3
e da un dibattito articolato in complesse posizioni. Al riguardo, basti solo qui
ricordare, a titolo esemplificativo, l’acceso confronto sull’esistenza di uno “stile
fascista dell’arte italiana”, documentato da Critica Fascista nel 1926-27 o, ancora,
l’inchiesta intrapresa nel 1937 da Domus sul destino dell’arte italiana.
3
Durante
questo periodo, infatti, mentre da un lato si registra la “negativa influenza del
fascismo sul movimento moderno”, per citare un giudizio critico di Bruno Zevi,
dall’altro continua ad alimentarsi la creativissima stagione dell’Italian Style
4
.
Ritornando al panorama architettonico della prima metà degli anni Venti, si
deve ricordare come la città di Milano abbia assunto un ruolo di protagonista nella
produzione architettonica italiana, accogliendo in pieno l’evoluzione del dibattito e
della ricerca già in atto in Germania, in Olanda e nella Francia all’inizio del secolo,
e nella prima Mostra Regionale Lombarda di Arti Decorative del 1919 divenuta poi
Biennale di Monza, emergerà l’edificio di “rottura” con la tradizione costruttiva di
tipo storicistico: la Cà Brüta, costruita tra il 1919 e il 1923, opera di Giovanni
Muzio, in collaborazione con Paolo Barelli e Valerio Colonnesse, si pone come
primo tentativo di correre incontro alle esigenze di una rinnovata cultura
architettonica italiana
5
.
Muzio è docente al Politecnico di Torino e di Milano, e lo resterà fino al 1963;
in occasione della presentazione della sua opera alla mostra, si parla di
“Neopalladianesimo” e di “Neoclassicismo lombardo”, di riferimenti alla pittura
metafisica di Giorgio de Chirico; ma, se da un lato sembra accogliere i
condizionamenti del gusto provinciale, non si può negare che egli si ispiri anche
alla città Ottocentesca, la quale contiene le anticipazioni della zonizzazione
razionalista, usata poi nella costruzione dei grandi quartieri del secondo
dopoguerra, scaturiti dalla maturazione delle teorie del movimento moderno in
Europa.
Egli inizia la sua carriera di progettista nel 1920,con Gino Fiocchi,Emilio Lancia
e Gio Ponti;quattro anni dopo fonda con Giuseppe de Finetti e Alberto Alpago
Novello il Club degli Urbanisti.Scrive Vittorio Magnago Lampugnani:“L’esordio
scandaloso della sua carriera fu la costruzione della cosiddetta Cà Brüta (…) un
complesso residenziale urbano in cui destò scalpore l’uso parsimonioso e non
conforme alla regola di decorazioni architettoniche derivate dal
classicismo.(…)Sviluppò la sua idea di città compatta e ordinata in diversi
contributi urbanistici per concorsi, tra cui il più significativo è la Forma Urbis
Mediolani progettata con il Club degli Urbanisti (1927)”
6
.
3
L. BENEVOLO, Storia dell’architettura moderna, Bari, 1971, p.614
4
B. ZEVI, Storia dell’architettura moderna, Torino, 1955, p.231
5
C.DE SETA, L’architettura del Novecento, Torino, 1981, p.49
6
V.M.LAMPUGNANI, (a cura di), Dizionario dell’architettura del Novecento, Milano,2000, p.295
4
G.Muzio,Cà Brüta,Milano,(1919-1923) G.Muzio, Cà Brüta,Milano,(1919-1923)
Pianta del piano terra Prospetto sulla via Principe Umberto
Senza esitazioni Leonardo Benevolo colloca la figura di Muzio, assieme a
quelle di Piero Portaluppi, Gio Ponti, ed altri tra i cosiddetti “architetti neoclassici
milanesi”, che a suo parere si ispirano al primo Ottocento lombardo, tentando di
allontanarsi dall’abitudine dei colleghi di mantenere un individualismo arbitrario
7
.
L’aspirazione di Muzio è, infatti, quella di riuscire a far confluire gli architetti
italiani in una “comunità di sentire”, come egli stesso la definisce, atta alla
formazione di una vera nuova architettura. Soprattutto egli denuncia il bisogno di
“regolarità”, (forse espressione del desiderio di ordine e di purezza conseguente
ai disastri dell’ esperienza bellica), ma che non sia rottura definitiva col passato
bensì strumento di revisione per giungere ad un nuovo classicismo
8
.
Per Kenneth Frampton, il linguaggio architettonico italiano emerso in quegli
anni, pone le sue radici senz’altro nel “movimento classicheggiante del Novecento
iniziato dall’architetto Giovanni Muzio”, ed è nutrito dai movimenti pittorici di
stampo onirico, (la metafisica di Giorgio De Chirico, il Neoplasticismo)
9
.
Sulla scia di Muzio, un gruppo di architetti milanesi lancia il manifesto per la
nuova architettura italiana: l’avvio è dato, nel 1926, dal Gruppo 7, che accoglierà
al suo interno sette architetti – Gino Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco,
7
L. BENEVOLO, Storia dell’architettura moderna,Bari,1971, p.614;Su Piero Portaluppi si cfr.: Piero
Portaluppi:linea errante nell’architettura del Novecento,a cura di Luca Molinari,Milano 2003
8
Idem. Sull’opera di Muzio si cfr.: Memorie sui progetti per il piano regolatore di Milano, 1930; V.
CARDARELLI, F. REGGIORI, L’architettura di Giovanni Muzio, 1936; Il Novecento e l’Architettura numero
monografico di Edilizia Moderna n.81 dicembre 1963;F.IRACE,Giovanni Muzio(1893-
1982):opere,Milano 1996;F.IRACE, Cà Brüta,Roma 1982
9
K.FRAMPTON, Storia dell’architettura moderna,Bologna,1993, p.237
122
4.4 Conclusioni
E’ innegabile l’importanza della figura di Manfredo Tafuri, storico e critico
dell’architettura, nel dibattito culturale sull’architettura moderna sviluppatosi in
Italia tra gli anni ’60 e ’90, e delle sue analisi lucide, ma anche dai forti accenti
politici.
Il suo metodo di ricerca ha influenzato molti architetti, così come è stato
importante per Peter Eisenman, che il 22 marzo 2004 ha ricevuto una laurea
honoris causa presso la facoltà di architettura “Ludovico Quaroni” di Roma,
presentando il suo studio sull’opera di Giuseppe Terragni, dedicata ai suoi
maestri: Colin Rowe e, appunto, Manfredo Tafuri
234
. Eisenman, definito da Tafuri
“l’anima teorica e indubbiamente la figura più singolare”
235
tra i five architects,
(Peter Eisenman, John Hejduk, Michael Graves, Charles Gwathmey, Robert Siegel
e Richard Meier), ha inteso con il suo libro rendere un tributo al critico italiano
per avergli insegnato “la necessità di riconoscere e osservare come le forze e i
contesti storici condizionano dall’esterno le opere degli architetti, inevitabilmente
immersi nello spirito del tempo e in quello dei loro committenti”.
236
Ciò che, a sua volta Tafuri ha ammirato in Eisenman, è stata L’ “assenza di
discorso architettonico e rigorosità ascetica, al limite del fanatismo, nella
costruzione di quella assenza”
237
; analizzando le sue opere, Tafuri nota infatti
soprattutto la loro “teoricità”, la “perfetta virtualità dell’oggetto. Egli pone, cioè,
l’osservatore in uno stato di perfetta alienazione rispetto al reale, corrispondente
all’assoluta estraniazione imposta alle forme”.
238
Ma ciò che Tafuri coglie è soprattutto il fatto che le ricerche di Eisenman non
tentano di recuperare l’ideologia vissuta dal movimento moderno, bensì la
“vivisezionano” in maniera spietata, per cui “il disincantamento della pura sintassi
risponde a quella grande illusione, rifiutandosi di ripercorrere la strada della
frustrazione”.
239
Infine, Tafuri identifica nei five architects e in particolare in Eisenman la
“tendenza diffusa a sperimentare lingue private di funzione, estratte, per
234
PIPPO CIORRA, Terragni scomposto come un film di Godard, Editoriale di Alias, supplemento al “Il
Manifesto” del 20.03.04
235
M. Tafuri, Five architects N.Y. Peter Eisenman John Hejduk Michael Graves Charles Gwathmey &
Robert Siegel Richard Meier,Roma,1981,p.11
236
PIPPO CIORRA, Terragni scomposto come un film di Godard, Editoriale di Alias, supplemento al “Il
Manifesto” del 20.03.04
237
M. Tafuri, Five architects N.Y. Peter Eisenman John Hejduk Michael Graves Charles Gwathmey &
Robert Siegel Richard Meier,Roma,1981, p.13
238
Idem, p.15
239
Idem, p.16
123
paradosso, dall’area dei linguaggi”
240
, compiendo così, una sorta di bilancio di
quanto l’architettura contemporanea ha ereditato dalle esperienze passate.
Questo risultato lo porta a ritenere che i linguaggi architettonici degli anni ’20 e
’30, ritenuti “linguaggi di battaglia”
241
, siano oggi morti e che la stessa “battaglia”
dell’architettura sia finita con la sconfitta di quest’ultima.
Come ha osservato Antonino Saggio, “pochissimi come Manfredo Tafuri hanno
contribuito a demolire certezze, miti, speranze rivelando le debolezze degli
architetti nell’aver creduto in un mito borghese, in una riforma socialdemocratica,
in un regime risolutore, in una ricostruzione paesana, in un centro sinistra di
piano. Per Tafuri l’opera non indicava soluzioni o destini. Era significante se
rappresentava un problema storico”.
242
Nel caso dei New York Five Tafuri non
scopre, non rivela, non è “un cacciatore di tarfufi”.I New York Five vivono
contraddizioni aperte di un architettura che ha smarrito la sua utopia sociale e si
trova con le apparenze autoreferenziali di “architetture di carta”.Basti pensare
alla definizione di Eisenman come terrorista formale, di Graves all’insegna della
polisemia e all’evoluzione dei diversi autori nei vent’anni successivi
243
.
La sua posizione critica nei confronti delle utopie e della creatività degli
architetti sarà la devastante molla che bloccherà del tutto la breve stagione
dell’Italian Style.
Nonostante, dunque, l’accesa militanza politica di Tafuri, la sua critica
all’ideologia ha implacabilmente bloccato la fiducia nella creatività del progetto,
creando nel disincanto l’illusione nel futuro. Il progetto viene ripudiato, perché
considerato “un’azione senza speranza”, nel tentativo di dimostrare così il proprio
dissenso a quanto è avvenuto dagli inizi del Novecento fino agli anni Ottanta.
240
M. Tafuri, Five architects N.Y. Peter Eisenman John Hejduk Michael Graves Charles Gwathmey &
Robert Siegel Richard Meier,Roma,1981,Roma,1981, p.29
241
Ibidem
242
Antonino Saggio, Il pendolo di Tafuri,in Il progetto storico di Manfredo Tafuri,in “Domus” n.733,
luglio-agosto 1995, pp. 103-104.
243
Ibidem