa verrà espressa nei prossimi capitoli
di questo scritto. Ben consapevoli che la trattazione dello scibile sia
al di là di ogni possibilità umana, ci assumiamo in qualche modo
una colpa della nostra mancanza, per restare nel tema dello scritto.
Le intenzioni non sono enciclopediche o storicistiche: la convinzione
è che la colpa debba essere trattata anche in chiave filosofica poiché
è la quotidianità, la coscienza, la stessa società che si cibano
costantemente di parti inscindibili di colpa, anche se non
probabilmente nell’accezione più comune di questa nozione.
Come parlare in filosofia di responsabilità, di libertà, ecc.
senza essersi prima chiesti quale possa essere il fondamento di tutto
ciò?
In un’epoca in cui le religioni sono spesso strumenti politici
più che ricerche interiori, nel nostro tempo in cui l’individualismo e
la più bieca giustificazione pseudo-relativistica ci impedisco di
pensare e vivere pienamente all’interno di una comunità, si impone
necessariamente anche in filosofia il problema di riflettere su ciò che
portiamo dietro di noi come eredità sentita e su ciò che è ancora
opportuno cercare, sostenere e perseguire. È davvero un’etica della
responsabilità quella che ogni giorno come filosofi e, ancor prima,
come uomini diffondiamo e pratichiamo nella nostra vita
accademica e personale?
Si parla di religione secolarizzata, ma non basta. La filosofia
deve entrare in più stretta relazione anche con alcuni aspetti spesso
scotomizzati: la psicoanalisi e la “scoperta” dell’inconscio hanno
ormai più di un secolo di vita, ma pare ancora molto difficile
accettare che essi entrino a far parte di una riflessione filosofica a
- 17 -
pieno titolo. Tutto ciò è ancora troppo chiaramente il segno di un
ancoraggio della filosofia a ipostatizzazioni che spesso provocano
l’asfissia, la chiusura di nuovi orizzonti di dialogo e di sintesi
ragionati. Esiste un’innegabile differenza tra il filosofo e lo
psicoanalista, e accettare che alcune tappe dell’una o dell’altra siano
contaminate dall’universo multidisciplinare proprio del sapere e
dell’agire umano è un gesto di estrema lungimiranza, indispensabile
per la crescita dell’uomo. La filosofia non è una disciplina astratta
che si culla nelle pieghe di un pensiero irrigidito e streotipato:
bisogna pensare ai confini come linee mobili, in continuo
aggiustamento e in continua evoluzione, bisogna disegnare figure
poliedriche di una realtà che spesso è divenuta incomprensibile agli
occhi di molti, bisogna sentire il corpo di questo movimento senza
limiti pregiudiziali; il lavoro del filosofo non è terminato e la filosofia
non ha esaurito il senso del suo percorso. Per questo è utile porsi
delle domande, una delle quali è quella sulla colpa, e affrontarla alla
luce di ciò che abbiamo sostenuto.
- 18 -
Il mondo dopo Freud e lo spazio della filosofia
Proprio per gli aspetti così difficilmente definibili della colpa, è
necessario porsi in una prospettiva multidisciplinare: non
potremo mai sdoganare la colpa dall’eredità che si accompagna
a questo termine né dobbiamo tentare di farlo. È forse più utile
chiedersi se le due anime della colpa abbiano in qualche modo
un’origine comune, e quanto di esse vada ora recuperato per
porsi in una riflessione filosofica che, mantenendo lo sguardo
sulla tradizione, possa muoversi in una direzione nuova, per
quanto di nuovo possa essere detto e scritto sulla condizione
umana.
Partiamo dalla colpa: quale può essere la sua origine
nell’orizzonte che ci siamo dati? Questa domanda non può
essere elusa.
Grazie alla psicoanalisi possiamo pensare che la colpa
abbia una sua “origine” nell’uomo. Già in questo primo passo
verso la colpa ci troviamo a dialogare con un mondo ben
distinto dalla filosofia, e spesso avverso a questa ultima.
Come filosofi e studiosi dell’età contemporanea viene da
chiedersi spesso come sia ancora possibile che la filosofia
rifletta sulle vicissitudini umane dopo la scoperta dell’inconscio
e dopo la relativa detronizzazione della coscienza. In realtà
credo che la scoperta dell’inconscio possa aiutare la filosofia a
porsi domande diverse riguardo al mondo che ci circonda, ma
che non sia di per sé la sua morte.
La riflessione e la mentalizzazione sono necessarie
all’uomo per comprendere e per comprendersi; la psicoanalisi si
- 19 -
pone nella sua prospettiva come una disciplina che possiede dei
connotati precisi e delle finalità esplicite. La filosofia continua
ad avere il suo ruolo e il suo campo d’indagine, la sua ragione
d’esistenza nonostante la psicoanalisi.
Bisogna certamente ammettere che la filosofia ha spesso
costruito il suo pensiero intorno al regno assoluto di una
coscienza dominatrice: il Diciassettesimo secolo fu il periodo in
cui l’esperienza della ‘coscienza’ e dell’‘auto-coscienza’ da parte
dell’individuo fu isolata e trattata come un valore primario,
come il primo principio delle filosofie universali e l’attributo
essenziale della divinità, quantunque questo atteggiamento
abbia già le sue radici in Socrate e Platone. Nella storia
dell’uomo, i concetti statici si sono dimostrati degli efficacissimi
tranquillanti intellettuali.
Tuttavia, nonostante il monolite della coscienza
dominasse ancora indisturbato, intorno alla metà del
Diciottesimo secolo è iniziato da parte di alcuni quel lungo
processo di smarcamento che ha poi avuto in Freud la sua
massima espressione.
Nonostante ciò, per due secoli, dal 1750 al 1950 circa,
molti razionalisti credevano all’inconscio solo come regno delle
forze irrazionali che minacciano l’ordine sociale e intellettuale
della coscienza razionale. Per altri pensatori, quelli che si
vollero confrontare con questo lato o-sceno dell’uomo,
l’inconscio non era soltanto il regno del caos e della distruzione,
bensì la fonte di tutte le fantasie e delle creazioni della
immaginazione umana.