7
Bernard Cova, esponente del marketing mediterraneo, mette in evidenza la tendenza del
consumo postmoderno a una sorta di “ri-radicamento” al territorio, attraverso la ricerca di
radici e legami sociali. Quando si parla di marketing, spesso si fa riferimento all’esperienza
nordamericana, ma a molti sfugge che il pubblico U.S.A. ha una tradizione e moventi
all’acquisto differenti dalle popolazioni mediterranee. Il mediterraneo è diverso
dall’americano, non vuole solo la suggestione di un mito da un prodotto, ma anche un
senso d’appartenenza e di comunione. Il marketing tribale indaga proprio questo
atteggiamento, proponendo una strategia di marketing che mira alla creazione di una
comunità intorno a un prodotto o a un servizio. <<L’individuo cerca una comunità di tipo
emozionale per provare sensazioni insieme con altri, in definitiva per essere, non
necessariamente per fare>>
2
. Dunque ha bisogno di sostegni per facilitare e confermare
l’incontro fra i suoi membri nella società post moderna, intesa come un tessuto fatto di “
micro gruppi societari” in cui gli individui stabiliscono forti legami emotivi, esperienze
simili, una “sotto-cultura” comune, una visione del mondo condivisa. Ogni soggetto post
moderno appartiene a tante tribù, all’interno delle quali ricopre ruoli anche molto diversi
fra loro. Bernard Cova parla di questa voglia di comunità, consistente nella necessità di
sentirsi parte di raggruppamenti arcaici che somiglino, appunto, a tribù: <<… non è tanto
importante un legame diretto con il prodotto, quanto un legame con altri individui. Per
fare questo bisogna inventare un legame nel marchio o nel prodotto, e puntare
sull''attenzione alla quotidianità e ai dettagli >>
3
. Dello stesso avviso è Michel Maffesoli
4
,
il più importante fra gli studiosi che hanno inaugurato la riflessione sul concetto di tribù.
Egli sostiene che la nozione di “tribù” non rappresenta un concetto definito,bensì
un’immagine provvisoria,qualcosa di mutevole e trasformabile, un tribalismo che si nutre
di passioni volubili, di situazioni cicliche con l’intensità data proprio dall’essenza effimera
della ciclicità. Contrariamente al marketing “one to one” Americano che usa la relazione
come un mezzo per raggiungere lo scopo - cioè arrivare alla fidelizzazione dell’individuo
riuscendo a proporgli, in ogni periodo della sua vita, i prodotti e i servizi che dovrebbe
apprezzare maggiormente – il marketing mediterraneo, di tipo tribale, fa della relazione il
vero scopo e dell’emozione condivisa il mezzo per giungere a tale scopo. Il consumatore
non è un soggetto totalmente razionale; da questo presupposto partono le più recenti teorie
di marketing che, accantonata la logica “bisogno-acquisto-beneficio” (rispondente solo in
2
Bernard Cova; Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità come valori del Marketing Mediterraneo. Milano, il Sole
24 Ore,2003 ivi p.11
3
Bernard Cova; Au-delà du marché: quand le lien importe plus que le bien, Paris, 1995
4
Maffesoli M.;Il tempo delle tribù: il declino dell'individualismo nelle società postmoderna. Milano, Ed. Guerini e Associati,
2004.
8
parte alla realtà, in un contesto in cui il consumo risponde prevalentemente a necessità
psicologiche), mettono in luce l’aspetto soggettivo e irrazionale del processo d’acquisto.
Tali teorie si appoggiano a molteplici studi che ribadiscono l’importanza del fattore
emotivo nella decisione del consumatore. G. Abbate e U. Ferrero, ad esempio, in
“Emotional assets”
5
fanno riferimento alle ricerche neuroscientifiche che negli ultimi
decenni hanno studiato l’emisfero destro del cervello, e che hanno dimostrato come
nell’animale esistano due modalità di pensiero, l’una razionale (afferente alla parte sinistra
del cervello) e l’altra irrazionale (afferente alla parte destra), distinte ma, quel che è
importante, interagenti. Secondo gli stessi autori, questi studi forniscono un apporto
importante alla ricerca orientata al mercato, poiché consentono di comprendere meglio le
scelte del consumatore e quindi anche di mettere a punto una comunicazione meno
inquinante e più mirata. Il fatto è che la sfida, al giorno d’oggi, non è più quella tra prodotti
- per ciascuna categoria merceologica ne esistono fin troppi di qualità equivalente - ma
quella tra percezioni attorno ai prodotti; ed è allora la comunicazione, che sulle percezioni
lavora, a fare la differenza. Si parla insomma di Marketing Emozionale, che Abbate e
Ferrero definiscono “l’insieme delle forme interpretative della realtà circostante espresse
dalla parte destra del cervello, analizzate attraverso tecniche estremamente raffinate che si
servono dei metodi della psicolinguistica applicata secondo parametri e schemi statistici
costantemente aggiornati e verificati”
6
. Le sensazioni soggettive ed irrazionali che
concorrono al processo d’acquisto, poi, sembrerebbero dipendere dagli stimoli sensoriali
attivati nel consumatore al momento della sua decisione; ne consegue la necessità per
l’azienda di trasmettere gli stimoli sensoriali più adatti a convincere il cliente circa
l’irrinunciabilità e l’insostituibilità del prodotto. Di questo, appunto, si occupa il cosiddetto
Marketing Polisensoriale (definito quindi in relazione al marketing emozionale), che
propone tecniche di vendita e di comunicazione basate sulla sollecitazione strategica di
tutti e cinque i sensi del consumatore. Compito della comunicazione polisensoriale sarà
allora quello di estendere i propri contenuti e le proprie capacità espressive oltre il visivo e
l’uditivo, ottenendo così due vantaggi, ossia dotare il prodotto di un’identità forte, “a tutto
tondo”, e coinvolgere maggiormente il consumatore sia sul piano cognitivo che su quello
passionale. Vengono così adottati nuovi strumenti di marketing, in grado di coinvolgere il
possibile acquirente come individuo, in modo personale e unico. E poiché il consumatore
sposta il proprio comportamento d’acquisto dai bisogni alle emozioni/esperienze, le
imprese – e in particolare i grandi marchi- pianificano un’offerta mirata di iniziative
5
G. Abbate e U. Ferrero; Emotional assets. edito da Finedit, 2007.
6
G. Abbate e U. Ferrero; Emotional assets. edito da Finedit, 2007, ibidem.
9
finalizzate a creare con il probabile acquirente un’interazione sensoriale a 360°,
un’esperienza olistica. E’ l’Experiental Marketing, approccio innovativo teorizzato nel
1999 da Bernd Schmitt
7
(consulente per note aziende internazionali, docente di marketing
alla Columbia Business School di New York e direttore del Center of Global Brand
Leadership), che per la prima volta definisce l’esperienza di consumo del cliente attraverso
aspetti sensoriali (Sense), affettivi (Feel), cognitivi (Think), comportamentali (Act) e
relazionali (Relate). <<Un approccio molto efficace, perché sottolinea quanto sia
importante per le imprese creare e mantenere un legame emotivo tra consumatori e
marchio e, per ottenere questo obiettivo, fare leva sul fattore esperienza>>
8
. L’
Experiental Marketing ( Marketing Esperienziale),quindi, preferisce centrare la propria
attenzione sul contesto d’uso e consumo invece che sui prodotti, sui tipi di esperienza
invece che sugli attributi dei prodotti e si sforza di integrare gli stimoli che i clienti
ricevono in tutti i punti dove si manifesta una forma di contatto con l’azienda. In questo
senso il marketing esperienziale valorizza i processi invece che gli scopi, le relazioni
invece che le gerarchie, le percezioni invece che i dati, i sentimenti invece che il freddo
raziocinio, nella convinzione che un’esperienza positiva può essere in grado di scatenare
un’enorme forza creativa. Queste forme di marketing vengono utilizzate per analizzare i
comportamenti dei consumatori che tendenzialmente, attraverso gli interessi comuni
(valori, rituali, storie, linguaggi, senso di appartenenza
9
), danno vita a forme di comunità,
sub-culture o tribù. Nascono così le “comunità di marca” che esaltano il legame fra
prodotto e ruolo giocato dal consumatore nella sua società. La marca, quindi, diviene
simbolo di questo legame e della comunanza fra i suoi consumatori che, con l’avvento di
internet, con l’ausilio di strumenti come chat, forum e blog si trasformano da semplice
“comunità di pratica” in virtual community nel mondo del web.
7
Ferraresi Mauro - Schmitt Bernd H.; Marketing esperienziale. Come sviluppare l'esperienza di consumo. Milano,
Ed.Franco Angel,i2006.
8
Elisa Scarcella; Attrarre e fidelizzare il consumatore ad una marca attraverso i 5 sensi Il sensory branding, efficace ed
innovativo strumento di experiental marketing,www.eccelere.com,2006.
9
O ‘Guinn T.C., Muniz A.M. jr; “Communal consumption and the brand” e “ Inside consumption :frontiers of research on
consumer motives” , London, Routledge, 2005,pag.252-272.
10
Capitolo 1
Relazione tra marche, consumers e il loro grado di fedeltà
1. Le Brand Community
L’uomo per sua natura ha sempre cercato di organizzarsi in gruppi, in quanto ha capito che
insieme si può crescere, apprendere nuove cose, maturare. Oggi la nostra società è piena di
comunità, organizzazioni che permettono all’uomo di condividere esperienze: basta
pensare alla scuola, al lavoro, allo sport, alla religione. Nasce così, anche sul web, il
concetto di comunità, ovvero un gruppo di persone che scambiano opinioni, esperienze,
impressioni e si aiutano a vicenda per poter maturare. Da ciò evolve il conseguente
sviluppo della web community,che non è altro che una comunità virtuale, che si presenta,
però, molto simile a quella reale. Internet in questo caso non è più una Rete di computer
collegati tra loro, ma una Rete di persone, persone che si trovano davanti a pc. Cosa spinge
i navigatori ad entrare in una community? Semplice: la possibilità di incontrare nuove
persone e crescere. Sulla Rete ormai se ne trovano a decine e anche in Italia non mancano.
Ogni giorno ne nascono di nuove e ognuna è “tematica”, ovvero riunisce un gruppo di
persone con una determinata caratteristica, passione o lavoro. Avere una comunità è, senza
dubbio, per un sito, un ottimo mezzo per fidelizzare gli utenti, per far si che essi tornino
spesso. Il compito del webmaster è quello di far sentire gli appartenenti alla community
tutti amici. Non devono essere semplici iscritti o abbonati, devono partecipare in modo
attivo, si devono sentire protagonisti. Una community può a volte essere oggetto trainante
di un sito. Gli utenti stessi, infatti, in molti casi possono inserire articoli propri, lezioni e
manuali, il tutto in pochi istanti. Per il webmaster e i realizzatori di contenuti del sito, può
significare un grande risparmio di tempo, energie, ma anche economico. Per gli utenti,
invece, inserire un proprio lavoro con due click è molto più semplice che gestire un sito
web, e spesso è anche motivo di gratificazione in quanto vedono un proprio articolo
pubblicato su un sito, magari anche importante. Un ottimo esempio è Studenti.it che senza
dubbio è il punto di riferimento per gli studenti italiani (sia di scuole medie che di
università), dove possono dialogare in chat, scambiarsi tesine, testi, traduzioni, appunti,
cercare persone che si trovano nella stessa città o ancor meglio nella propria scuola. Infine
ci sono dei ritorni economici sia per il webmaster che per gli stessi utenti. Il primo può
contare su una comunità forte e motivata che può, una volta proposto, comprare un
prodotto molto più facilmente di un singolo utente alla ricerca di un “pezzo” su siti di e-
11
commerce. Gli utenti, invece, facendo parte di una community avranno sicuramente prezzi
vantaggiosi, con grandi sconti in quanto il prodotto viene acquistato da un gruppo di
persone e non da un singolo. Inoltre, questi ultimi spesso possono vincere premi e gadget
in base alla loro attività nella comunità. L’aumento della complessità dei mercati, la
presenza di un’utenza sempre più critica ed informata e il sovraffollamento comunicativo
hanno inevitabilmente reso indispensabile l’attuazione di strategie innovative affinché le
marche possano farsi notare e scegliere dagli acquirenti. Il brand rappresenta l’asset
competitivo più importante di cui un’impresa possa disporre. Beni e servizi possono essere
riprodotti, clonati, in tempo reale dai competitor, ma la marca, se è ben realizzata e
soprattutto gestita, non è affatto riproducibile. Il brand può rappresentare un mero elemento
caratterizzante o può diventare uno prodigioso moltiplicatore di valore. La marca si crea
nel tempo come risultato dello sforzo di comunicare un messaggio chiaro ed univoco. Oggi
Internet è diventato uno strumento in grado di offrire molti vantaggi a chi ha la capacità di
usarlo in modo giusto e vantaggioso, a livello di profilazione del cliente, nella
realizzazione di relazioni personali e commerciali, nella promozione della propria brand
image. Le comunità virtuali si configurano per un particolare focus distintivo e
comunicazione interattiva tra brand ed utenti, tanto da instaurare e alimentare relazioni
costanti nel tempo, attraverso la costruzione di forme di dialogo on line. Le aziende
coinvolte in questi agorà virtuali hanno la possibilità di reperire maggiori quantità di
informazioni sui consumatori, soddisfare i vari target, gestire una molteplicità di strumenti
volti alla fidelizzazione del cliente e la riduzione della lunghezza del canale distributivo.
Infatti internet è l’unico luogo in cui l’utente/consumatore può interagire per ore con il
brand prima di fare un acquisto vero e proprio; per questo motivo il successo di una marca
digitale è sempre più legato alla sua abilità nel gestire un legame forte e duraturo con i
clienti, fondato sull’esperienza, che è in grado di offrire e che ha, come traguardo, la
realizzazione di una brand community on line. Le comunità di marca on line permettono al
cliente di poter ricoprire il ruolo di interlocutore attivo e di ispiratore della marca, ma
spesso sono anche viste come fonti informative all’interno dei dialoghi che si sviluppano in
tali forme associative. Molto spesso affiorano bisogni, necessità, spunti che permettono di
comprendere le tendenze emergenti relative al settore di riferimento, tendenze che le
aziende possono poi sfruttare per la realizzazione di nuovi prodotti. Negli anni lo studio di
tale fenomeno ha portato ad individuare due grandi tipologie di brand community on line:
12
ξ brand community created for consumer: cioè costruite per essere messe a disposizione
degli utenti di una determinata azienda. Questo tipo di community si suddivide in due
sottocategorie:
1. il prodotto di marca è l’oggetto principale del flusso comunicativo, legato ad una
visione ancora tradizionale dove è predominante la dimensione commerciale.
2. è una visone più all’ avanguardia dove il prodotto è considerato quasi secondario
agli scambi dialogici nei quali l’oggetto della discussione è definito dagli utenti che
interagiscono.
ξ brand community created by consumer: spazi di interazione che nascono dalla volontà
degli appassionati di una determinata marca.
Per quanto riguarda il panorama italiano, un esempio emblematico è la comunità virtuale
fondata con successo nel 2000 della celebre casa motociclistica Ducati che, in poco tempo,
è diventata in luogo d’incontro dei “ducatisti” di tutto il mondo e, quindi, strumento
efficace per tenere saldo il senso di identificazione con la marca. Oltre agli aspetti
produttivi, la relazione con una comunità virtuale è rilevante anche per l'immagine
dell'impresa che vi si lega, che può verificare la propria brand awareness (capacità dei
consumatori di riconoscere un marchio e di associarlo correttamente a un prodotto) e
mettere in atto strategie e iniziative che contribuiscono a creare e rafforzare quella forza
della marca (brand equity) che nel marketing moderno, non solo è parte integrante del
prodotto, ma addirittura lo anticipa e lo rafforza.
2. Brand Tribe
Dalle tribù di marca si arriva al concetto di Brand Tribe, cioè le comunità di marca, nonché
la comune passione dei consumatori per una determinata marca che si traduce in
competenze che nutrono le tribù virtuali e che le mettono in grado di condurre vere e
proprie azioni di marketing. Queste comunità si creano attorno alle “grandi marche”
fornendo il fine per il quale un consumer spende le proprie energie per l’iniziazione di un
culto e per comprendere i rituali relativi al gruppo affinché possa ricoprire ruoli di maggior
rilevanza all’interno della comunità. Dal punto di vista dell’impresa, la marca è uno
strumento essenziale per fondare le basi per la crescita, attraverso la conquista profittevole
13
dei clienti. La crescita si realizza con la progettazione, la realizzazione e la proposta di
un’offerta capace di attrarre e soddisfare nel tempo il consumatore. L’obiettivo di
attrazione e di fidelizzazione è condiviso da tutti i tipi di attività: della old e della new
economy, per le quali si parla rispettivamente di customer retention (numero percentuale
dei clienti rimasti fedeli a fine anno rispetto quelli che esistevano a inizio anno e ai nuovi
clienti) e di customer affiliation. I processi di globalizzazione dell’offerta e lo sviluppo del
mercato sulla rete elevano l’intensità della concorrenza e, con essa, gli stimoli e le
occasioni di infedeltà per i propri clienti; le alternative appaiono agli occhi del
consumatore nel contempo numerosissime e facilmente accessibili. D’altra parte, la
ricchezza dell’offerta stimola la propensione al cambiamento, la voglia di novità e facilita
lo switching, soprattutto in caso di ridotta soddisfazione delle scelte abituali. Dunque, la
conquista della preferenza e della fedeltà del consumatore risulta sempre più ardua per le
imprese, l’offerta si moltiplica a fronte di una domanda che non cresce proporzionalmente
e che diventa più esigente, informata, consapevole del proprio valore per le imprese. Oggi,
al centro delle riflessioni strategiche della funzione marketing, tanto per le imprese
industriali, quanto per quelle commerciali-distributive, sta l’analisi delle condizioni che
possono contribuire a sviluppare attrazione e fedeltà, in un contesto che le rende sempre
più difficili e contestabili. In quest’ottica, la marca è un attore cruciale nelle politiche di
attrazione e di fidelizzazione, amplifica i ritorni economici degli investimenti di valore
nell’offerta, dunque fonda i presupposti del contratto fiduciario con il consumatore, rende
riconoscibile la marca e consente la concretizzazione ripetuta della preferenza del
consumatore. Il valore della marca dipende dagli investimenti in innovazione e in
differenziazione, così importanti per competere su mercati iper-concorrenziali, e dalla
forza della comunicazione che consente e contribuisce al riconoscimento dei suoi contenuti
e della sua personalità. La marca se non ha contenuti e personalità rilevanti e non è
comunicata così da ottenerne il riconoscimento, da un punto di vista di marketing, non
esiste. Essere segno riconoscibile e controparte affidabile assegna alla marca un ruolo
sempre più rilevante anche sul mercato virtuale. Quest’ultimo aspetto introduce la
riflessione sul ruolo che può assumere la marca-insegna, nella sua funzione di gatekeeper
tra offerta e consumatori, anche nel virtuale, che le assegna un grande potere di
orientamento del consumatore e di indirizzo dei consumi. Poiché internet può diventare un
mercato senza confini di prodotti, informazioni e sollecitazioni per i consumatori, questi
ultimi diverranno mappe di fiducia, capaci di orientare lo shopping e i processi di scelta.
Diventare un punto di riferimento importante per il consumatore, nella sua attività di e-
14
shopping, aumenterebbe ovviamente la forza della marca-insegna, con effetti positivi
evidenti anche sul mercato fisico. Quest’opportunità sembra particolarmente promettente
per le imprese retail (imprese di dimensioni più contenute) che già operano con punti
vendita fisici. La marca quale contenitore, contenuto, vettore e intermediario di valore,
gioca un ruolo fondamentale nei processi di brand e store loyalty, con evidenti importanti
conseguenze sul piano dell’acquisizione di vantaggi competitivi per l’impresa, soprattutto
in mercati caratterizzati da una crescente concorrenza e da notevolissimi rumori
comunicativi di fondo. La sua forza e il suo ruolo possono risultare accentuati sui mercati
virtuali, in cui l’assenza di fisicità della controparte e l’eccesso di alternative spesso
sconosciute al consumatore-navigatore, non favoriscono certo atteggiamenti di fiducia, né
verso la controparte, né verso il mezzo.
A tal riguardo, analizzando e confrontando le teorie di Wipperfuth, A., O ‘Guinn T.C. e
Muniz A.M. jr
10
, si evince come la tribù di marca crea un universo parallelo a quello reale,
caratterizzato da:
ξ Valori
ξ Rituali
ξ Storia
ξ Linguaggi
ξ Gerarchie
ξ Senso di appartenenza
ξ Solidarietà fra membri
Analogamente a quanto accade nei culti, la comunità di marca offre al consumatore un fine
ulteriore per il quale spendere le proprie energie. Si può intuire un parallelo con i riti di
iniziazione dei culti, con lo sforzo del membro di apprendere i rituali del gruppo per poter
accedere ai livelli più alti.
2.1. Branding tribale e condivisione del potere sulla marca: il “mini-marketing”
Come abbiamo detto precedentemente, una delle conseguenze dell’emergere della
dimensione comunitaria e tribale del marketing è la ridefinizione dei comuni parametri che
caratterizzano il Brand Management. Primo fra tutti, il grado di controllo che l’impresa
può esercitare su una marca. La comunità dei consumatori, infatti, esprime un potere verso
la marca che si sovrappone (e potrebbe anche contrapporsi) a quello esercitato
10
O ‘Guinn T.C., Muniz A.M. jr - Communal consumption and the brand e Inside consumption :frontiers of research on
consumer motives. London : Routledge,pag.252-272 - 2005
15
dall’impresa. Uno degli elementi chiave del branding tribale è il fatto che le imprese
possono perdere parte del loro controllo sulla marca, sostituite da una tribù di consumatori
che tenta di riappropriarsi della marca stessa. Tale rischio, di norma, è difficile da accettare
da parte di un brand manager, formato per gestire direttamente e controllare l’immagine di
una marca. Così vengono a crearsi quelle che possono definirsi le problematiche di
gestione di una virtual community. Wipperfuth, A. sostiene che si può giungere a casi di
Brand Hijack
11
(dirottamento della marca), consistenti in azioni da parte della tribù volte a
dirigere l’evoluzione della marca, del suo significato. Tale dirottamento di senso può
vedere l’impresa come vittima o come promotrice. Riconoscendo infatti il potere della
comunità sulla marca, l’impresa può co-creare il significato della marca insieme alla tribù.
Di fronte a casi di “dirottamento”, è suggeribile all’impresa di non intimorirsi del potere
espresso dai consumatori e di resistere alla tentazione di “fare marketing” tradizionale,
intervenendo sul fenomeno rovinandone la naturale evoluzione. In altri termini, il branding
tribale deve essere basato “sull’approccio minimalista al marketing”
12
teorizzato da S.
Brown e sintetizzato nell’espressione “mini marketing”
13
(ispirato al caso dell’auto
Mini,analizzato da Brown). Questo approccio di “marketing senza marketing” è bene
sintetizzato dallo stesso Brown che vede il consumatore di oggi come esperto in grado di
neutralizzare iniziative di marketing classico,mostrando una sofisticazione di marketing
ben superiore al passato. Il fenomeno della resistenza dei consumatori contro il controllo
delle imprese è ancor più accentuato quando le interazioni e l’aggregazione comunitaria
avvengono on line. I consumatori on line appaiono più attivi, partecipativi, oppositivi,
audaci, sociali e comunitari rispetto ad altri contesti. La comune passione di alcuni
consumatori per una determinata marca si traduce in competenze che nutrono la tribù
virtuale e che la mettono in grado di proporre e condurre vere azioni di marketing. La
presenza in queste comunità di consumatori appassionati, esperti, conduce verso un
ribilanciamento del potere nella relazione fra impresa e consumatore. Le tribù sentono di
essere i veri garanti dell’autenticità di una marca e si aspettano di essere riconosciute in
quanto tali. Non sono pochi gli esempi di questo ribilanciamento di potere, a volte una vera
forma di contro-potere espressa dalle comunità di consumatori: Ducati, Harley Davidson,
Mercedes, Mini, Star Trek. Gli appassionati, ad esempio, di Star Wars sono così fedeli alla
loro marca che producono e scambiano film fatti da loro e ispirati alla serie
cinematografica, usando computer e videocamere proprie. Piuttosto che tentare di opporsi
11
Wipperfuth, A.; Brand Hijack: Marketing without Marketing, San Francisco, Plan B., 2005
12
Stephen Brown; marketing - the retro revolution, Sage, London, 2001
13
Stephen Brown; Writing Marketing: Literary Lessons from Academic Authorities, SAGE ,2005
16
a questi “devoti” della marca, la Lucasfilm – proprietaria del marchio Star Wars – agisce
come facilitatore di questa passione, distribuendo on line materiale video, sonoro ed effetti
speciali che gli appassionati possono inserire nei loro film. Analizzando e comparando
alcune riflessioni di autori come Brown, Wipperfuth A. ,Muniz A.M. jr., O’Guinn T.C.
Epifani, si possono menzionare altri casi di “problematiche”
14
che sorgono per la gestione
di tali comunità:
ξ Fedeltà di marca di tipo oppositivo: molte comunità di marca si auto-definiscono in base
all’opposizione nei confronti di una marca “nemica”. I cultori della Apple si definiscono
spesso in base alla loro opposizione verso Microsoft;
ξ Legittimazione di mercato: chi è il legittimo destinatario del vero senso della marca e
quindi legittimato a consumarlo? Chi è il “true believer” della marca e come lo si distingue
da chi si limita a consumare il prodotto? Sono domande che il membro della comunità
pone per definire il confine fra in suo gruppo e il resto del mondo;
ξ Desiderio di marginalità: i membri di una tribù tendono spesso a mantenere la comunità
di piccole dimensioni, per non diluire il culto per la marca e per impedire l’entrata nella
tribù di estranei non veri portatori del significato della marca;
ξ Polit-brand: una tribù che ha politicizzato una marca facendogli assumere significati
ideologici;
ξ La tribù abbandonata: è il caso del computer portatile Apple Newton. Dismesso dalla
Apple, ancora oggi ha una comunità di appassionati che ne tramanda l’eredità in toni quasi
religiosi.
3. Brand Loyalty e gli strumenti di fidelizzazione on line
Il principio della legge di Metcalfe può aiutare a comprendere meglio le dinamiche dei
rendimenti che stanno alla base delle Virtual Community e la conseguente fidelizzazione
degli utenti on line. La legge di Metcalfe non è altro che una legge matematica pensata alla
fine degli anni ‘70 da Robert Metcalfe, studente della Harvard University e poi fondatore di
“3Com” oltre che pioniere del networking (ed inventore dell'ethernet). Questa legge, nella sua
forma originaria dice: "The power of the network increases exponentially by the number of
computers connected to it. Therefore, every computer added to the network both uses it as a
resource while adding resources in a spiral of increasing value and choice"
15
, (il valore di un
14
O ‘Guinn T.C., Muniz A.M. jr; Communal consumption and the brand” e “ Inside consumption :frontiers of research on
consumer motives, London : Routledge, 2005, pag.252
15
John A. N. Lee; Computer Pioneers, 1995, IEEE Computer Society Press