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l’evoluzione delle pratiche neocorporative in esso riscontrabili, e insieme l’evoluzione
di quelli che sono i singoli attori coinvolti nel processo, oltre ai rapporti di forza e ai
condizionamenti vicendevoli intercorrenti tra loro. A partire da tale andamento storico,
si cercherà quindi di trarre quelli che sembreranno i punti salienti di contatto ed
influenza con il sistema politico, che avrebbero determinato in larga parte l’evoluzione
peculiare della “concertazione all’italiana”.
A questo scopo sarà effettuata innanzitutto una ricognizione critica degli studi e
delle analisi empiriche condotte da studiosi del settore, ivi comprese le indagini
realizzate in campi disciplinari contigui alla scienza politica, con particolare riferimento
all’ambito storico-sociologico. Si utilizzeranno inoltre documenti diretti, quali i testi
stessi di alcuni accordi triangolari particolarmente rilevanti, brani tratti da interviste a
leaders sindacali, e una relazione di un’assemblea del CNEL dedicata all’argomento in
questione.
La prima parte sarà dedicata ai caratteri generali del neocorporativismo. In
particolare il capitolo I tratterà del modello in quanto approccio scientifico. Dopo aver
delineato quali siano i presupposti storici, economici e politici che portarono
all’affermarsi degli studi in questa direzione, si cercherà di concettualizzare
sinteticamente che cosa si intenda per neocorporativismo, a partire da alcune note
definizioni date dai rappresentanti più significativi all’interno dell’approccio. Nello
specifico si tracceranno le differenze con quello che è considerato l’orientamento cui il
neocorporativismo si contrappone nell’analisi empirica dei regimi democratici, vale a
dire il pluralismo, e si cercherà di dare una panoramica dei principali criteri usati dai
vari studiosi per intendere il fenomeno. Il secondo capitolo sarà dedicato agli elementi
delle strutture neocorporative (sindacati, governi ed organizzazioni datoriali), dei quali
si tenterà di delineare il ruolo all’interno del modello, anche a seconda di variabili
storiche, organizzative ed ideologiche. Il terzo capitolo, infine, si occuperà
dell’andamento storico delle politiche concertative in prospettiva comparata, guardando
alle differenti risposte nazionali alle comuni sfide, poste dall’economia, nei tre periodi
generalmente adottati per segnare delle cesure nello sviluppo dei patti triangolari a
livello europeo: il momento d’oro degli anni ’70, la crisi degli anni ’80, la riscoperta
degli anni ’90.
La seconda parte considererà invece l’evoluzione delle strutture della
concertazione in Italia. Utilizzando una prospettiva diacronica, si cercherà di dare un
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resoconto di quelli che sono i principali eventi e mutamenti di ogni periodo del tema in
questione, riportandone insieme l’analisi che ne hanno fatto i vari studiosi e iniziando a
far risaltare i legami che questi hanno con le vicende politiche ad essi contemporanee.
Ne scaturiranno così tre periodizzazioni principali, che conterrebbero al proprio interno
caratteristiche similari: dopoguerra e ricostruzione (1945-1960), in cui andarono
delineandosi i caratteri politici ed organizzativi che avrebbero influito, in seguito,
sull’andamento delle relazioni industriali; il periodo 1960-1992, nel quale gli scarsi
tentativi di concertazione, dovuti forse alla peculiare struttura della “Prima Repubblica”,
presero la forma di politica dei redditi; la fase 1992-2001, in cui si sviluppò la vera età
dei patti sociali nel nostro paese, in concomitanza con l’avvento della “Seconda
Repubblica”.
All’interno di tali intervalli saranno individuate ulteriori sotto-cesure, che
sarebbero riconducibili in larga parte proprio ai condizionamenti provenienti dal sistema
politico, i quali si tenterà di enucleare nella terza ed ultima parte. In particolare si
considereranno: la politicizzazione delle parti sociali, in particolar modo dei sindacati
confederali, e come il loro “collateralismo” nei confronti dei partiti politici abbia
influito sulla partecipazione agli accordi; il singolare sistema partitico vigente in Italia
nel corso della “Prima Repubblica”, guardando nello specifico all’esclusione dal potere
del principale partito della classe operaia, ed ai riflessi di una simile situazione sul
conflitto industriale; la sostanziale mancanza di stabilità degli esecutivi nella storia
politica del nostro paese, e quindi l’incidenza delle regole elettorali sulla coerenza e
continuità della c.d. “domanda di concertazione”, e sul grado di fiducia dei sindacati nei
confronti dell’attore governativo.
Da ultimo, ci si porrà il quesito se le eventuali differenze, a livello politico,
esistenti fra “Prima” e “Seconda Repubblica”, si possano essere in qualche modo
riversate, alla luce di quanto detto precedentemente, in differenze anche per quanto
attiene alla sfera delle intese di stampo neocorporativo. Si rileverà così un’attitudine
degli studiosi a considerare il primo periodo, caratterizzato dall’egemonia del centrismo
e da una logica partitocratrica e spartitoria, come favorevole ad un intervento dei gruppi
funzionali più in direzione di un’attività di lobbying pluralistico, mentre il periodo
seguito alla crisi di inizio anni ’90 verrebbe visto come un terreno più fertile per il pieno
dispiegarsi di pratiche di concertazione.
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PARTE I
CARATTERI GENERALI DEL
NEOCORPORATIVISMO
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CAPITOLO I
IL MODELLO NEOCORPORATIVO
Le premesse economiche e politiche
Mentre gli anni ’60 giungevano al termine, con essi erano destinate al lasciare il
campo anche le condizioni che avevano fatto parlare di “anni della crescita”, per riferirsi
al periodo comprendente i due decenni postbellici. A partire dal 1968, vennero meno,
più o meno progressivamente, tutti i pilastri di quello che era il connubio fra stato
sociale keynesiano a livello macro e fordismo-taylorismo a livello micro, creando le
premesse per un sostanziale rivolgimento delle strutture di organizzazione degli
interessi, e delle stesse procedure di policy making.
Tutta una serie di sintomi rimisero in discussione il processo di stabilizzazione
economica dei paesi capitalistici avanzati, basato su politiche keynesiane di sostegno
alla domanda ormai generalmente riconosciute. Tali politiche avevano trovato conferma
della loro efficacia anche in analisi empiriche come quella pubblicata nel 1959 da A.W.
Phillips, che aveva mostrato l’esistenza di correlazione inversa tra inflazione misurata
sui salari e disoccupazione [Palmerio 2003]. Tale trade-off, espresso nella c.d. curva di
Phillips, sembrava offrire ai governi una semplice scelta di politica economica:
raggiungere un minor tasso di disoccupazione al costo di aumentare l’inflazione, e
viceversa. Tutto ciò venne meno a partire dal 1966 circa, quando cominciarono a
manifestarsi fenomeni di contemporanea crescita di inflazione e disoccupazione
(stagflazione).
Regini [1991] attribuisce l’origine di tale fenomeno, oltre a vari elementi
congiunturali (saturazione del mercato dei beni di produzione di massa, concorrenza dei
paesi di nuova industrializzazione, crisi petrolifere e abbandono del sistema di cambi
fissi), a due “effetti perversi” strutturali del welfare state keynesiano. Il primo è legato
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al raggiungimento della piena occupazione, dopo che la forte crescita del periodo
precedente aveva assorbito l’ingente massa di manodopera a basso costo proveniente
dall’agricoltura. Gli imprenditori si trovarono a non poter più contare sulla minaccia
dell’“esercito di riserva” per tenere bassi i salari, e le organizzazioni dei lavoratori
poterono sfruttare il loro maggior potere di mercato, la loro nuova capacità di
danneggiare gli interessi del capitale [Lange 1979a], per negoziare aumenti salariali.
Questo anche perché coloro che erano entrati a far parte stabile della classe operaia
videro inasprirsi, a causa delle mutate condizioni, l’atteggiamento datoriale nei loro
confronti, proprio nel momento in cui andavano maturando nuove domande di
riconoscimento politico [Crouch e Pizzorno 1977; Soskice 1977].
L’altro “effetto perverso” furono le crescenti difficoltà dei governi a tenere sotto
controllo la spesa pubblica. Keynes riteneva che l’intervento statale in economia
avrebbe dovuto essere svolto da élites burocratiche competenti e votate all’interesse
pubblico, ma in realtà il controllo della spesa sociale entrò sempre più a far parte dei
criteri di legittimazione e consenso delle democrazie capitalistiche [Habermas; Offe, cit.
in Martinelli 1994b]. Mentre sul primo versante, quindi, le responsabilità delle spinte
inflazionistiche ricadevano sui sindacati, in questo caso facevano capo alle politiche dei
governi. I due fattori avrebbero la stessa radice nel conflitto distributivo dovuto alle
crescenti domande immesse nel sistema politico, a causa della «delegittimazione delle
esistenti disuguaglianze sociali» e di «un cambiamento nei differenziali di potere a
vantaggio del lavoro organizzato» [Goldthorpe 1983, p. 53]. Ciò dovrebbe essere causa
anche dell’effetto perverso di natura governativa, in quanto questo sembrerebbe dovuto
non alla ricerca politica di consenso elettorale attraverso policies inflattive (output),
come dicono i teorici del ciclo politico-elettorale, ma a fattori istituzionali (input) legati
all’organizzazione del sistema politico (tipo di partiti, regole elettorali…) [Trigilia
2002]. L’inflazione sarebbe quindi conseguenza dell’incapacità del sistema di
rappresentanza di gerarchizzare ed integrare le diverse domande. Esecutivi deboli e con
sovraccarico di domande usavano l’inflazione come soluzione di breve periodo al
conflitto distributivo, ma al costo di dar vita ad una spirale di stagflazione [Lindberg
1982]. A fine anni sessanta si era insomma alla crisi del welfare state, che non riusciva
più far fronte alle domande che il suo sviluppo aveva contribuito a suscitare [Volpi
2000; Crouch e Pizzorno 1977].
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I paesi che risposero in maniera migliore a queste sfide furono quelli scandinavi,
Austria e Germania, in relazione a sistemi di rappresentanza più strutturati tali da
contenere la spirale prezzi-salari e permettere la coesistenza di elevate spese sociali,
bassa disoccupazione e moderata inflazione. Al contrario, in paesi quali Italia e Gran
Bretagna, caratterizzati da un sistema di rappresentanza frammentato e incapace di
fungere da gate-keeper degli interessi (“organizzazione della complessità”) [Chiesi
1994a], gli effetti della stagflazione furono molto peggiori, a fronte di spese sociali
spesso non paragonabili a quelle nord-europee [Bordogna e Provasi 1984]. Fu questa
constatazione che portò, durante gli anni settanta, a una serie di contributi che si
rifacevano, con le opportune differenze, al concetto di neocorporativismo.
Neocorporativismo e pluralismo
Il termine, utilizzato per la prima volta da Schmitter [1974], intende riferirsi
all’incorporazione degli interessi più rappresentativi all’interno delle strutture del policy
making, e fa capo a una serie di teorie che sono uno dei contributi europei più
importanti sia allo studio dei gruppi d’interesse, sia all’analisi empirica dei regimi
democratici [Regonini 2001]. Secondo il modello neocorporativo, per garantire la
stabilità necessaria al sistema politico si sarebbero consolidate, nelle democrazie
capitalistiche, strutture che consentono di mediare tra «le domande conflittuali dei più
importanti interessi organizzati […] (imprenditori e lavoratori dipendenti), basate sul
loro coinvolgimento nella formazione delle politiche e la loro cooptazione nelle
istituzioni pubbliche» [Maraffi 1981b, p. 24].
L’intervento dello Stato in economia aveva spostato la sede decisionale dal
mercato al sistema politico, cioè da un’istituzione neutrale a una in cui, per definizione,
le decisioni sono prese attraverso la negoziazione e la regolazione. Ma mentre
l’intervento statale nel sistema economico aveva già attratto l'attenzione degli studiosi,
verso la metà degli anni settanta si cominciò a cogliere l'altra faccia della medaglia: se
lo Stato aveva ormai assunto un ruolo di istituzione fondamentale nella regolazione
dell'economia, le sue scelte economiche erano diventate a loro volta oggetto di
contrattazione [Regini 2000]. La crisi economica di quegli anni costituiva una spinta per
i governi, allo scopo di creare consenso attorno alle decisioni di politica economica e
sociale, a ricercare il coinvolgimento degli interessi organizzati, in modo da acquisire il
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loro accordo preventivo e scontare in anticipo il loro potere di veto e le possibilità di
conflitto. Il modello implica una supplenza alle procedure parlamentari della
concertazione tripartita tra Stato e organizzazioni di rappresentanza (di datori e
lavoratori), che agiscono nei confronti dei loro membri come “governi privati”. Tali
organizzazioni, oltre a esercitare separatamente la pluralistica pressure politics sul
governo e contrattare con la controparte, concertano con lo Stato le politiche
economiche e sociali. Le rappresentanze degli interessi sono impegnate non solo nella
formazione, ma anche nell’implementazione delle politiche, garantendo per i propri
membri il rispetto delle decisioni. Esiste pertanto una delega di autorità dallo Stato alle
organizzazioni, che vengono ad assumere status semi-pubblico. Questo suona ad
Anderson [1977] come un’ammissione di incapacità dello Stato ad «allocare
imperativamente i valori», dovendosi appoggiare ad organismi esterni; portando
insomma, per dirla con Lowi, gli interessi privati all’interno del processo di governo
[Martinelli 1994b]. Sono le mutate condizioni a imporre ciò:
più lo stato moderno arriva a comportarsi come il garante indispensabile e autorevole del capitalismo
espandendo i suoi compiti di regolazione e integrazione, più esso scopre che ha bisogno di competenze
professionali, informazioni specializzate, aggregazione preventiva delle opinioni, capacità contrattuale e
legittimità partecipatoria differita che possono essere forniti soltanto da monopoli della rappresentanza
unici, gerarchicamente ordinati e guidati in maniera consensuale. Per ottenere ciò lo stato acconsentirà a
trasferire o a dividere con queste associazioni gran parte della sua nuova autorità decisionale, soggetta,
come notava Keynes, “in ultima istanza alla sovranità della democrazia espressa attraverso il Parlamento”
[Schmitter 1974, pp. 68-69].
Nonostante questo, Anderson si chiede se sia possibile legittimare l’autorità
legislativa di interessi potenti e antagonistici al di sopra del consenso popolare. Ma tale
legittimazione verrebbe dalla logica pragmatica del neocorporativismo: cooptare quegli
interessi che sarebbero distruttivi se fossero lasciati liberi di porsi in aperto conflitto, e
la cui collaborazione è essenziale per uno specifico fine pubblico: ottenere pace sociale
al posto di lotta di classe. In proposito Lehmbruch [1977] ha affermato che tra strutture
corporative e istituzioni democratiche vi sarebbe una differenziazione funzionale, in
grado di assorbire un maggior carico di problemi. La rappresentanza funzionale
servirebbe dunque a togliere buona parte dei conflitti sia dai circuiti parlamentari che
dalla piazza.
La creazione di strutture corporative dipende comunque da un livello abbastanza
basso di conflitto, data l’alta soglia di consenso necessario imposta dall’unanimità
essenziale al loro funzionamento. Questo spiega anche perché la politica dei redditi si
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sia rivelata il cuore degli assetti neocorporativi, in quanto richiede la collaborazione
sindacale molto più di quanto avvenga negli altri settori [Panitch 1977].
Il fatto che sia inseribile nelle democrazie liberali, serve a tracciare un solco tra il
neocorporativismo e il corporativismo dei regimi fascisti. Schmitter [1974] distingue tra
corporativismo statale e corporativismo societario. Il primo è caratterizzato da
subordinazione delle sottounità territoriali al potere centrale, partito unico, creazione da
parte dello Stato di corporazioni come organi statali dipendenti, gestite in modo
coercitivo. Il secondo opera invece in sistemi aperti e competitivi, in cui
l’organizzazione viene dal basso, per effetto della capacità della leadership di trovare
consenso nella base, anche se questa è rafforzata dal riconoscimento e sostegno
pubblico [Sola 1996; Offe 1981].
Schmitter vuole però anche separare nettamente il modello dal paradigma
pluralista. La sua definizione vuole essere il negativo di quella di pluralismo. Egli infatti
definisce il pluralismo [Schmitter 1974, p. 55]
come un sistema di rappresentanza degli interessi nel quale le unità costitutive sono organizzate in un
numero non specificato di categorie multiple, volontarie, in competizione tra loro, non ordinate
gerarchicamente e auto-determinate […], che non sono autorizzate in maniera particolare, riconosciute,
sussidiate, create o altrimenti controllate nella selezione della leadership e nell’articolazione degli
interessi da parte dello stato e che non esercitano il monopolio dell’attività di rappresentanza all’interno
delle rispettive categorie.
La sua nota definizione di neocorporativismo recita invece [pp. 52-53]:
Il corporativismo può essere definito come un sistema di rappresentanza degli interessi in cui le unità
costitutive sono organizzate in un numero limitato di categorie uniche, obbligatorie, non in competizione
tra loro, ordinate gerarchicamente e differenziate funzionalmente, riconosciute e autorizzate (se non
create) dallo stato che deliberatamente concede loro il monopolio della rappresentanza all’interno delle
rispettive categorie in cambio dell’osservanza di certi controlli sulla selezione dei loro leaders e
sull’articolazione delle domande e degli appoggi da dare.
Oltre alle differenze nel numero e nelle caratteristiche dei gruppi, mentre
nell’assetto pluralistico lo Stato è un gruppo al pari degli altri, in quello corporativo ha
un suo ruolo autonomo, in quanto è lo Stato a riconoscere le organizzazioni delegando
loro parte delle proprie funzioni pubbliche. Non si tratta di porre, come fa Winkler
[1977], troppa enfasi sul ruolo preminente e direttivo dello Stato, per non incorrere in
confusione con il modello corporativo fascista [Maraffi 1981b], ma riconoscere
un’autonomia allo Stato che era venuta meno nel paradigma pluralista [Ham e Hill
1984].
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In realtà è lo stesso Schmitter [1974] a sottolineare i numerosi presupposti
comuni ai due approcci: importanza dei gruppi di rappresentanza, persistenza di
interessi funzionali potenzialmente in conflitto, importanza dell’oligarchia all’interno
dei gruppi, declino della rappresentanza territoriale e individuale, interpenetrazione dei
campi decisionali privato e pubblico. Lo studioso afferma anche che i due sistemi
possono raggiungere risultati analoghi (moderazione delle domande, soluzioni
negoziate, partecipazione inclusiva, controbilanciamento del potere), ma con rimedi
opposti. Nonostante ciò sarebbe possibile vedere il modello neocorporativo come una
forma di “pluralismo organizzato”, in cui il mercato politico, da concorrenziale, è
divenuto oligopolistico. Sarebbe dunque possibile descrivere i due modelli, nonostante
le resistenze di Schmitter [1983], come i due poli di uno stesso continuum, lungo il
quale collocare le varie esperienze storiche [Allum, cit. in Sola 1996; Maraffi 1981b].
Varietà di definizioni
La definizione di Schmitter, prima ricordata, si riferisce unicamente alla
componente strutturale del modello. Facendo riferimento esclusivamente alle funzioni
di input del sistema infatti, considera il neocorporativismo come una particolare forma
di articolazione degli interessi. Essa precisa soltanto come sia strutturata la
rappresentanza di tali interessi privilegiati, e quali siano le caratteristiche delle
organizzazioni cui tale rappresentanza è affidata, tracciando una descrizione simmetrica
rispetto a quella di pluralismo: proliferazione di piccoli gruppi volontari e poco
strutturati da una parte; oligopolio di gruppi obbligatori, gerarchici, istituzionalizzati,
concentrati e centralizzati dall’altra.
Una simile definizione avrebbe però poco da dire circa i risultati in termini di
output che da una simile configurazione organizzativa hanno avuto origine in Europa a
partire dagli anni ’70. E’ un secondo modello, quello di Lehmbruch [1977], a prendere
in considerazione tali effetti, descrivendo il neocorporativismo come
un modello istituzionalizzato di formazione delle scelte politiche, in cui le grandi organizzazioni degli
interessi collaborano tra loro e con le autorità pubbliche non solo nell’articolazione (o anche nella
‘intermediazione’) degli interessi, ma, nelle sue forme sviluppate, anche nella ‘allocazione imperativa dei
valori’ e nell’attuazione di queste politiche [Lehmbruch 1977, p. 166].
La differenza rispetto al paradigma pluralistico si evidenzia qui non nel maggiore
grado di concentrazione e centralizzazione delle unità, ma nella contrapposizione tra
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lobbying e pressure politics, caratteristiche del processo decisionale in un assetto
pluralistico, e le pratiche di concertazione triangolare tipiche di un sistema corporativo
[Trigilia 2002]. E’ chiaro come il neocorporativismo debba essere l’una e l’altra cosa.
Esso sarebbe dunque un particolare modello di rappresentanza degli interessi (input),
che provoca una particolare modalità di decision making (output). Le due visioni vanno
quindi integrate a formare quella che è la prospettiva più diffusa all’interno del
paradigma.
Fra gli approcci meno diffusi, ma non per questo irrilevanti allo studio del
fenomeno, vanno segnalati:
• quello di Winkler [1977] e Pahl, che definiscono il corporativismo
principalmente come un sistema economico al pari di capitalismo, socialismo o
sindacalismo;
• quello di Offe [1981] e Crouch [1977a], che lo interpretano come una modalità
di depoliticizzazione del conflitto di classe;
• quello di Cawson [1978], che lo descrive come un sistema politico-economico
ponendo l’attenzione su uno Stato forte che interagisce con gruppi altrettanto
forti;
• quello di Jessop, che si spinge a considerarlo addirittura al pari di una vera e
propria forma di Stato, distinta dal parlamentarismo e dal fascismo.
Tutte queste visioni tendono a fare di tale concetto una categoria analitica
onnicomprensiva, contrapposta al capitalismo pluralista. Panitch [1977, pp. 138-139] lo
considera invece non un sistema, quanto
una struttura politica in un sistema capitalistico avanzato che integra gruppi socio-economici organizzati
di produttori attraverso un sistema di rappresentanza e di reciproca interazione e collaborazione a livello
di vertice e di mobilitazione e controllo a livello di massa.
Non contrapposto, quindi, quanto piuttosto un accompagnamento, se non un
prodotto, del capitalismo avanzato. Una struttura politica «parziale nel senso che non
sostituisce la rappresentanza parlamentare, l’amministrazione burocratica e l’attività di
pressione dei gruppi di interesse, bensì coesiste con essi ed è per molti aspetti intrecciata
ad essi. Inoltre non sembra che le strutture politiche corporative si estendano a tutti i
rapporti gruppi di interesse-stato. La loro creazione e il loro funzionamento riguarda
soprattutto la formazione delle politiche economiche e sono le associazioni basate
direttamente sulla divisione sociale del lavoro che entrano a far parte di queste strutture.
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Più specificamente sono le associazioni di interesse del capitale e del lavoro, che
rappresentano direttamente gli attori centrali nell’equilibrio delle forze di classe delle
società capitalistiche avanzate, ad essere gli elementi costitutivi fondamentali, assieme
allo stato, delle strutture politiche corporative» [cit. in Maraffi 1981b, pp. 33-34].
Anche Wolfe, e Cawson e Saunders, concordano nella visione di struttura
politica parziale [Ham e Hill 1984]. Salvati [1982], da parte sua, nota come ciascun
sistema di regolazione dell’economia, compreso il neocorporativismo, conviva con la
sopravvivenza di forme regolative proprie di altri sistemi, quali il pluralismo o il
“decreto” (nel quale, secondo la definizione di Salvati, il governo agisce unilateralmente
e gli interessi rimangono passivi).