elastica nella forza lavoro) innescando allo stesso tempo continue espansioni degli
investimenti e maggiori guadagni. Gli aumenti di produttività, infine, trasferiti in prezzi
all’esportazione ridotti hanno generato questa internazionale crescita economica
(Kindleberger, 1974). Diversamente Fuà impernia la spiegazione di tale “miracolo
economico” su una esplosione di imprenditorialità, concepita come liberazione di un
potenziale di iniziativa individuale, compressa nei secoli; la molla che ha fatto scattare
parte dello sviluppo industriale italiano è riconducibile al disagio profondo dello strato
più qualificato ed intraprendente dei lavoratori, liberatisi finalmente da quel senso di
compressione della loro personalità, di sottoutilizzo delle loro capacità, di spreco della
loro intelligenza, causati da una organizzazione produttiva rigida e gerarchizzata, che
non prestava molte attenzioni al desiderio di stima, alle speranze, alle illusioni della
manodopera (Fuà, 1965). Ed è in questa realtà, che intorno al 1970, si sono moltiplicati i
centri manifatturieri e sono emersi, particolarmente nel centro Nord concentrazioni
territoriali di imprese che qualche anno dopo hanno preso il nome di distretti industriali.
1.2 La vittoria del made in Italy
La conseguenza immediata di questa ininterrotta espansione ha permesso alle
piccole-medie imprese italiane di divenire più efficienti, più competitive e di
conquistare posizioni stabili di leadership nell’interscambio mondiale. E’ a questo punto
che il tema “distretto”, che già si era ritagliato una nicchia nei dibattiti di economia
industriale entra di diritto nel dibattito macroeconomico (Becattini, 2000). Con lo studio
di Porter inizia un’analisi dei luoghi dove vengono prodotte le merci in cui l’Italia ha
conquistato un vantaggio competitivo sul mercato. Le indagini sulla composizione e
sull’evoluzione del commercio estero hanno chiaramente mostrato che i prodotti più
qualificati del made in Italy provengono proprio dai distretti industriali e
reciprocamente larga parte delle produzioni tipiche dei distretti appartiene al made in
Italy (Becattini, 2000). La natura del vantaggio competitivo italiano risiede dunque nel
contesto locale, e nel modo in cui le singole unità interpretative interagiscono con esso
ed, in particolare, con le conoscenze e le esperienze produttive ivi sedimentate.
L’elevato numero di unità di produzione, insieme all’operare di meccanismi di
5
collaborazione, stimolano infatti continue innovazioni di processo e di prodotto, a
partire da una comune base di conoscenze disponibili (Conti, Menghinello, 1997). Non
si tratta, però, solo di nessi di interdipendenza legati alla rete locale, ma anche di
fenomeni di “contagio intellettuale” derivanti dalla fusione dei momenti produttivi e
della vita ordinaria degli agenti umani del distretto. In sostanza, dunque, dentro il
“coacervo delle produzioni” di un paese esistono tanti “nucleoli organici” di produzioni
legate fra di loro dalla prossimità territoriale e culturale che si realizza nei sistemi locali
di piccole e medie imprese che vanno sotto il nome di distretti industriali (Becattini,
Menghinello, 1998). Nel 1996 il contributo complessivo dei distretti industriali è
risultato essere pari al 21.8%, in particolare quote superiori ai due terzi delle
esportazioni nazionali si sono registrate per articoli sportivi, cuoio, piastrelle, calzature
e tessuti. Il “Rapporto Annuale”, stilato dall’Istat nel 1998 ha confermato che la
percentuale del core distrettuale è coincisa col 21.1 %, dimostrando la stabilità della
stessa nel tempo e quindi un certo radicamento delle produzioni sia nella struttura
produttiva del nostro paese, sia più indirettamente, nel contesto internazionale (Istat,
1998).
A dimostrazione di quanto detto è presentata la seguente tabella 1.1, riportante i
dati relativi all’espansione della produzione dei distretti negli anni ’90.
Tabella 1.1: Contributo del “made in Italy distrettuale” alle esportazioni nazionali di manufatti.
1985 21,10%
1986 21,20%
1987 21,50%
1988 21,20%
1989 20,90%
1990 21,00%
1991 21,10%
1992 21,50%
1993 22,40%
1994 22,40%
1995 21,50%
1996 21,80%
1997 21,80%
1998 21,10%
1999 21,40%
6
Contributo del "Made in Italy distrettuale" alle
esportazioni nazionali di manufatti
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
Fonte: Elaborazione Ministero del Commercio estero su dati Istat (1998).
L’immagine sottesa è quella di un processo capitalistico, imbrigliato in una
struttura produttiva e sociale, il distretto industriale, appunto, che obbliga
l’accumulazione del capitale a trascinarsi dietro in un processo di “incivilimento” gran
parte delle componenti della comunità locale; così facendo il distretto realizza un
cambiamento della sua interna riproduzione sociale, mantenendo inalterata la propria
identità. In altri termini il cambiamento tecnologico, dovuto ad un progresso sempre più
incalzante viene gradualmente interiorizzato. Ed è in questo clima speciale, che le
piccole e medie imprese diventano la principale sorgente dell’economia italiana,
l’ossatura di un vero e proprio modo alternativo di disegnare i caratteri dello sviluppo
economico (Brusco, 1987).
7
1.3 La fioritura dei distretti industriali
Le circostanze
Numerose sono state le cause dell’imprevista fioritura postbellica dei distretti
industriali, parte di esse sono da ritrovare:
a) nell’aumento notevole e continuo delle possibilità di collocamento di
beni di consumo sui mercati di paesi, che avevano realizzato un aumento
sensibile e continuo del loro Pil pro-capite;
b) nell’incapacità, per cause diverse, da un lato dei paesi che avevano
sperimentato un’industrializzazione classica e dall’altro dei paesi
civilmente arretrati, di rispondere a quel particolare tipo di bisogni;
c) nel fatto che l’Italia avesse conservato ancora, alla fine della seconda
guerra mondiale, in alcune sue zone, la “complessità socioeconomica”
(ad esempio coesistenza di forme produttive usualmente ascritte a stadi
diversi dello sviluppo industriale, come la fabbrica, il laboratorio
artigiano, il lavoro a domicilio) tipica della fase storica antecedente alla
rivoluzione industriale (Becattini, 2000).
Con la miriade di piccole e piccolissime imprese manifatturiere, “immerse” e
“ancorate” alle società locali di una parte del paese (principalmente l’Italia Terza)
l’Italia ha approfittato egregiamente dei “diradamenti di concorrenza” prodottisi qua e
là, sul mercato mondiale a causa della ricordata crescita del reddito pro-capite e del
contemporaneo sconvolgimento di costumi ed idee. Conquistate posizioni di
preminenza, i cosiddetti “vantaggi competitivi” nel contesto internazionale di tutta una
serie di produzioni (tessile, abbigliamento, calzature, mobili, gioielli) i produttori
esportatori italiani le hanno poi conservate e consolidate con una prassi di intensa
concorrenza innovativa sulle caratteristiche soprattutto estetiche, ma anche funzionali
del prodotto (Porter, 1991). Infatti in un mercato mondiale, in cui dilagano i processi di
saturazione rapida della domanda di ogni tipo di prodotto, non è più solo importante
essere produttivi, ma anche innovativi e l'innovatività non dipende dagli apporti di
capitale e dal progresso tecnologico, bensì dalle conoscenze, dalle attitudini degli
8
imprenditori, dei lavoratori e dei collaboratori, diverse sicuramente dalle conoscenze
puramente scientifiche, puramente tecniche, e da disposizioni culturali diverse da quelle
prodotte dal sistema di fabbrica.
Ed è questo connubio fra apparato produttivo e comunità la base stabile del
distretto, di questa, “entità socio territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva in
un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una
comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali” ( Becattini, 2000, pag.
97). Ed è tale integrazione tra sistema delle imprese e retroterra sottostante, “il millieu
locale”, che fornisce all’organizzazione produttiva alcuni input essenziali, quali il
lavoro, l’imprenditorialità, le infrastrutture materiali ed immateriali, la cultura sociale e
l’organizzazione istituzionale; perché produrre non significa soltanto trasformare un
insieme di input in un output, ma significa anche riprodurre i presupposti materiali ed
umani da cui prende avvio il processo produttivo stesso; un processo produttivo, infatti,
dovrebbe coprodurre insieme alle merci, anche i valori, le conoscenze, le istituzioni e
l’ambiente naturale che servono a perpetuarlo. Nella cosiddetta “fioritura della piccola
impresa” convergono dunque processi di diversa origine: da un lato la tendenza ad una
dis-integrazione verticale della grande impresa, alla ricerca di una responsabilizzazione
più diretta dei dipendenti e dei collaboratori; dall’altro la tendenza di numerosi
lavoratori a mettere a frutto le loro conoscenze produttive ed il loro generale saper fare
per tentare la via del piccolo business. Insomma, una sorta di grande, pacifica, ma
indolore rivoluzione sociale dal basso, che sbocca in definitiva, oltre che in un
cambiamento profondo degli equilibri produttivi, in ampi rinnovamenti del panorama
culturale della stessa classe dirigente, nonché di tutti i lavoratori (Rullani, Romano,
1998). E questi due elementi: divisione del lavoro ed in particolare apprendimento e
propagazione della conoscenza hanno permesso ai distretti di divenire il motore della
economia italiana; il distretto è cresciuto, perché ciascuno dei suoi componenti non
riuscendo a trattenere le proprie conoscenze ha cercato di compensare “questa perdita”
con lo stesso metodo: copiando, imitando, imparando dagli altri il più possibile, perché
“la singola ape non ha bisogno di essere sapiente in tutto e per tutto, se il sapere è
diffuso e si moltiplica nell’alveare”. Quello, che con grandi sforzi organizzativi, la
grande impresa ha cercato di ottenere da una complessa gerarchia di poteri e di
programmi, nei distretti è cresciuto spontaneamente sulla base dello scambio
9
interpersonale in parte volontario ed in parte involontario, ma ugualmente importante
(Rullani, 2003).
1.4 Caratteristiche dei distretti industriali
1.4.1 La nuova organizzazione del lavoro
Focalizzata l’attenzione sulle origini dei distretti è necessario a tal punto
analizzare i tratti peculiari di questi sistemi locali. Una delle prime caratteristiche della
forma organizzativa distrettuale è da ritrovare nella tendenza ad una suddivisione
crescente del processo di produzione centrale del distretto, e poi di tutti quelli
appartenenti alla sua filiera, in fasi distinte, operate normalmente in impianti distinti da
imprese distinte. Tale divisione del lavoro è indispensabile per due ordini di ragioni:
innanzitutto, perché lo specializzarsi delle imprese distrettuali in una specifica fase di
produzione permette loro di raggiungere elevati livelli di flessibilità e di produttività; in
secondo luogo, perché solo tale organizzazione del lavoro può consentire che la fusione
tra processo produttivo e vita quotidiana si realizzi con adeguata “pervasività”. E’ in
virtù di essa infatti che i “ritagli” di tempo, di conoscenze, di energie lavorative che la
stessa comunità produce, trovano nel processo produttivo “in marcia” i diradamenti di
concorrenza in cui infiltrarsi; senza di essa quei ritagli a disposizione degli agenti del
distretto rimarrebbero sprechi di tempo e di capacità produttive. Diversamente il
processo produttivo di un distretto in espansione offre a tali conoscenze, energie la
possibilità di monetizzarsi, trasformandoli in beni e servizi da collocare sul mercato
(Signorini, 2000).
Questo è, nella sua essenza, il distretto industriale: un vortice socio - economico,
“una specie di piccola rivoluzione industriale” la cui energia trasformatrice viene
imprigionata dentro una forma che, da un lato, produce prodotti che si vendono e
dall’altro, riproduce le fondamentali relazioni socioculturali del luogo (Becattini, 2000).
Con il tempo, infatti, si è andata diffondendo l’idea che la “struttura” di una industria
costituisce non un dato, bensì una variabile dipendente da fattori suscettibili di variare
almeno in un certo grado sulla spinta di mutamenti esogeni e che quindi i “rapporti tra
10
le imprese” che costituiscono l’industria tendono a modificarsi, talora anche molto
rapidamente .
Alla fine degli anni Settanta domina l’idea che i primi significativi fenomeni di
divisione del lavoro tra imprese hanno rappresentato essenzialmente una risposta ai
mutamenti dei prezzi relativi a fattori della produzione (lavoro e capitale) e, in
particolare, reazioni a fenomeni di contrazione dei profitti. Diversamente a partire
dall’inizio degli anni Ottanta avanzano le ipotesi che assumono, come sfondo
dell’analisi, situazioni di crescita ove il problema della ripartizione del reddito appare
secondario e ove la frammentazione dei cicli appare compatibile con la crescita dei
settori (Nuti, 2000). In realtà l’idea che a variazioni dei prezzi dei fattori (in ipotesi:
lavoro e capitale) abbiano fatto riscontro gradi differenti di integrazione all’interno delle
medesime organizzazioni sembra rappresentare una risposta agli stimoli indotti sulle
strutture produttive da periodi prolungati di crescita della domanda; stimoli che vanno
intesi come introduzione di tecniche già note, tali da consentire cospicui incrementi di
produttività e da permettere una divisione funzionale dei compiti all’interno dei cicli
produttivi dei singoli settori attraverso la nascita di imprese specializzate che,
indipendentemente dal settore considerato, hanno proposto un più intenso sfruttamento
delle conoscenze disponibili.
Un’illustrazione di questa ipotesi può essere fornita dal ciclo conciario e dalle
trasformazioni che esso subì in un distretto quale S. Croce sull’Arno. Negli anni
Settanta, l’introduzione della concia al cromo (già nota fin dagli anni Trenta),
determinando un vistosissimo aumento della produttività oraria, favorì la separazione
delle concerie vere e proprie, dove si svolgevano le operazioni chimiche (relativamente
lente), dalle attività meccaniche che potevano lavorare un numero di pelli per ora molto
superiore. Tali macchine, se introdotte nelle concerie, avrebbero costretto quest’ultime a
dimensionarsi su livelli di attività molto alti e quindi a compiere cospicui investimenti
in capitale fisso: dati i vincoli esistenti alla disponibilità di capitale delle imprese, la
soluzione che massimizzava la produttività aziendale passava per il decentramento delle
lavorazioni meccaniche (Nuti, 2000). Decentramento che ha assunto, nel corso del
tempo, una duplice forma: divisione orizzontale e divisione verticale del lavoro, forme
corrispondenti rispettivamente a decentramento di “capacità” e di “specialità”. In
11
particolare, una frammentazione del ciclo produttivo in senso orizzontale risponde
all’esigenza di ampliare la capacità produttiva di un’industria, diversamente la
scomposizione verticale implica una ben più radicale definizione dei compiti delle
singole imprese. In entrambe le ipotesi si postula la necessità di rapporti relativamente
stabili fra impresa leader e sub-fornitori, soprattutto quando la tempestività della
esecuzione di una commessa acquista importanza rilevante; un incremento nei livelli di
attività tende infatti a determinare la nascita di nuove imprese, che sono tuttavia
necessarie al soddisfacimento della domanda dei committenti e che, nell’interesse dello
stesso committente, devono cercare di superare le fasi di congiuntura negativa per poter
essere utilizzate nella nuova fase di espansione. Tali adattamenti che si manifestano in
risposta a cambiamenti nel livello di attività oppure a mere esigenze di diversificazione
di prodotto si esprimono soprattutto nel breve periodo, attraverso la nascita o la morte di
unità marginali, o attraverso l’allargamento del capitale esistente presso ciascuna
impresa. Buona parte della realtà dei distretti “recenti” indagata a partire dalla metà
degli anni Settanta rientra in questa categoria, tuttavia la tendenza delle imprese a
concentrarsi in segmenti del ciclo a valore aggiunto sempre più alto, eliminando fasi di
lavorazione “povere”, può rappresentare un’ipotesi di mutamento anche nell’assetto di
lungo periodo di un sistema produttivo (Nuti, 2000).
1.4.2 La spirale cognitiva
Un’altra importante peculiarità dei distretti industriali riguarda il modo in cui
l’economia del sistema delle imprese si integra col (e trae alimento dal) suo retroterra
ambientale. E’ il milieu locale, infatti, punto di arrivo di una storia naturale ed umana,
che fornisce all’organizzazione produttiva alcuni input essenziali, come il lavoro,
l’imprenditorialità, le infrastrutture materiali ed immateriali, la cultura sociale e
l’organizzazione istituzionale. La chiave di lettura territoriale rende in questo modo
visibile la natura circolare, o piuttosto spiraliforme e composita, del processo di
produzione: produrre non significa soltanto trasformare un insieme di input (dati) in un
output (prodotto finito) secondo procedimenti tecnici, ma significa anche riprodurre i
presupposti materiali ed umani da cui prende avvio il processo produttivo stesso
(Rullani, Becattini, 1993). La produzione delle merci include la riproduzione sociale
12
dell’organismo produttivo: un processo produttivo veramente “completo” dovrebbe
coprodurre, insieme alle merci, i valori, le conoscenze, le istituzioni e l’ambiente
naturale che servono a perpetuarlo. La specificità e rilevanza teorica del contesto locale
rispetto ad ogni altro tipo di contesto sta dunque nell’opportunità che esso offre di
esaminare in vivo la produzione come fenomeno circolare che mette in “relazione
intima” gli aspetti tecnici o economici (in senso stretto) con quelli sociali, culturali ed
istituzionali. Ricondurre la produzione ai luoghi in cui essa si svolge e ai gruppi umani
che su di essi insistono, significa dunque ricondurre gli schemi teorici che la
interpretano all’idea di processo produttivo completo, comprensivo cioè di tutte le
attività che sono necessarie per riprodurre i presupposti, materiali e umani della
produzione stessa (Becattini, 2000).
Analizzare il modo in cui la produzione di beni e servizi si integra, in forme
territorialmente differenziate, con il suo retroterra socio-culturale, non significa solo
cogliere staticamente le differenze di morfologia territoriale, di cultura (valori e
conoscenze) o di istituzioni prodotte dalla storia e i loro effetti, diretti e immediati, sulla
produttività dei processi economici, molti contesti locali - quelli che presentano natura
sistemica - non sono infatti dei meri “contenitori” di varietà storiche, ma costituiscono
dei veri e propri laboratori cognitivi, in cui nuove varietà vengono continuamente
sperimentate, selezionate e conservate. Insomma il sistema locale è, insieme e
congiuntamente, un luogo di accumulazione di esperienze produttive e di vita e un
luogo di produzione di nuova conoscenza; nonché di integrazione di conoscenza
esplicita (anche detta “codificata”) e di conoscenza tacita (definita “contestuale”)
(Rullani, Becattini, 1993). La civiltà industriale moderna e contemporanea si regge su di
un incessante processo di conversione di conoscenza codificata in conoscenza
contestuale e viceversa. La conoscenza impiegata nella produzione, infatti, non è un
dato, ma viene continuamente rielaborata ed accresciuta mediante una molteplicità di
processi di apprendimento, alcuni dei quali hanno natura localizzata, mentre altri sono
meno legati ai luoghi in cui la conoscenza è stata prodotta o utilizzata.
13
1.4.3 Conoscenza codificata e conoscenza contestuale
Dall’analisi appena condotta appare evidente che nel determinare lo sviluppo,
prima ancora dell’accumulazione del capitale, il fattore decisivo è rappresentato dal
sapere, nelle sue varie forme: la conoscenza scientifica e tecnica ed il saper fare degli
uomini. Legata com’è alla memoria ed all’interpretazione personale questo secondo tipo
di conoscenza resta essenzialmente tacita ed informale e può essere socializzata
direttamente solo mediante processi lunghi e costosi di condivisione del contesto.
Nel dettaglio, le sfere di conoscenza individuate da Becattini e Rullani (1995)
sono:
ξ la conoscenza codificata, che si scambia col linguaggio scientifico e tecnico;
ξ il sapere locale, incorporato nell’intelligenza, nella fantasia e nell’abilità di
uomini che vivono vicini, si scambiano notizie ed esperienze, lavorano insieme.
Questa conoscenza si diffonde attraverso il fare ed il veder fare, attraverso le
chiacchiere informali, ed usa un linguaggio ricco di locuzioni, spesso giocato su
metafore o riferimenti che non hanno alcun valore fuori dall’area d’uso in cui il
linguaggio stesso è stato elaborato. E soprattutto, questo sapere non può che
essere radicato su un’area specifica, dove gli uomini sono legati da una storia e
da valori comuni, dove codici di comportamento, stili di vita, percorsi di lavoro,
aspettative si mischiano inestricabilmente con l’attività produttiva.
Il punto chiave è che né l’uno né l’altro tipo di conoscenza sono capaci, presi
isolatamente, di porsi come fondamento di un sistema produttivo vitale. Tradurre la
conoscenza codificata, quella dei libri e degli scienziati in prodotti che abbiano successo
sul mercato è assai difficile. Il sapere locale, dal canto suo, se non si alimenta della
conoscenza codificata perde rapidamente la sua capacità di incidere significativamente
sui mercati. L’integrazione tra i due avviene in un’area specifica, percorsa e segnata da
istituzioni, valori, codici e speranze (Becattini, 2000). I sistemi economici che hanno
successo sono dunque quelli in cui le due sfere di conoscenza interagiscono di continuo
fra di loro, l’una incrementando l’altra; e la capacità di integrare le due forme di
conoscenza è strettamente connessa con il “sapere tacito” che guida il modo di lavorare
degli uomini impegnati nei processi produttivi. Dunque la conoscenza contestuale si
14
qualifica sia come espressione specifica dell’ambiente socio-culturale in cui l’impresa è
radicata, sia come conoscenza direttamente riferibile al contributo del lavoro umano;
mentre la conoscenza codificata si qualifica come un insieme anonimo di nozioni
trasferibili anche in contesti diversi attraverso linguaggi specifici condivisi.
Il distretto, quindi, può essere letto come quel nodo di istituzioni, valori e saperi
ancorati ad una comunità, una storia ed un territorio, che riesce ad avere colloquio con il
sistema della conoscenza codificata (Becattini, Rullani, 1995). Esso, se ne deduce, è
vitale solo se opera sul mercato globale ed è connesso in modo forte con la comunità
scientifica e tecnica; il distretto infatti non ha certo la capacità strategica delle grandi
imprese multinazionali di progettare interventi coordinati sul mercato mondiale, e non
ha neppure la capacità di innovazione che identifica i grandi centri di ricerca pubblici o
privati del capitalismo occidentale. Eppure, quando funzionano risolvono un problema
che le imprese maggiori non riescono a risolvere: coinvolgere nel processo produttivo
almeno una parte delle energie e delle capacità che altrove è lasciata fuori gioco. Il
fulcro della produzione è “il sistema produttivo completo”, capace di riprodurre non
solo il capitale (il lavoro morto, come diceva Marx), ma anche il lavoro vivo, e le
istituzioni, la cultura ed i valori in cui il lavoro vivo opera. Il punto decisivo è che
cambia il destinatario, l’obiettivo delle politiche, il riferimento non è più l’impresa, ma
la comunità e le diverse e specifiche comunità a livello nazionale o locale. E non è più
nemmeno il lavoratore o il dirigente o l’imprenditore, ma un uomo intero, fatto di
lavoro, relazioni con gli altri, rapporti con i figli, esperienze e speranze. Diventa
decisivo in questa prospettiva, il lavoro di costruzione di tutte quelle strutture ed
istituzioni che possono garantire e rafforzare i collegamenti e le interazioni tra sistemi
locali e conoscenza codificata e che possono migliorare la qualità del vivere civile, da
cui dipendono produttività e competitività sui mercati (Vaccà, 1995).
1.4.4 L’integrazione versatile
Come già sottolineato lo sviluppo della produzione industriale, fondato sulla
divisione del lavoro e sull’apprendimento specializzato, richiede che una parte della
conoscenza locale venga de-contestualizzata e convertita in qualche sorta di codice
astratto.
15
E’ questo un processo particolarmente complesso, che passa attraverso l’uso
creativo di metafore ed analogie, che sono veicoli particolarmente efficienti delle
esperienze personali, in ambienti culturali omogenei, come può essere il distretto
industriale. Si tratta degli stessi ambienti in cui è particolarmente facile la
socializzazione della conoscenza tacita maturata nell’attività produttiva. Ma il processo
di produzione di nuova conoscenza non potrebbe riprodursi a livello locale se non
esistesse un meccanismo che consente di sposare la conoscenza esplicita, codificata che
circola nella rete globale, con la conoscenza tacita, contestuale del singolo sistema
locale. Questo meccanismo, che è poi l’applicazione del sapere scientifico e tecnologico
alla risoluzione dei problemi della vita e dell’industria, ha un ruolo essenziale nella
generazione dei vantaggi competitivi, in quanto dal suo esito dipende la sopravvivenza e
lo sviluppo delle imprese che costituiscono il sistema locale (Bruni, 2000).
Si attiva così un processo di integrazione tra le due sfere cognitive: quella locale,
legata al contesto e quella globale, legata ai codici; integrazione che può realizzarsi
attraverso (Becattini, Rullani,1993):
1. codici tecnologici, se la conoscenza viene incorporata in merci (materiali,
macchine, componenti, prodotti finiti) e trasferita con esse;
2. codici organizzativi, se la conoscenza fluisce da un luogo all’altro all’interno di
una stessa organizzazione, grazie agli elementi di omogeneità garantiti dalla
condivisione di uno stesso potere gerarchico e di una stessa cultura
organizzativa;
3. codici comunicativi, se la conoscenza si trasmette per interazione comunicativa,
mediata da linguaggi comuni e standard condivisi.
Lo sviluppo dei diversi codici che permettono di trasferire la conoscenza
costituisce una parte importante dell’evoluzione dell’organizzazione economica; dai
codici tecnologici iscritti nelle macchine, che hanno segnato lo sviluppo del capitalismo
del secolo scorso si è passati ai codici organizzativi che hanno caratterizzato la lunga
parabola del fordismo, ed infine ai codici comunicativi che contraddistinguono il nuovo
paradigma emergente, post-fordista (Rullani, 2002). Tra conoscenze trasferibili e
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contestuali deve dunque stabilirsi un rapporto di reciproca integrazione, una sorta di
integrazione versatile, processo che in parte riposa sulla capacità di esplorare varianti,
di adattare conoscenze, di imparare dal contesto di uso e di generalizzare i risultati,
proprie della tecnologia e dell’organizzazione avanzate. Ma in parte non secondaria, e
via via sempre più importante, esso dovrà essere assicurato dall’interscambio di idee e
dalla comunicazione personalizzata, che si realizza nei sistemi locali tra uomini e gruppi
che hanno sviluppato una speciale attitudine a mediare creativamente tra codici
astrattivi e contesti locali di esperienza (Beccattini, 1989).
Una prima forma di integrazione versatile è quella offerta dagli uomini e dalle
tecniche della progettazione tecnologica di macchine e manufatti, da essere impiegati
come veicolo di trasferimento della conoscenza. Il problema chiave che ogni progetto di
macchina o prodotto deve risolvere è quello di fare in modo che uno schema astratto,
invariato possa funzionare in contesti operativi differenti. La progettazione è sempre un
esercizio di immaginazione pluri-contestuale: essa non può riguardare solo il core della
macchina, ma anche e soprattutto l’interfaccia che regola il rapporto del core invariato
con un ambiente di uso vario e variabile (Simon, 1981). Laddove non arriva la capacità
di integrazione versatile offerta dalla tecnologia, può arrivare l’organizzazione.
Nell’impresa fordista, ad esempio, il processo di integrazione cognitiva assume la forma
dell’ “organizzazione scientifica del lavoro” con i suoi uffici centrali, le sue procedure, i
suoi mezzi di pianificazione e di controllo. E’ l’organizzazione che fa da interfaccia tra
le esigenze astrattive della standardizzazione delle operazioni produttive e quelle pluri-
contestuali del management operativo, il quale deve governare specifici e differenziati
contesti di lavoro (Di Bernardo e Rullani, 1990). Nelle condizioni post-fordiste, accanto
all’integrazione tecnologica ed a quella organizzativa, si pone – in un ruolo decisivo –
l’integrazione realizzata mediante comunicazione e relazioni tra una pluralità di attori
autonomi, portatori di esigenze relative a contesti operativi differenti. Anche all’interno
dell’impresa, la funzione di integrazione cognitiva cessa di essere un attributo esclusivo
del centro e si diffonde per l’organizzazione arrivando fino alle singole unità operative
(Di Bernardo, Rullani, 1991).
Integrazione tecnologica, organizzativa e comunicativa non riposano, dunque,
solo sull’efficienza dei codici che sono impiegati dai progettisti di macchine, dai tecnici
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