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CAPITOLO 1
L’ICT come leva competitiva: un’analisi in Italia e in Europa
In questo primo capitolo verrà analizzata la situazione italiana delle ICT, ovvero le
Information and Communication Tecnologies, prevalentemente dal punto di vista
dell’uso aziendale. Per prima cosa sarà confrontata la situazione italiana con quella
europea e mondiale, mediante analisi di dati ISTAT e Confindustria, nonché Eurostat,
riguardo allo stato dell’arte delle nuove tecnologie, l’utilizzo, la disponibilità di risorse e
gli investimenti, gli indici relativi alle nuove tecnologie, gli strumenti realmente utilizzati.
Di seguito si passerà ad analizzare in particolare la situazione italiana, cercando di
comprendere come le imprese italiane si comportano di fronte alle ICT, analizzando le
differenze tra le grandi imprese e le PMI, reale tessuto imprenditoriale italiano. Inoltre
si analizzerà l’impatto delle ICT sulla produttività italiana, per capire quanto e come le
ICT incidono sulla produttività, nonché come le ICT possono essere considerate
motore e strumento per uscire dalla crisi. A tal fine, saranno brevemente presentati
anche i piani di sviluppo digitale inglese, italiano ed europeo, a dimostrazione
dell’importanza che le ICT rivestono nel panorama odierno.
1.1 Benchmarketing
Il processo di digitalizzazione - come da più parti sottolineato (Piano e-Government
2012, Eurostat, rapporto dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni 2011)
presenta una situazione di preoccupante ritardo rispetto ai principali paesi Europei.
Inoltre questo ritardo non sta diminuendo nel corso degli anni, ma al contrario sta
aumentando. Questa situazione riguarda sia le famiglie sia le imprese.
I dati Istat (2011) più attuali confermano come la Pubblica Amministrazione non eserciti
assolutamente quel ruolo di traino che ci si aspetterebbe: i cittadini non utilizzano i
servizi online, e questo fatto si riscontra nelle graduatorie europee, in cui l’Italia si trova
agli ultimi posti, addirittura in regresso nel 2008 rispetto al 2007. Questo deficit viene
riscontrato analizzando alcuni indicatori come il digital divide, la presenza e l’uso di
infrastrutture digitali abilitanti (in primis disponibilità di computer e wide band,
ovverobanda larga), sia nelle famiglie che nelle imprese. Per quel che riguarda la
Pubblica Amministrazione, viene esaminato il ritardo nella digitalizzazione di settori
quali l’istruzione, la giustizia e la sanità.
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Dai dati Eurostat EU 27 (2008) relativi alle famiglie e al loro accesso ad Internet, sia
per quel che riguarda la narrow che la wide band, per il triennio 2006-2008 emerge
chiaramente come nel 2006 la percentuale di famiglie con accesso broadband in Italia
era pari a circa la metà rispetto agli altri paesi considerati.
Successivamente questa tendenza si è in parte modificata, dal momento che nel 2007
l’Italia ha presentato la maggior percentuale di crescita di connessioni wideband, più
precisamente del 56% mentre Germania e Francia si attestavano rispettivamente al
47% e al 43%. Tuttavia l’anno seguente il paese non è stato in grado di replicare tale
performance, rimanendo quindi agli ultimi posti della classifica europea: allo stato
attuale, quindi, l’Italia presenta un tasso di penetrazione della banda larga pari al 31%
mentre la Spagna si ferma al 45% , la Germania al 55%, la Francia al 57%, il Regno
Unito al 62% del Regno Unito e la Svezia addirittura al 72%.
Per quel che riguarda il contesto imprenditoriale, fulcro di questo elaborato, la
situazione è la medesima: fin dai primi anni di diffusione delle ICT, si è subito assistito
ad un importante ritardo nell’adozione delle Information Technologies, complice anche
il carattere imprenditoriale italiano costituito in grandissima maggioranza (il 76%) da
micro imprese con non più di due dipendenti. La dimensione stessa delle imprese non
consentiva di affrontare gli elevati costi fissi necessari per adottare le nuove tecnologie.
Questa condizione non è cambiata fino alle più recenti statistiche, andando a delineare
un gap importante: tra le micro-imprese, poco meno della metà dispone della banda
larga, solo il 66% risulta avvalersi di un computer e poco meno di un terzo (il 31,5%)
utilizza internet. I numeri delle imprese con più di 2 dipendenti sono molto diversi,
come verrà mostrato in seguito. È chiaro come questa situazione non si sposi con il
contesto attuale.
Soffermandosi, invece, solo sulle imprese con almeno dieci dipendenti i risultati
migliorano, ma il confronto con gli altri paesi europei rimane sfavorevole: il 96,2% delle
aziende italiane dispone di un computer (valore inferiore alla media UE15 pari al 97% e
al 100% dell’Olanda, al 99% di Finlandia e Danimarca) mentre viene utilizzato solo dal
45% dei dipendenti, a fronte del 70% della Svezia, del 64% dell’Olanda, e del 60%
della Germania (Confindustria, 2009).
Risulta quantomeno ovvio che una bassa presenza del computer in azienda porti ad
uno scarso utilizzo di servizi digitali: se in Italia il 62% delle imprese con almeno 10
addetti ha un proprio sito Web, in Germania sono l’80% le imprese che ne posseggono
uno. Ancora peggiori sono i dati relativi all’e-commerce: meno del 10% delle imprese
vende tramite un canale on line, a differenza del 45% di Germania e Regno Unito,
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generando solo il 2% del fatturato tramite e-commerce, decisamente distante dal 17%
di Francia e Regno Unito. Sul fronte dell’approvvigionamento, meno del 5% delle
imprese acquista on line, a differenza del 30% di Germania e Regno Unito e del 20%
della Francia, come mostrato nella figura 1.1.
Dati recenti, del 2011, confermano questo trend: l’e-commerce italiano (fatturato di
8miliardi di euro) vale meno della metà di quello francese (20 miliardi), un quarto di
quello tedesco (34 miliardi) e un sesto di quello inglese (oltre 51 miliardi) (MIP, 2011).
Figura 1.1 % su PIL del fatturato da commercio elettronico 2006
Fonte: Ocse, 2006
Il divario nei confronti dell’andamento medio europeo del mercato ICT è pari a circa 2
punti percentuali, che aumentano a 3.8 se si considera il mercato mondiale. Il deficit
del mercato Italiano è dovuto in gran parte alla minore crescita del settore IT, che
detiene una quota di mercato sensibilmente inferiore a quella media degli altri paesi
europei. Le piccole e medie imprese preferiscono indirizzare il proprio budget verso
altri settori, dal momento che il 56% del totale della spesa in IT è attribuibile solo allo
0.1% delle imprese con più di 250 addetti (2651 imprese), mentre il 20% del totale
della spesa compete a circa 4 milioni di imprese con meno di 50 addetti
(Boccardelli,2007). Sebbene sia comprensibile che le piccole e medie imprese abbiano
un budget per le ICT minore rispetto alle grandi, i dati stupiscono poiché l’0,1% delle
imprese spende oltre il 50% della spesa totale in IT, mentre il restante 99% spende la
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un terzo del budget delle grandi imprese. Le piccole imprese forniscono quindi un
contributo praticamente irrilevante alla crescita della spesa in IT. Mentre negli Stati
Uniti si registravano tassi di crescita degli investimenti ICT molto elevati già nella metà
degli anni Ottanta, nella maggior parte dei paesi europei l’acquisto di nuove tecnologie
è notevolmente aumentato solo a partire dalla metà degli anni Novanta. I dati mostrano
che, nel 2003, la quota di investimenti in ICT rispetto al totale degli investimenti fissi
lordi si è attestata tra il 15% e il 20% nella gran parte dei paesi OCSE (Figura 1.2).
Figura 1.2 Investimenti in ICT in percentuale al totale degli investimenti fissi lordi
Fonte: Ocse, 2005
Tale quota ha superato il 20% negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Svezia, Finlandia e
Australia (OCSE, 2005). Il forte incremento degli investimenti in nuove tecnologie è
stato alimentato dal rapido declino dei prezzi relativi dei computer (si faccia riferimento
alla legge di Moore, che spiega come le prestazioni dei processori raddoppiano ogni 18
mesi, al giorno d’oggi si è ipotizzato 12 mesi, a parità di costo) e dal fatto che l’ICT
offre potenzialmente molti benefici alle imprese, ampliando i flussi di informazione e
stimolando incrementi di produttività, come verrà trattato in seguito.
Seguendo la scia europea, da metà anni novanta in poi anche le imprese italiane
hanno iniziato a prendere in considerazione le nuove tecnologie e i nuovi potenziali
mercati creati dalla diffusione delle ICT, anche se la cronica condizione di ritardo
rispetto agli altri paesi europei rimaneva costante, dal momento che nel periodo 1996-
2001 l’Italia si è sempre collocata all’ultimo posto nel contributo al progresso
tecnologico aggregato da parte dell’industria produttrice di ICT (Boccardelli,2007).
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Nonostante questo, si sottolinea come le imprese abbiano comunque diversificato gli
investimenti rispetto al decennio precedente, favorendo un clima più aperto alla nuota
tendenza digitale.
Nel 2001, in Italia, la quota di investimenti ICT rispetto al totale degli investimenti fissi
lordi è pari al 15,5% (Figura 1.3), e pur essendo una percentuale di gran lunga inferiore
rispetto ai leader tecnologici, ovvero Stati Uniti (33,3%), Australia (22,6%) e paesi
scandinavi (Svezia, 26,6%, Finlandia, 26,6%), non si discosta dalla percentuale
tedesca (15,5%) e supera quella francese (13,7%). Tuttavia, l’Italia occupa l’ultimo
posto della graduatoria per quel che riguarda la percentuale del PIL di IT equipment (il
3,9%, contro il 9% degli Stati Uniti, il 7,5% del Regno Unito, il 5,2% della Germania) e
software (il 5,3% contro il 15,7% degli Stati Uniti, il 10,7% del Regno Unito, il 7,1%
della Germania e il 6,6% della Francia), mentre l’Italia è migliore solamente
nell’investimento complessivo in apparati per le comunicazioni, causato in gran parte
dall’enorme investimento televisivo italiano rispetto alle altre nazioni (il 6,3% rispetto
all’8,5% degli Usa, al 3,6% del Regno Unito, al 3,2% della Germania e al 3,6% della
Francia, Figura 1.3). (dati Boccardelli,2007)
Figura 1.3 Quota investimenti ICT su totale investimenti fissi lordi
Fonte: Boccardelli,2007
Nel caso delle tecnologie ICT, la scelta di investire o meno, e di quanto, può dipendere
da caratteristiche che interessano la singola impresa, il settore di attività e anche
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l’ambiente economico di riferimento. Ad esempio, Fabiani et al., (2005) relazionano la
decisione di adottare nuove tecnologie da parte delle aziende italiane a variabili come:
la dimensione d’impresa, la qualità del capitale umano, i processi di riorganizzazione
interna, il grado di flessibilità salariale, la presenza di imprese di grande dimensione nei
sistemi locali del lavoro. Inoltre, il maggior problema relativo all’investimento nell’ultimo
periodo è la crisi economica: uno degli effetti più evidenti è stato il peggioramento dei
rapporti delle imprese con gli istituti di credito: ovviamente tale situazione crea
complicazioni proprio sul piano degli investimenti, creando una stretta del credito,
meglio nota come Credit Crunch. All’inizio del 2008 il tasso di crescita trimestrale del
credito alle imprese non finanziarie era del 12%, mentre l’anno successivo il tasso si è
azzerato, rimanendo tale anche nel 2012 (0,2%) (BCE, 21012).
Secondo le rilevazioni della Banca d’Italia, nel 2008 l’8% delle imprese richiedenti un
prestito, ha ricevuto risposta negativa; tale valore è il più elevato dalla metà degli anni
novanta, mentre era solo del 3% un anno prima (Albareto e Russo, 2012). Secondo le
previsioni tali numeri tenderebbero ad aumentare ulteriormente, e i fenomeni che si
osservano sono preoccupanti: oltre al prevedibile calo dei flussi di reddito e degli utili
netti, la Banca d’Italia rileva dilazioni nei pagamenti da parte dei clienti, come segnala
anche il 61,6% delle aziende intervistate da Unioncamere (Gagliardi, 2009), che porta,
creando un circolo vizioso, al ritardo nei pagamenti dei fornitori. Di conseguenza, si
osserva una netta diminuzione del capitale destinato agli investimenti, mentre per le
aziende diventa prioritaria la diminuzione dei costi e i guadagni nel breve periodo.
Sempre secondo l’indagine Unioncamere risulta pari al 20,7% la quota di quelle
aziende che dichiarano di aver avuto difficoltà all’ ottenimento di credito bancario, a
fronte di un 43,3% che non segnala problemi di sorta e un restante 35,9% che non ha
invece richiesto finanziamenti alle banche nel corso del periodo in esame.
In Italia gli investimenti in ICT ammontano a circa il 2% del PIL (figura 1.4), costituendo
l’11% degli investimenti a carattere non residenziale. Questi valori sono leggermente
più bassi rispetto al punto di massimo raggiunto a fine anni novanta-inizio duemila, con
un valore degli investimenti ICT pari al 2,3% (Figura 1.5).
Figura 1.4 investimenti It in percentuale su PIL
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Fonte: elaborazione Confindustria Servizi Innovativi e tecnologici su dati OECD, 2008
Figura 1.5 Andamento spesa IT/PIL, confronto
Fonte: elaborazione Confindustria Servizi Innovativi e tecnologici su dati OECD, 2008
Come si osserva dal grafico, il profilo crescente, con un apice nel 2000, è
sostanzialmente condiviso da tutte le maggiori economie. Quest’andamento è
sicuramente determinato dalla bolla del mercato azionario relativo alle imprese della
cosiddetta “new economy”, che videro in poco tempo aumentare esponenzialmente il
valore delle proprie azioni. Si osserva però una dimensione quantitativa dei fenomeni
differente nei paesi anglosassoni e nel Nord Europa rispetto agli andamenti registrati
nelle economie dell’Europa continentale: mentre Stati Uniti e Inghilterra rimangono
abbondantemente sopra i 3 punti percentuali, la dimensione degli investimenti ICT
dell’Italia è in linea con i valori osservati in Germania e Francia, più di un punto di PIL
al di sotto del dato americano o britannico.
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1.1.1 ICT e competitività
La letteratura è abbastanza proficua per quel che riguarda l’impatto delle ICT
sull’economia e sulle imprese: Adeosun et al. (2009) sostengono che l’uso delle ICT
aumenti il management strategico, la comunicazione, la collaborazione, l’accesso alle
informazioni, il decision making, il data management e infine il knowledge
management. Hengst and Sol (2001) aggiungono che le ICT se usate correttamente
riducono i costi e incrementano le competenze, assistendo la gestione inter-
organizzativa e promuovendo l’outsourcing.
Fink and Disterer (2006) asseriscono che le ICT non solo aiutano a diventare più
efficienti, ma ne aumentano la competitività sul mercato. Riguardo questo concetto, il
World Economic Forum realizza annualmente un ranking a livello mondiale nel quale si
misura la capacità di una nazione di far leva sull’ICT per incrementare la propria
competitività. Tale ranking si basa su un indice composito, l’ NRI (Network Readiness
Index) che misura
La presenza di un ambiente favorevole allo sviluppo dell’ICT, tenendo in
considerazione alcuni aspetti legati alla tipica condotta economica di un Paese,
agli aspetti regolamentari e alle infrastrutture ICT presenti.
Il livello di preparazione necessario per l’utilizzo delle ICT da parte delle tre
principali tipologie di utenti: le persone, le imprese e la Pubblica Amministrazione
L’effettivo utilizzo delle ICT da parte delle tre tipologie di utenti.
L’Italia nell’edizione 2008/2009 occupa la 45°posizione e sostanzialmente anche nelle
precedenti edizioni si trova in posizioni simili. Abbastanza preoccupante è il fatto che
negli anni successivi, l’Italia perde posizioni rispetto agli altri stati-concorrenti: nel 2009-
2010 era in 48° posizione, nel 2010-2011 in 51° posizione, ed è ancor più allarmante il
paragone con la Grecia, che occupa la 64°posizione. Secondo Confindustria (2009), le
ragioni del deficit italiano si spiegano con la scarsa propensione alla digitalizzazione e,
più in generale, con un sistema legislativo e amministrativo che, sia per il mercato
privato che per quello business, non prevede la necessità del canale digitale per
interloquire con la Pubblica Amministrazione, con i fornitori e con i clienti. Ancora una
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volta quindi, si sottolinea il mancato ruolo della PA nell’abituare all’utilizzo delle
tecnologie i cittadini e le imprese.
Confindustria esamina anche le principali criticità contestuali che costituiscono a tutti gli
effetti un ostacolo alla crescita e al mantenimento della produttività: innanzitutto, viene
indicata la forte concorrenza internazionale degli altri paesi europei e dei paesi in via di
sviluppo. Questa “criticità”, non può essere vista come un ostacolo, ne additata come
scusa per la non-competitività italiana, ma deve essere indicata come incentivo ad
investire ed a migliorare la propria posizione. Inoltre, come si diceva poco sopra, la
minore disponibilità di risorse economiche e finanziarie, e la contemporanea difficoltà
ad accedere a fondi di finanza agevolata, fanno sì che si riducano i capitali da investire
in innovazione.
Tra le difficoltà riscontrate viene anche indicata l’impossibilità di intervenire in modo
efficace sulla struttura dei propri costi operativi, per difendere marginalità e redditività,
dovuta alla scarsa innovazione di parte dei processi produttivi e dei modelli
organizzativi.
Infine, Confindustria rileva alcuni atteggiamenti tipici del panorama industriale italiano,
che bloccano lo sviluppo:
La scarsa percezione del valore dell’innovazione: è un vincolo legato alla
gestione di impresa ed è caratteristico di ogni specifico settore. Si caratterizza
con la tendenza a mantenere modelli produttivi e di gestione costanti nel tempo,
e preclude all’imprenditore la possibilità di ampliare le relazioni collaborative e
di partnership. È un limite che riguarda tutti i cicli operativi fondamentali di
impresa: dal supply side (ossia il processo di approvvigionamento a monte del
processo produttivo), al processo produttivo stesso, dalle logiche e strategie di
produzione fino al demand side (processo di determinazione dei mercati di
sbocco e di commercializzazione).
Il ritardato utilizzo dell’ICT e dei servizi digitali come acceleratori dello sviluppo
industriale: il percorso di trasformazione intrapreso dalle imprese nella revisione
dei propri processi produttivi e dei rapporti di collaborazione non può più
basarsi su una strumentazione informatica elementare, localizzata presso le
sedi produttive, con limitati livelli di interoperabilità e incapace di adattarsi alle
trasformazioni del business.