9
SOMMARIO: 1. «Privatizzazione» dell’impiego pubblico e
riforma amministrativa: le potenzialità dell’impianto normativo
originario (legge n. 421/1992 e d.lgs. n. 29/1993). - 2. Le Regioni di
fronte alla «privatizzazione» dell’impiego pubblico: gli spazi di
autonomia nel quadro normativo antecedente alla riforma
costituzionale del 2001. - 3. Peculiarità del lavoro negli Enti locali e
processo di «privatizzazione». - 4.1. L’autonomia organizzativa: a)
delle Regioni. - 4.2. b) delle Province e dei Comuni. 5. I vincoli della
contrattazione collettiva all’organizzazione. - 6.1. Ambiguità e
incertezze della c.d. prima privatizzazione: in particolare, il difficile
raccordo tra Aran e amministrazioni pubbliche locali. - 6.2. Centralità
dell’organizzazione e decentramento amministrativo nella c.d.
seconda privatizzazione (legge n. 59/1997 e d.lgs. n.80/1998).
1. «Privatizzazione» dell’impiego pubblico e riforma
amministrativa: le potenzialità dell’impianto normativo
originario (legge n. 421/1992 e d.lgs. n. 29/1993)
Per cogliere ragioni e confini della ricerca sull’impiego
pubblico locale, è necessario avviare la riflessione indicando,
anzitutto, la prospettiva adottata (o meglio, le prospettive), per
poi dedicare le pagine che seguono alle principali articolazioni
problematiche dell’analisi. Sotto questo aspetto, occorre
prendere le mosse, subito, da un dato, di carattere generale,
oramai acquisito al dibattito scientifico: il peculiare nesso che le
riforme amministrative e quella più propriamente concernente il
rapporto di lavoro pubblico hanno, nel corso degli ultimi
quindici anni, stabilito tra le «norme» e l’ «organizzazione».
In secondo luogo, è necessario approfondire la rilevanza
giuridica che la dimensione territoriale, per il tramite
dell’organizzazione (alla quale si connette), riveste nel nostro
ordinamento e che è in grado di esercitare, in generale, sulla vita
civile dei cittadini
3
. Dal momento in cui è l’ «organizzazione»
3
In generale, sull’importanza del «territorio», insistono: M.
RUSCIANO, La dirigenza pubblica locale: tra vecchie impostazioni e
10
dell’amministrazione pubblica l’asse sul quale viene costruito il
«sistema delle regole», è evidente che la stessa regolazione
giuridica finisce per acquistare, intrinsecamente, una maggiore
capacità di modellarsi sulla base della consistenza concreta dei
fenomeni su cui essa va ad incidere. Ed, in questa prospettiva, è
chiaro che la componente «territoriale» gioca un ruolo molto
significativo nell’orientare l’azione organizzativa.
E non c’è dubbio che tali connessioni sono da tempo al
centro dell’attenzione non solo degli studi giuridici ma anche
degli studi sociologici e di quelli più squisitamente di carattere
organizzativistico, specificamente indirizzati - per quanto
concerne l’area di nostra pertinenza - alla «burocrazia»,
osservata nella sua qualità di organizzazione complessa, studi
sviluppatisi in Italia a partire dalla fine degli anni ‘60, inizio
anni ’70
4
. Così come è indubbio che la stessa concezione di
«territorio» e di «territorialità» è non soltanto in profonda
trasformazione, ma anche attraversata da un’evidente crisi di
nuove tendenze, in LPA, 2002, p. 893; M. CAMMELLI, Le ragioni e la
posta in gioco della riforma, in C. BOTTARI (a cura di), La riforma del
Titolo V, parte II della Costituzione, Maggioli, Rimini, 2003, p. 30 ss.;
in chiave normativa specifica, v. G. D’ALESSIO, Decentramento e
riorganizzazione della p.a. nella legge n. 59/1997, in LPA, 1998, p. 26
ss.
4
V. MORTARA, L’analisi delle strutture organizzative, il
Mulino, Bologna, 1973, p. 219 ss.; F. FERRARESI - A SPREAFICO,
Introduzione, in F. FERRARESI - A. SPREAFICO (a cura di), La
burocrazia, il Mulino, Bologna, 1975, p. 13 ss.; F. FERRARESI,
Burocrazia e politica in Italia, il Mulino, Bologna, 1980, p. 30 ss.
Cfr., inoltre, in una prospettiva più ampia, oltre alle fondamentali
letture di M. Weber (in particolare, M. WEBER, Economia e società,
Edizioni Comunità, Milano, 1961, II, sp. p. 250 ss.), M. ALBROW, La
burocrazia, il Mulino, Bologna, 1973, p. 113 ss.; R. MAYNTZ,
Sociologia dell’amministrazione pubblica, il Mulino, Bologna, 1982,
p. 103 ss.; M. CROZIER, Il fenomeno burocratico, Etas Kompass,
Milano, 1969.
11
senso, che accresce oggi la necessità di riscoprire criticamente i
suoi fondamenti giuridici
5
.
Tuttavia, oggi, il consolidamento di siffatte tendenze a
livello istituzionale sembra assumere caratteristiche diverse,
peculiari, che è necessario esaminare. In questa ottica, quindi, la
presente ricerca si propone di approfondire caratteri e intensità
di questa «territorializzazione» delle regole del lavoro pubblico
locale nel cruciale passaggio ad un assetto istituzionale, oggi più
marcatamente decentrato.
In questa prima fase, l’indagine deve, per forza di cose,
indirizzarsi su due linee di sviluppo fondamentali, strettamente
intrecciate tra loro: la prima, come già anticipato, tesa a
verificare i nessi tra la c.d. privatizzazione del pubblico impiego
e la riforma amministrativa; la seconda - più approfonditamente
trattata nel secondo capitolo - volta a comprendere le ricadute
dell’intersezione tra la riforma del lavoro pubblico e il riassetto
politico-funzionale dei rapporti tra Stato e istituzioni locali.
Concentrando l’attenzione sulla prima direttrice
dell’analisi, è sin troppo chiaro che «privatizzazione» e «riforma
amministrativa» appaiono astrette da un legame, per così dire, di
natura fisiologica: la seconda, in poche parole, costituisce il
«contesto» in cui la prima può e deve svilupparsi. Da più parti si
5
Il riferimento è a quegli studi che, in una prospettiva a tutto
campo culturale, sottolineano come il «territorio» non è tanto (o
soltanto) elemento dello Stato ma è un «valore della Costituzione»
(cfr. l’elaborazione di P. HABERLE, Stato costituzionale. I) Principi
generali, in EGT, 2000, p. 7, così come ricostruita da S. SICARDI,
Essere di quel luogo. Brevi considerazioni sul significato di territorio
e di appartenenza territoriale, in PD, 2003, p. 121); o ancora che
riferiscono il «territorio», «come spazio fisico anche di educazione, di
comune cultura e di tradizione», al novero dei «diritti fondamentali
della persona e come momento essenziale della identità di ciascuno di
noi» (G. M. FLICK, Minoranze ed eguaglianza: il diritto alla diversità
e al territorio come espressione dell’identità nel tempo della
globalizzazione, in PD, 2004, p. 14).
12
è sempre sostenuto, infatti, che la modernizzazione delle
pubbliche amministrazioni - improntata all’affermazione di
«un’etica del risultato» che pervada le stesse strutture
amministrative - richiede modifiche strutturali appunto, si
potrebbe dire genetiche, dell’amministrazione: prima su tutte,
l’abbandono del modello unitario di pubblica amministrazione.
Non è più pensabile la configurazione del «pubblico impiego»
come blocco unitario, monolitico, uniforme. L’amministrazione
è fatta di tante amministrazioni, distinte tra loro per logica,
organizzazione, risultato, legittimazione, controllo, e l’azione
amministrativa varia a seconda del diverso assetto
organizzativo-istituzionale in cui si inserisce
6
.
Del resto, un’amministrazione «legittimata» dalla
prestazione, dai risultati raggiunti e dal grado di soddisfazione
delle esigenze dei cittadini, richiede un metodo differente di
azione, più coerentemente strutturato in maniera da risalire dal
livello inferiore del processo decisionale al livello più alto e non
viceversa
7
. Nella stessa logica si muove anche la normativa sul
procedimento amministrativo varata nel 1990 (legge n. 241)
«che pone su nuove basi il rapporto tra cittadini e pubblici poteri
e si fa portatrice di istanze di democratizzazione dell’agire
amministrativo»
8
. E proprio in questa ottica, il tema del riassetto
6
Al riguardo, è sufficiente rintracciare tale consapevolezza
costantemente negli scritti di M. RUSCIANO, La dirigenza
nell’amministrazione centrale dello Stato, in LPA, 2001, p. 499 ss.;
ID., La dirigenza pubblica locale, cit., p. 900, e di F. CARINCI, Il lento
tramonto del modello unico ministeriale: dalla “dirigenza” alle
“dirigenze”, in F. CARINCI - S. MAINARDI (a cura di), La Dirigenza
nelle Pubbliche Amministrazioni, Giuffrè, Milano, 2005, p. LII - LIII.
7
M. CAMMELLI, Privatizzazione del pubblico impiego e
riforma della pubblica amministrazione, in L. VANDELLI - C.
BOTTARI- O. ZANASI (a cura di), Organizzazione amministrativa e
pubblico impiego, Maggioli, Rimini, 1995, p. 279.
8
A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli
legislativi della dirigenza pubblica, Jovene, Napoli, 2002, p. 146.
13
dei rapporti tra Stato e istituzioni locali può essere guardato
come il punto di approdo finale dell’intero percorso di riforma.
In questa direzione si muove il d.lgs. 3 febbraio 1993, n.
29, ponendo le basi per una più marcata tendenza
all’unificazione normativa tra lavoro pubblico e lavoro privato.
L’impianto normativo originario, tuttavia - pur segnando un
radicale cambiamento quanto alla ratio su cui poggia la
disciplina dell’impiego pubblico - propone alcuni punti di
sofferenza e di ambiguità che via via il processo riformatore,
segnatamente con la seconda fase della privatizzazione,
contribuisce a dissolvere. Infatti, la «privatizzazione» del lavoro
pubblico, nella sua prima versione (per intenderci, quella del
d.lgs. n. 29/1993), precede, com’è noto, il processo più ampio di
ripensamento del rapporto funzionale tra Stato, Regioni ed Enti
locali, avviato nel 1997 con la legislazione etichettata con il
nome dell’allora ministro della Funzione pubblica Bassanini.
Sono note le ragioni e le finalità di siffatte scelte di
politica del diritto e gli strumenti tecnici prescelti per
raggiungerli.
Quanto ai primi, razionalizzazione dell’organizzazione e
contenimento della spesa pubblica sono state le vere leve del
cambiamento della macchina organizzativa amministrativa.
Quanto ai secondi, la linea-guida è stata quella di mutuare dal
«privato» il modello dell’organizzazione, ponendolo al centro
dell’intero processo di trasformazione del funzionamento delle
pubbliche amministrazioni.
Allora, ponendo l’accento sulle finalità e sui caratteri di
quella prima fase della riforma, ma anche sul contesto in cui è
maturata la scelta riformista di quegli anni, è appena il caso di
ricordare quali erano i presupposti di quella riforma: la crisi
finanziaria degli anni ’90 aveva creato le condizioni per
l’abbandono del modello del pubblico impiego, inteso come
ordinamento speciale, aprendo le porte, nell’intendimento
14
soprattutto di riportare sotto controllo la spesa pubblica,
all’applicazione graduale del codice civile e delle leggi sul
lavoro nell’impresa e, quindi, ad una sostanziale unificazione
normativa tra lavoro privato e lavoro pubblico. Funzionale a
questa ricostruzione appariva la separazione tra indirizzo
politico e gestione amministrativa, quest’ultima affidata ai
dirigenti, che assumevano pertanto una autonoma legittimazione
e una diretta responsabilità per la gestione
9
. La dirigenza da
subito guadagna una posizione di assoluto primo piano nel
quadro normativo della «privatizzazione». Su di essa il
legislatore ripone le aspettative del cambiamento: sul piano sia
organizzativo-gestionale, sia, più specificamente, dei rapporti di
lavoro, individuali e collettivi. Nel dirigente il legislatore
riconosce colui che deve impersonare l’organizzazione, colui
che deve applicare la «logica dell’organizzazione», ispiratrice
della riforma, al posto della tradizionale e ormai anacronistica
«logica burocratica»
10
, intesa, quest’ultima, nel significato
deteriore di logica piattamente «formalistica».
Il disegno riformatore del d.lgs. n. 29/1993 fu subito
definito dalla dottrina prevalente come un impianto in cui si
addensavano e combinavano innovazioni e compromessi
11
.
9
Per una visione d’insieme delle norme dettate dal d.lgs. n.
29/1993, v. M. RUSCIANO, Contributo alla lettura della riforma
dell’impiego pubblico. Introduzione, in M. RUSCIANO - L. ZOPPOLI (a
cura di), L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Giappichelli,
Torino, 1993, p. XVII ss., nonché L. ZOPPOLI, Il sistema delle fonti di
disciplina del rapporto di lavoro dopo la riforma: una prima
ricognizione dei problemi, in M. RUSCIANO - L. ZOPPOLI (a cura di),
L’impiego pubblico, cit., p. 3 ss.
10
M. RUSCIANO, Contributo alla lettura della riforma del
pubblico impiego. Introduzione, in M. RUSCIANO - L. ZOPPOLI (a cura
di), L’impiego pubblico, cit., p. XXI; A. ZOPPOLI, Dirigenza,
contratto di lavoro e organizzazione, Esi, Napoli, 2000, p. 218.
11
M. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la
seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”,
15
Innanzitutto, il peso della tradizione pubblicistica era evidente
sui temi cruciali della natura del potere di organizzazione e
dell’incidenza della riserva di legge. Sotto il peso della
tradizione, incarnata dalla precedente legge-quadro del 1983
(legge n. 93), nella legge 23 ottobre 1992, n. 421, e in misura
ancora più marcata nel d.lgs. n. 29/1993, si stabilisce una
discutibile saldatura concettuale tra l’autonomia organizzativa
della pubblica amministrazione, l’esclusione della contrattazione
collettiva e il regime pubblicistico degli atti organizzativi.
Inoltre, l’art. 4 del d.lgs. n. 29 riconosce che il datore di
lavoro pubblico, nella gestione dei rapporti di lavoro, esercita «i
poteri del privato datore di lavoro». Ma l’art. 68 lascia alla
giurisdizione del giudice amministrativo le controversie di
lavoro che riguardano una serie di «materie» riservate alla fonte
unilaterale pubblicistica dalla legge n. 421/1992. In tal modo si
profila una virtuale sovrapposizione di regimi e di giudici nella
zona cruciale dell’organizzazione del lavoro, dove
organizzazione degli uffici e gestione dei rapporti di lavoro
inevitabilmente si intersecano.
Altro aspetto indicativo della imperfezione
dell’impalcatura normativa originaria è il controllo centralizzato
sulla contrattazione collettiva, che vede il Governo impartire
direttive all’Aran ed autorizzare la stipulazione di contratti
collettivi per conto di tutte le amministrazioni pubbliche, anche
di quelle con autonomia costituzionalmente garantita, come
appunto Regioni ed Enti locali.
Sotto questo aspetto, si può affermare che la riforma del
1993 produsse una situazione rovesciata rispetto alla legge-
quadro del 1983: alla contrattualizzazione del rapporto
individuale di lavoro si accompagnava una iper-legificazione
della contrattazione collettiva e «una articolazione reticente
in LPA, 1998, p. 42; G. MELIS, La burocrazia, il Mulino, Bologna,
1998, p. 89 ss.
16
della separazione tra la dimensione privatistica dei rapporti di
lavoro contrattualizzati e la dimensione pubblicistica
dell’organizzazione degli uffici»
12
.
Ma quel che è ancora più rilevante nella nostra analisi è
che, in fin dei conti, la prima «privatizzazione» perseguiva
obiettivi «interni» alla pubblica amministrazione, quali la
razionalizzazione organizzativa in base a criteri uniformi e il
controllo centrale della spesa per il personale. Sotto questo
aspetto, dunque, l’attenzione era rivolta prevalentemente al
personale.
2. Le Regioni di fronte alla «privatizzazione»
dell’impiego pubblico: gli spazi di autonomia nel quadro
normativo antecedente alla riforma costituzionale del 2001
Come accennato, il legislatore della «privatizzazione» si
è mosso nella consapevolezza che la estrema variabilità di
direzioni, immanente all’azione di ogni singola amministrazione
pubblica, per effetto principalmente del proprio specifico e
peculiare assetto organizzativo, implicasse necessariamente di
ipotizzare, sul piano della legislazione statale, uno schema
normativo di base, comune a tutte le pubbliche amministrazioni,
che fosse egualmente «flessibile», o comunque poco vincolistico
ed invasivo rispetto agli ambiti di autonomia normativa delle
medesime amministrazioni. In altre parole, dando concretezza a
questo assunto di fondo, il legislatore della riforma - con
maggiore incisività nella seconda fase - ha dovuto costruire un
complesso normativo capace di adattarsi alla vasta e variegata
struttura organizzativa delle amministrazioni pubbliche, e tra
queste in primis le Regioni e gli Enti locali, adottando un
12
M. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro, cit., p.
43.
17
«modello» di regolazione, intrinsecamente dotato della capacità
di essere ‘sopportato’ dalle varie amministrazioni pubbliche.
Tale compito ha richiesto, a sua volta, adattamenti
normativi progressivi: ad una iniziale, asistematica, disciplina
dell’adeguamento della riforma agli enti autonomi territoriali,
quale quella contenuta nel d.lgs. n. 29/1993, fortemente criticata
dai primi commentatori, ha fatto seguito una più razionale
sistemazione delle norme, a partire dal d.lgs. 31 marzo 1998, n.
80, che, ad avviso di molti, ha contribuito, invece, a superare
definitivamente limiti e incertezze legate all’impostazione
«ministeriale»
13
.
In sostanza, dal 1998 in poi, più chiaro e più assestato
appare il modello regolativo adottato per coniugare valenza
generale dei principi ispiratori della riforma e varietà
organizzativa delle amministrazioni pubbliche.
Allora, per capire l’ossatura normativa di quel modello,
confluito poi nel d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, è opportuno
avere subito chiaro il quadro di riferimento, costituito dalle
seguenti norme
14
:
- anzitutto, l’art. 1, comma 1, che nel delimitare il campo
di applicazione della normativa - «l’organizzazione degli uffici e
i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche» - tiene conto delle autonomie locali
e di quelle delle Regioni e delle Province autonome, nel rispetto
dell’articolo 97, comma primo, della Costituzione;
13
Su questa lunghezza d’onda si pone, già da prima del d.lgs.
n. 80/1998, C. D’ORTA, Amministrazioni destinatarie delle norme
sulla dirigenza, in F. CARINCI (diretto da), Il lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche dal d.lgs 29/1993 alla Finanziaria
1995. Commentario, Giuffrè, Milano, 1995, p. 418.
14
D’ora in poi, per comodità espositiva, si farà riferimento
alle norme come sistemate nel d.lgs. n. 165/2001. Qualsiasi
disposizione normativa specifica - abrogata o comunque non più
prevista o riproposta nel predetto decreto - sarà invece rigorosamente
indicata nel testo.
18
- l’art. 1, comma 3, secondo il quale «le disposizioni del
presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi
dell’art. 117 della Costituzione». Le Regioni a statuto ordinario
si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi
ordinamenti. Per le Regioni a statuto speciale, invece, i principi
desumibili dall’articolo 2 della legge n. 421/1992, e successive
modificazioni, e dall’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo
1997, n. 59, e successive modificazioni, costituiscono «norme
fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica»;
- l’art. 4, che pone il principio generale della separazione
tra le funzioni di indirizzo politico, spettanti agli organi di
governo, e la gestione amministrativa, spettante ai dirigenti;
- l’art. 13, che individua le amministrazioni destinatarie -
«le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento
autonomo» - delle disposizioni contenute nel capo II, in materia
di dirigenza;
- l’art. 27, che pone i «criteri di adeguamento per le
pubbliche amministrazioni non statali»: le regioni a statuto
ordinario e le altre pubbliche amministrazioni adeguano ai
principi dell’art. 4 e del capo sulla dirigenza i propri ordinamenti
tenendo conto delle relative peculiarità.
Di fronte a questo quadro normativo, numerose sono
state, e sono, le questioni interpretative da affrontare.
In via preliminare, per capire fino in fondo la sua
adattabilità al sistema delle autonomie locali è bene tenere
presenti tre piani fondamentali di indagine: il piano
dell’autonomia normativa, regionale e locale; il piano
dell’autonomia organizzativa; il piano dell’autonomia
finanziaria, in quanto condizionato dalla disciplina della
contrattazione e della spesa.
Quanto al versante dell’autonomia normativa, per le
Regioni, i rapporti tra fonti autonome e fonti centrali, nel
vecchio impianto costituzionale, vengono regolati dal principio
19
di competenza fissato dall’art. 117. Con riferimento a quello
schema di attribuzione delle competenze normative, quindi, il
primo problema da affrontare concerne l’individuazione degli
spazi costituzionalmente riconosciuti alle Regioni in materia di
personale. Naturalmente, il discorso sull’autonomia normativa
regionale impone di considerare anche il versante della
contrattazione collettiva, come disciplinato dal d.lgs. n. 29/1993.
Ebbene, l’art. 117 Cost. include tra le materie affidate
alla competenza legislativa concorrente - vale a dire da
esercitare «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti da leggi
dello Stato» - quella relativa a «ordinamento degli uffici e degli
enti amministrativi dipendenti dalla Regione».
Tradizionalmente, anche per effetto dell’influsso esercitato dalla
giurisprudenza costituzionale
15
, parte della dottrina ha ritenuto
che rientrasse in quella espressione la disciplina del personale
regionale. Così ragionando, essa si è trovata poi a dover spiegare
il ruolo del contratto collettivo nei termini - alquanto discutibili
su un piano strettamente esegetico - di «atto di indirizzo e
coordinamento» nei confronti del legislatore regionale
16
.
Al contrario, chi proponeva una estraneità dell’art. 117
Cost. alla materia dei rapporti di lavoro, e dunque della
regolazione della contrattazione collettiva, approdava - facendo
leva sull’equivalenza di oggetto fra le disposizioni normative di
cui all’art. 97, comma 1, Cost. e 117, comma 1, Cost. - alla
15
Particolarmente indicativa è Corte Costituzionale n.
219/1984, in FI, 1985, I, 67.
16
L. ZOPPOLI, Autonomia regionale e nuove regole del lavoro
pubblico, in F. CARINCI (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche dal d.lgs. 29/1993 alla Finanziaria 1995,
cit., p. 63; nello stesso senso, R. SANTUCCI, Autonomia regionale,
legge e contrattazione collettiva nella disciplina dell’impiego
regionale, in Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il
sistema delle fonti, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro
Aidlass, L’Aquila, 31 maggio - 1 giugno 1996, Giuffrè, Milano, 1997,
p. 296-297.
20
conclusione che le Regioni non solo devono ma soprattutto
possono regolare i rapporti con il proprio personale solo per via
contrattuale
17
.
In effetti, non c’è dubbio che tale profilo teorico, di per
sé molto problematico, ha costituito un elemento di grave
criticità del previgente sistema normativo, e come tale è rimasto
in buona parte irrisolto. Rispetto ad esso, allora, due sembrano le
osservazioni da formulare in chiave conclusiva: da un lato,
occorre tenere ben presente i dati normativi su cui fondare i
limiti all’autonomia legislativa regionale derivanti dal contratto
nazionale. Dall’altro lato, bisogna verificare, in concreto, sul
piano dell’attuazione, la reale risposta regionale e verificare se
ci sono stati ambiti in cui il legislatore regionale ha
effettivamente occupato spazi già normati dal contratto
collettivo nazionale o, viceversa, se, e in che misura, gli attori
negoziali della contrattazione nazionale hanno proceduto al
sapiente dosaggio di centralizzazione e decentramento affidato
al livello centrale di contrattazione
18
.
Ebbene, quanto al riscontro normativo, si può sostenere,
con una buona dose di serenità, che esso è molto debole e
generico, per non dire del tutto assente: è racchiuso
sostanzialmente nell’art. 49 del d.lgs. n. 29/1993. Il versante
dell’attuazione, come si vedrà anche nel capitolo terzo, dal canto
suo, conferma siffatta salvaguardia dell’autonomia regionale.
Sul piano applicativo, infatti, vi è da dire che la prassi legislativa
regionale si è dimostrata molto ricca e vitale, specie con
17
M. BARBIERI, Problemi costituzionali della contrattazione
collettiva nel lavoro pubblico, Cacucci, Bari, 1997, p. 403; ID., La
contrattazione collettiva, in F. CARINCI - M. D’ANTONA (diretto da),
Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche dal d.lgs. n.
29/1993 ai d.lgs. nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998. Commentario,
Giuffrè, Milano, 2000, p. 1245.
18
Questa analisi sarà condotta nei capitoli terzo e quarto.