6
nelle intenzioni dell’autore si pone l’obiettivo di indagare la retorica del
Cavaliere “scientificamente, come argomento di studio,
indipendentemente da ogni pregiudizio o personale posizione politica”.
5
Anche le riviste di settore si sono occupate del linguaggio del Cavaliere.
Nel saggio Parola mia, apparso su “Il Mulino” (2003), Giorgio Fedel
6
descrive i tratti fondamentali di questo linguaggio, riducibili ai due
criteri della chiarezza e della assertività. Nora Galli de’ Paratesi,
7
invece, traduce il lessico di Berlusconi nei termini di un “linguaggio
degli affetti”, fortemente segnato da appelli al pathos e a valori
condivisi.
Infine, tra gli studi esplicitamente dedicati al linguaggio di
Berlusconi, si segnala una ricerca di Antelmi e Santulli
8
(2002) che,
sulla scorta della appraisal theory, individua nel discorso berlusconiano
componenti didattiche: Berlusconi cercherebbe di educare i suoi
interlocutori attraverso un utilizzo circostanziato di modi verbali e scelte
lessicali. I lavori che hanno come oggetto di studio il linguaggio del
Cavaliere non finiscono qui. Appunti sulla comunicazione del leader di
Forza Italia sono presenti ad esempio in volumi dedicati allo studio della
comunicazione politica, come il lavoro di Maria Squarcione
9
sulla
comparazione dei lessici di Berlusconi e di Achille Occhetto, o quello di
Ugo Volli
10
sul funzionamento semiotico dei discorsi del Cavaliere.
Michele Prospero,
11
poi, ha dedicato un intero capitolo del volume Lo
Stato in appalto all’analisi del linguaggio di Berlusconi. Di tutti, o
quasi, gli interventi su questo tema (compresi quelli citati) si renderà
5
Op. cit., p. 8.
6
G. Fedel, Parola mia. La retorica di Silvio Berlusconi, “Il Mulino”, n. 3, 2003, pp.
463-473.
7
N. Galli de’ Paratesi, “La lingua di Berlusconi”, in “Micromega” n. 1/2004, pp. 85-
98.
8
D. Antelmi, F. Santulli, Risorse semantiche per la costruzione del consenso: il
caso Berlusconi, in “Comunicazione politica” n. 2/2002.
9
M. Squarcione, Occhetto e Berlusconi: percorsi linguistici e strategie
argomentative, in M. Morcellini (a cura di), Elezioni di TV. Televisione e pubblico nella
campagna elettorale ’94, Costa & Nolan, Genova 1994, pp. 163-90.
10
U. Volli, Fra assenza e seduzione virtuale. Appunti sulla comunicazione di Silvio
Berlusconi, in M. Livolsi, U. Volli (a cura di), La comunicazione politica tra prima e
seconda Repubblica, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 192-198.
11
M. Prospero, Lo Stato in appalto, Piero Manni, Lecce 2003, pp. 157-226.
7
comunque conto nelle pagine che seguono. Ora si indicano i tratti
salienti, dal punto di vista metodologico e degli obiettivi cognitivi, che
questa indagine si prefigge.
Il presente lavoro intende analizzare il linguaggio di Silvio
Berlusconi in chiave prima di tutto politologica, affinando cioè gli
strumenti della ricerca sulla scorta dei principi della scienza politica e in
secondo luogo linguistica, tramite un resoconto ragionato delle
caratteristiche e delle funzioni della parola e delle sue combinazioni
sintattiche e semantiche. Particolare attenzione sarà dunque dedicata
alla analisi del discorso politico di Berlusconi mediante le dimensioni
tipiche che spettano a questo approccio: vale a dire secondo “gli aspetti
strutturali, quelli retorici e ideologici, le modalità e le strategie
conversazionali e, naturalmente, il contesto di riferimento”.
12
Sul piano
metodologico, l’indagine sarà condotta attraverso un’impostazione
qualitativa. La scelta di trascurare i metodi quantitativi dell’“analisi del
contenuto” muove da precise considerazioni analitiche. La spiegazione
quantitativa di un testo “fa perdere certe proprietà dell’oggetto che
descrive”,
13
proprietà che solo procedure interpretative consentono di
afferrare. Ogni discorso è intessuto di relazioni semantiche e simboliche
che - ad esempio - un procedimento statistico come l’“analisi delle
frequenze” (il più diffuso metodo d’analisi del contenuto) non permette
di inferire. La concatenazione di frasi che compone il discorso non si
presta ad essere smembrata in unità linguistiche a se stanti. Il linguaggio
di Berusconi è ricco di riferimenti simbolici e un’indagine che tocchi
solo la superficie semantica del discorso preclude la possibilità di
coglierne i significati latenti. Afferma Barthes, “La considerazione
statistica delle unità significanti chiarisce l’informazione, non la
significazione”.
14
Per cogliere le relazioni strutturali del linguaggio
politico di Berlusconi, il metodo qualitativo che privilegi la
interpretazione e il collegamento dei dati rispetto a una loro
12
L. Cedroni, T. Dell’Era, Il linguaggio politico, Carocci, Roma 2002, p. 90. Gli
autori spiegano cosa intendono per ciascuno di questi aspetti: “Gli elementi strutturali
sono sia quelli che governano la frase, come gli operatori o connettivi logici e le figure
retoriche, sia quelli che governano il testo, come le strutture transfrastiche, le strutture
narrative, le strategie enunciative e lo stile”, ibidem, in nota.
13
G. Fedel, Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, Giuffrè, Milano 1999, p. 62.
14
R. Barthes, Critica e verità, Torino 1985.
8
classificazione entro determinate categorie di contenuto, ci sembra
maggiormente attrezzato. Anche a valutarne l’efficacia persuasiva.
Sostiene Prospero, citando Barthes, che per “svelare il senso di un
discorso, è vano rintracciarne le ricorrenze perché “un termine può
essere formulato una sola volta in tutta l’opera e nondimeno può esservi
presente ovunque e sempre””.
15
Un’analisi che voglia dirsi politologica deve anzitutto prevedere,
e neutralizzare, gli aspetti che possano interferire con tale prospettiva.
E’ per questo che dedichiamo il primo capitolo alla definizione, quanto
più precisa per quanto sintetica, dei rapporti che legano il linguaggio
alla politica e a sgomberare il campo dei pregiudizi metodologici che
minano la possibilità di uno studio del linguaggio politico - di un
soggetto politico concreto - iuxta propria principia. Una circoscrizione
del campo d’analisi necessaria, soprattutto per connotare in senso
conoscitivo e non etico la dimensione d’analisi. La polemicità
dell’approccio va dunque interpretata secondo finalità euristiche, volte a
comprendere e non a giudicare.
L’analisi prosegue, nel secondo capitolo, con una disamina delle
manifestazioni di linguaggio assimilabili, quanto allo stile e ai
riferimenti culturali, alla parole del Cavaliere. Anzitutto si descrive, per
il suo carattere d’opposizione al lessico considerato, quella particolare
declinazione di linguaggio politico, tipico della classe politica italiana
fino agli anni Novanta, passata alla storia come “politichese”. Quindi,
individuata la natura sostanzialmente populistica e contrassegnata da
una “antipolitica post-ideologica” - come la definisce Tarchi,
riprendendo un giudizio di Hermet,
16
dell’oratoria berlusconiana - si
illustrano i precedenti storici di questo tipo, da Guglielmo Giannini fino
a Umberto Bossi.
Il terzo capitolo, dopo una preliminare descrizione dello scenario
politico dei primi anni Novanta, affronta il nodo decisivo del ruolo
giocato dai mezzi di comunicazione, in primo luogo la televisione,
nell’influenzare i modi di funzionamento del linguaggio. Il percorso
della ricerca si muove tra i modelli proposti dal lessico della pubblicità e
15
Prospero, Lo Stato in appalto, cit., p. 183.
16
G. Hermet, I populismi nel mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 395.
Citato in M. Tarchi, L’Italia populista, Il Mulino, Bologna 2003, p. 166.
9
della programmazione televisiva, sottolinea le caratteristiche del mezzo,
individua la stretta correlazione tra il linguaggio di Berlusconi e lo stile
televisivo, pone la party logic a confronto della media logic. Più in
generale, si cerca di spiegare sotto quali aspetti le regole e i linguaggi
della televisione abbiano condizionato regole e linguaggi della politica,
e viceversa. Nella “interazione quasi-mediata” del mezzo televisivo la
“visibilità” diventa una nuova categoria del politico; il concetto di
“visibilità” è collegato a quello di “corpo” e l’ultima parte del capitolo
affronta appunto lo studio del linguaggio del corpo di Berlusconi, dei
suoi tratti più appariscenti.
Nell’età della politica che assimila logiche e linguaggi dello
spettacolo, il lessico di Berlusconi sembra appartenere per intero alla
dimensione della messa in scena piuttosto che a quella della “cosa
pubblica”. Tuttavia, all’inizio del quarto capitolo, si cerca di mostrare la
necessità, dal punto di vista politologico, di trattare il linguaggio del
Cavaliere come “politico”, distinguendo anzitutto tra un “primo” e un
“secondo” Berlusconi. L’indagine prosegue con la descrizione del ricco
armamentario di miti e simboli che funzionano da bacino semantico
inesauribile per l’eloquio berlusconiano, e che nell’economia del
discorso svolgono ruoli argomentativi.
Il quinto e ultimo capitolo sviluppa l’analisi del discorso politico
di Berlusconi secondo una prospettiva retorica e stilistica. Per meglio
cogliere i tratti caratteristici del linguaggio del Cavaliere, il materiale
linguistico viene suddiviso in tre tronconi:
a) Elementi grammatico-sintattici.
b) Elementi fonico-ritmici.
c) Elementi retorici.
L’analisi focalizza ciascun elemento secondo una prospettiva
d’analisi tesa a rintracciare i tratti più tipici. L’obiettivo è pervenire a
una definizione dello stile del discorso politico di Berlusconi che
consenta di interpretare i dati offerti dall’analisi linguistica in chiave
politologica. La convinzione teorica è che lo stile (inteso come il
metodo con cui “gli attori politici impiegano le parole nel senso
dell’argomentazione o in quello dell’emotivismo”)
17
sia un indicatore
rilevante per illustrare l’ideologia di riferimento del soggetto in esame. I
17
Fedel, Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, cit., p. 48.
10
contenuti ideologici, infatti, si riflettono sulle forme verbali e queste si
modellano sugli scopi pragmatici del parlante.
Precisiamo, infine, che le fonti prese in esame comprendono sia i
discorsi di Berlusconi raccolti in volume - e che raggruppano
principalmente gli interventi parlamentari e quelli comiziali - sia
interviste, dichiarazioni, lettere inviate ai giornali o pronunciamenti
televisivi. La parola politica, del resto, è veicolata attualmente più dai
media elettronici che nei luoghi deputati ai pubblici dibattiti e
un’indagine che si vuole accurata non può trascurare le manifestazioni
di linguaggio di questo tipo. A maggior ragione in considerazione
dell’attore politico - qual è Berlusconi - del cui linguaggio ci
occupiamo.
11
Capitolo primo
Linguaggio e politica
La precisazione della natura dei rapporti che legano il linguaggio
alla politica - e una sistematica, per quanto sintetica, delimitazione del
campo di analisi - si rende necessaria e preliminare a una indagine
avente come oggetto il linguaggio politico di un soggetto politico
concreto. Tracciare i confini dell’ambito di pertinenza del nostro lavoro
vuol dire anzitutto puntualizzare che si affronterà un’analisi del
linguaggio politico privilegiando il campo della prassi politica: vale a
dire quello che comprende lo studio del linguaggio nel suo declinarsi
pratico tramite i diversi attori politici, gli schieramenti, i leader di partito
- qual è il soggetto preso in esame dalla presente ricerca. Una simile
distinzione va fatta poiché, tradizionalmente, l’analisi del linguaggio
politico prevede la ripartizione in tre campi di analisi:
- Il linguaggio della teoria politica (momento speculativo).
- Il linguaggio della ricerca politica (momento operativo).
- Il linguaggio della prassi politica (momento pratico).
La premessa che sorregge il discorso è l’esistenza di un legame che
unisca politica e linguaggio. Che un tale rapporto vi sia, è un assunto
sul quale non vi sono dubbi. Studi approfonditi hanno esaurientemente
dimostrato il carattere di incontrovertibile consustanzialità della politica
al linguaggio, laddove (seguendo le suggestioni di taluni autori)
18
18
Secondo Corcoran, ad esempio, le pratiche linguistiche sono vere e proprie
pratiche politiche, laddove la politica è intesa come strumento di potere: “Il potere è
incastrato nelle pratiche discorsive esistenti”. P.E. Corcoran, Language and Politics, in
D.L. Swanson, D. Nimmo, eds., New Directions in Political Communication: A
Resource Book, Sage, Newbury Park-London 1990, p. 15, citato in Cedroni, Dell’Era, Il
linguaggio politico, p. 10, in nota. Controllare il linguaggio, per Orwell, invece,
equivale a disporre di strumenti per controllare il pensiero; concetto valevole sia per i
regimi totalitari che per quelli democratici. Cfr. G. Orwell, Politics and the English
Language, in Id., A Collection of Essays, Doubleday, New York 1954, citato in Cedroni,
Dell’Era, ibidem.
12
mutare l’ordine dei termini significa confermare ancor più il nesso
stretto che lega i due concetti. Se l’essenza del politico trae origine
dall’essere l’uomo naturalmente tale (Aristotele nella Politica sottolinea
che l’uomo è “animale politico”, intendendo con ciò precisare la sua
natura “sociale”), è l’esperienza comunicativa ad essere, secondo quanto
afferma Hannah Arendt, prima di tutto politica. Arendt
19
vede nella
comunicazione un atto volontario che suppone l’esistenza di una
pluralità di individui i quali, nella condivisione delle proprie esperienze,
le “mettono in comune” nella prospettiva di un bene da conseguire. Il
linguaggio, nelle diverse figurazioni discorsive attraverso cui può
manifestarsi, si fa veicolo privilegiato delle forme della politica. Il
principio della negoziazione verbale degli interessi è dunque prevalente,
sia che evolva nella direzione di una comprensione reciproca (situazione
cooperativa), sia che si sviluppi nel senso di un atteggiamento volto al
successo (situazione competitiva). La ricerca teorica non si divide su
questo punto: che politica e linguaggio siano concetti inestricabilmente
connessi. Piuttosto, chiarire i modi di funzionamento del linguaggio in
ambito politico, la natura del rapporto che lega forme verbali e forme
della politica, è il compito a cui la scienza politica è chiamata a dare
contributi sempre più decisivi.
19
Cfr. H. Arendt, The Life of the Mind, Secker & Warburg, London 1978.
13
1.1
Pregiudizi metodologici: “panpoliticismo” e “patologismo”
L’asserzione dell’esistenza di questo binomio indissolubile tra
linguaggio e politica non deve indurci a ritenere - distratti dalla ovvia
considerazione che ogni linguaggio è politica
20
- la disciplina in oggetto
priva di un ambito autonomo di analisi. Ché, cosi facendo, si cadrebbe
in un pregiudizio metodologico stigmatizzato da Giorgio Fedel con la
denominazione di “panpoliticismo”.
21
La scienza politica ha avuto, nella
opinione di Fedel, forti difficoltà ad approcciare il linguaggio dal punto
di vista politologico, giacché “i dati di questa letteratura non sono
immediatamente traducibili nei concetti e negli schemi chiave della
scienza politica”.
22
Di qui l’errore di inglobare in una visione olistica le
dimensioni separate, dal punto di vista metodologico, del linguaggio e
della politica. Corcoran conferma questa diagnosi quando afferma che
“il linguaggio politico come paradigma è tutt’altro che chiaramente
definito”.
23
Fedel definisce “panpoliticismo”, “La concezione per cui
‘politico’ non è un linguaggio particolare, distinto e discernibile da altri
linguaggi; bensì il linguaggio stesso o il suo uso o i processi che
condizionano tale uso, in una parola il linguaggio in quanto istituzione
sociale”.
24
La responsabilità di una simile visione sarebbe da attribuire
alle correnti neo-marxiste, da Marcuse - secondo cui il dominio
totalitario esercitato dalla società tecnologico-industriale agisce anche
attraverso il linguaggio - ai filosofi riconducibili al cosiddetto post-
strutturalismo, Michel Foucault per il primo.
25
La critica
20
“Poiché ogni situazione di parole implica sempre relazioni di potere, privilegi e
significati contesi”, Cedroni, Dell’Era, cit., p. 9.
21
G. Fedel, Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, Giuffrè, Milano 1999, pp. 8-
14.
22
Ivi, pp. 4-5.
23
Corcoran, Language and Politics, cit., p. 66.
24
Ivi, p. 8.
25
Foucault giudica la realtà condizionata interamente dalle strutture di potere, che
operano per il tramite di procedure linguistiche (l’ordine del discorso) categorizzanti:
sono quindi le regole impersonali del discorso, mentre assegnano significato a qualsiasi
istituzione, a strutturare le relazioni di potere, perpetuando il regime di dominazione
della società moderna sull’individuo. Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso,Einaudi,
Torino 1972.
14
“decostruzionista”si affianca alle deduzioni di Corcoran, che sottolinea
la natura “inevitabilmente politica” del linguaggio, perché esso
“prescrive, vincola, socializza, rinforza e conserva lo status quo”
26
o a
quelle di Roland Barthes
27
che, citato da Fedel, definisce il linguaggio un
“oggetto in cui si iscrive il potere”, riflessione dedotta dall’osservazione
che - comportando l’uso della parola l’adesione a un sistema linguistico
- questo non fa che imporre regole e schemi ai parlanti. Illuminante,
poi, è l’esemplificazione di quanto detto, giacché Barthes accosta il
potere costrittivo del sistema lingua al Fascismo: “La lingua è […]
fascista […]. Il fascismo infatti non è impedire di dire, ma obbligare a
dire”.
28
Dunque, se si vuole restituire la disciplina al suo oggetto,
bisogna spogliare l’analisi del linguaggio politico del pregiudizio del
“panpoliticismo”, un “non-senso” che, implicando la pervasività della
politica in ogni atto comunicativo finisce per destituire la categoria del
linguaggio politico del suo contenuto, minandone la possibilità di
essere indagato come istituto autonomo. Che senso avrebbe ritagliare un
universo discorsivo delimitato dall’aggettivo “politico”, se si postula la
coestensività del linguaggio politico al linguaggio sociale? Più corretto
invece - e in ciò concordano sia i linguisti che gli studiosi delle dottrine
politiche - collocare il linguaggio politico tra i linguaggi settoriali.
29
Tra quei linguaggi cioè, privi di un lessico specialistico come, ad
esempio, il linguaggio medico, che sono circoscritti “a un particolare
ambito di pertinenza”.
30
Contemporaneamente si deve assumere come
premessa euristica che il campo della politica (che andrebbe definito
anch’esso, non limitandosi semplicemente a isolarlo come una tessera
qualsiasi dall’universo del sociale) imprima “al linguaggio - conclude
26
Corcoran, Language and politics, cit., p. 70.
27
R. Barthes, Lezione, Einaudi, Torino 1981, pp. 8-9.
28
Ibidem.
29
Cfr. G.L. Beccaria, Linguaggi settoriali e lingua comune, in Id. (a cura di), I
linguaggi settoriali in Italia, Bompiani, Milano 1973.
30
Fedel, Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, cit., p. 14. Nella definizione di
Sobrero, “Le lingue settoriali non dispongono di un lessico specifico vero e proprio […]
né di regole convenzionali particolari, ma attingono spesso alla lingua comune o ad altre
lingue speciali, riportandone parole, espressioni, metafore”, A.A. Sobrero, Lingue
speciali, in Id. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo, vol. II, La
variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 237-77.
15
Fedel - delle caratteristiche specifiche, quelle che lo qualificano per
l’appunto come “politico””.
31
Pena la dissoluzione dell’oggetto di
studio.
La confusione metodologica non si risolve con l’aver sgomberato il
campo dal pregiudizio “panpolitico”, ché un’altra fallacia analitica Fedel
la ravvisa in una ulteriore etichettatura del linguaggio politico priva di
valore epistemologico: quella di considerarlo secondo la prospettiva di
un modello ideale, al quale è chiamato ad aderire se non vuole cadere
nel “patologismo”, cioè nella considerazione di questo linguaggio come
forma degenerata di comunicazione. Il giudizio severo che numerosi
studiosi hanno dato del linguaggio applicato alla politica ha in effetti
avuto ragione d’essere - concede Fedel - se solo si guarda alle forme
manipolative di comunicazione tipiche della propaganda bellica o dei
regimi totalitari novecenteschi. La tesi di autori come Weinberger
32
o
Orwell
33
, è che il linguaggio usato dagli attori politici utilizzi
deliberatamente artifici argomentativi o stilistici che, da un lato
travestono di razionalità ciò che razionale non è e, dall’altro, coprono la
verità degli eventi con espedienti retorici che attenuano, nascondono o
trasformano i significati sgraditi allo scopo di contenere il dissenso. E’
lo schema classico dei linguaggi manipolativi, disinteressati alla
chiarezza e alla verità dell’esposizione e orientati prevalentemente a
fornire di una patente di verosimiglianza le asserzioni, così da
persuadere l’uditorio della loro bontà.
34
Fedel annovera tra gli indirizzi
di studio che contestano al linguaggio una fallacia intrinseca, la scuola
della “semantica generale”.
35
Brevemente, l’impostazione di questa
scuola privilegia la funzione referenziale del linguaggio: il linguaggio
politico, da questo punto di vista, assume spesso come referenti termini
31
Fedel, Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, cit., p. 14.
32
Cfr. O. Weiberger, Politica del diritto e istituzioni, in Neil Cormick e Ota
Weinberger, Il diritto come istituzione, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 281-334, pp. 305-309.
33
Cfr. G. Orwell, Politica e linguaggio, in “Il Mulino”, 1959, poi ristampato in
“L’informazione bibliografica”, XVI, 1990, pp. 208-217.
34
Fedel, Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, cit., p. 16.
35
Cfr. Alfred Korzybski, Science and Sanity. An introduction to Non-Aristotelian
System and General semantics, Lancaster, Science Press 1941. Sul movimento nel suo
insieme v. M. Baldini, La tirannia e il potere delle parole. Saggi sulla semantica
generale, Roma, Armando 1981.
16
che hanno scarsa rispondenza con la realtà fattuale. “democrazia” o
“comunismo”, ad esempio, rimandano a concetti astratti, svincolati dal
reale. Per questo motivo il linguaggio applicato alla politica denota
simbologie vuote, detentrici di significato in grazia delle “immagini
emotive” che le parole evocano e - secondo difetto - riducono eventi
complessi a schemi antagonisti semplificatori (ad es., borghesia versus
proletariato). Ancora una volta la componente linguistica diminuisce le
possibilità di conoscenza.
La dimensione patologica del linguaggio riceve conferme anche
dallo studio di casi specifici. Tralasciamo la letteratura prodotta sul
linguaggio dell’arco parlamentare italiano, nelle sue diverse fasi storiche
(tema sul quale avremo modo di ritornare), e concludiamo il discorso
chiedendoci, con Fedel: “è proficuo applicare al linguaggio politico la
tesi della patologia?”. La risposta dell’autore è negativa, per alcune
semplici ragioni. Caratterizzare il linguaggio politico come ricettacolo
di anomalie, difetti, in definitiva considerarlo come un linguaggio
malato, implica una concezione valutativa (e non analitica) dell’atto
verbale che fa capo alla politica; una concezione etica, secondo la quale
emendarlo di tutte le fallacie di cui si compone restituirebbe coerenza,
logicità e chiarezza alle proposizioni. Inseguire un modello ideale di
linguaggio politico (cioè, un modello che mira sì a persuadere ma
razionalmente, senza infingimenti) conduce però a dimenticare che tale
linguaggio funziona “indipendentemente dall’istanza razionalistica, e
anzi spesso risulta efficace proprio perché emotivo, irrazionale,
erroneo”.
36
Inoltre, questo approccio si limita a descrivere il suo oggetto
senza spiegarlo. In altre parole, stante il modello ideale, individua i tratti
che da esso - inevitabilmente - differiscono. Così, affermare, ad
esempio, che il linguaggio usato dal presidente americano Bush sia
retorico, sorretto da frasi ad effetto e cliché, descrive ma non spiega i
motivi di un tale procedere argomentativo. Dal canto nostro, se
concordiamo con Fedel sui limiti conoscitivi imposti da un’analisi che si
ferma al momento descrittivo dei fatti linguistici, dissentiamo
parzialmente sulla totale libertà espressiva concessa al linguaggio
politico - o meglio al linguaggio dei politici - quale condizione
necessaria per evitare di cadere nel pregiudizio di cui prima. Difatti, se
36
Fedel, Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, cit., p. 23.
17
giudichiamo il linguaggio politico esclusivamente dall’angolo visuale
della sua efficacia, corriamo il rischio di svilire un luogo nobile come la
politica perché degradarne il linguaggio non può non riflettersi
sull’oggetto cui si applica. Il modello ideale di cui parla Fedel svela, è
vero, una concezione etica che, apparentemente, poco ha a che fare con
le forme della politica e quindi giustamente condannabile. Eppure,
assumendo come non emendabile qualsiasi modulazione dei fatti
linguistici finiremmo per giustificare le intenzioni manipolative (nel
senso deteriore, non analitico, del termine) dei parlanti: operazione che
ha effetti concreti sul tessuto sociale e politico di una comunità. Il
linguaggio ha natura performativa, vale a dire produce (nell’accezione
perlocutiva di Austin)
37
un’azione capace di incidere sulla realtà. Al
linguaggio politico si riconosce il potere costituente di “contribuire alla
realtà di ciò che enuncia per il fatto di renderlo concepibile e soprattutto
credibile”.
38
Il linguaggio non è pura forma presa a prestito dalle varie
discipline e variamente declinata ma è anche forma di azione politica e
in quanto tale soggetta a preoccupazioni di ordine non già etico, ma
pragmatico. Che il linguaggio degli attori politici sia largamente
improntato a oscurità e abuso di formule ambigue, evocative, irrazionali
è pacifico. Non vogliamo negare che queste caratteristiche siano
elementi costitutivi del linguaggio politico né contaminare il campo
della politica di istanze che non le pertengono, soltanto ribadiamo la
volontà di interpretare i fenomeni politici - specie il linguaggio - in
chiave critica, secondo parametri regolativi che guardano ad un modello
ideale non di linguaggio, bensì di politica. I fenomeni di antipolitica o di
populismo plebiscitario, di cui abbiamo esempi rilevanti in Europa o
negli Usa (oltre, ovviamente, al caso di nostra pertinenza), nascono
spesso da matrici culturali nelle quali la componente linguistica ha un
ruolo decisivo e dove l’antipolitica tende a mescolarsi con
l’antilinguaggio. Descrivere criticamente i caratteri di cui si compone il
discorso politico dei diversi attori produce - nel momento stesso in cui
ne svela i principi di funzionamento - un sapere aggiuntivo che
37
Cfr. J.L. Austin, Come agire con le parole. Tre aspetti dell’atto linguistico, in M.
Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio,
Feltrinelli, Milano 1978, pp. 61-79.
16
Cedroni, Dell’Era, Il linguaggio politico, cit., p. 19.
18
contribuisce a rendere più chiare le strategie enunciative e, di rimando,
il gioco politico tra gli attori. Con ciò si contribuisce ad ampliare, e non
a restringere, il campo della moralità pubblica.
Anche il pericolo - denunciato da Fedel - del “panpoliticismo” è
pienamente condivisibile solo se si rimane ancorati a una prospettiva
strettamente politologica. La convinzione che i fatti linguistici esaminati
alla luce di un modello si discostino inevitabilmente da esso non
giustifica l’abbandono tout court di metodologie d’analisi che non
interpretino determinate discipline (come nel caso del linguaggio
politico) iuxta propria principia e magari si rifacciano ad altri statuti
epistemologici. Mazzoleni,
39
ad esempio, cita il caso di Edelman,
politologo anche se eclettico, che non esita a fuoriuscire dai confini
della scienza politica quando immerge l’azione politica in una
dimensione simbolica
40
che ha forti punti di contatto con studi analoghi
condotti precedentemente da antropologi.
41
Del resto la stessa scienza
politica si è divisa in due correnti quando ha voluto indagare sui rapporti
tra politica e linguaggio: la scuola verificazionista e quella costituvista.
La prima pospone il linguaggio ai fatti dell’esperienza politica, “per cui
ciascun modello, per poter essere accettato dalla scienza politica, deve
possedere un requisito fondamentale: “l’analogia o la somiglianza tra
modelli e realtà deve essere passibile di verifica”.
42
I costitutivisti invece
ritengono il linguaggio capace di creare la realtà e non di rappresentarne
lo specchio rovesciato. La realtà politica così si trova ad essere
“costituita dal linguaggio tramite la creazione di significati”.
43
La
categoria del linguaggio politico appare quindi difficilmente
racchiudibile nei confini della scienza politica, anche se, come si è detto,
39
G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna 1998, p. 132.
40
Edelman afferma che “[l]’aspetto simbolico della politica suscita interesse perché
gli uomini non sono in grado di conoscere se stessi fino a che non hanno cognizione di
ciò che fanno, di ciò che li circonda e li influenza. L’uomo crea simboli politici ed essi, a
loro volta lo sostengono e lo fanno crescere o lo modificano negativamente”, Gli usi
simbolici della politica, cit., p. 65. Ancora, più avanti sostiene che “[…] le forme
politiche finiscono per esprimere in simboli quello che grandi masse di uomini hanno
bisogno di credere sullo stato per sentirsi sicure”. Ivi, p. 66.
41
Vedi a questo proposito di D.I. Kertzer, Riti e simboli del potere, Laterza, Bari
1989, oppure C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1988.
42
Cedroni, Dell’Era, Il linguaggio politico, cit., p. 16.
43
Ibidem.
19
bisogna evitare la tentazione di equiparare la politica al linguaggio tout
court.
1.2
Il campo d’analisi
Appare chiaro, alla luce di quanto detto, che lo studio del linguaggio
degli attori politici comporti l’inclusione di elementi che oltrepassano la
semplice analisi degli atti verbali. Partiamo da una considerazione di
Edelman: Il linguaggio - dice - si definisce politico non perché usato dai
politici ma poiché “è il linguaggio attraverso cui si esprime una
relazione di potere”.
44
Data questa relazione ne consegue che il suo
studio coinvolge elementi apparentemente esterni all’oggetto, come il
contesto, i soggetti e il pubblico a cui si rivolge. L’allargamento del
campo d’analisi è più apparente che reale perché già la sola dimensione
linguistica richiede un’attenzione speciale rivolta ai co-referenti dei
messaggi, che nello schema comunicativo classico comprendono fonte,
canale e codice. A questi vanno aggiunti i contesti extralinguistici che si
riassumono nelle c.d. componenti ausiliarie, gesti, mimica. La risposta,
il feedback dei riceventi è l’elemento che, dal punto di vista
politologico, ha più importanza. Esso determina lo spessore e la qualità
del consenso; un consenso generalizzato intorno a proposte provenienti
dagli attori politici, soprattutto nei periodi delle competizioni elettorali,
è l’obiettivo programmatico cui tutti convergono. Allo stesso modo, è la
stabilità del consenso la preoccupazione maggiore della classe politica,
una volta conclusa la fase elettorale. Tutto ruota intorno al consenso e
conoscere le modalità con cui i destinatari rispondono ai diversi tipi di
linguaggio consente di migliorare le strategie comunicative finalizzate
ad estenderlo.
Torniamo al linguaggio “settoriale” della politica; le unità di analisi
che lo riguardano si estendono dunque fino a comprendere “il contesto
sociale di riferimento, la natura dello scambio verbale e le
44
Edelman, Gli usi simbolici della politica, cit., p. 187.