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opportuna e feconda. Dato che dimostra una forte capacità di aggregazione
di fenomeni emergenti nella realtà produttiva e organizzativa dell’impresa
post-fordista, avvenimenti altrimenti esposti ad una diaspora più o meno
casuale verso qualificazioni e territori impropri.
Perciò i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa costituiscono un
fenomeno che con il passare del tempo, ha appunto raggiunto proporzioni
sempre più rilevanti e ha acquisito una tipicità sociale tale da costringere
l’ordinamento ad interessarsene. L’ampia diffusione di tali rapporti per i
fautori della riforma Biagi, è stata tra l’altro agevolata da “una situazione di
illegalità diffusa e di massa di difficile quantificazione, che ha creato nei fatti
una fattispecie sostanziale intesa come generatrice di un rapporto
funzionalmente equivalente al lavoro subordinato, ma senza costi e senza
diritti”. L’abuso dei rapporti di collaborazione continuativa e coordinata è
dipeso da vari fattori, tra i quali spiccano la più ridotta contribuzione
previdenziale (oltre a presentare un’aliquota sensibilmente inferiore a quella
prevista per il lavoro subordinato, è calcolata su compensi non parametrati
alla contrattazione collettiva ma liberamente stabiliti dalle parti) e la non
applicabilità della normativa sui licenziamenti individuali. L’interesse
manifestato dall’ordinamento nei confronti delle collaborazioni coordinate e
continuative, tuttavia non ha prodotto una disciplina organica di una precisa
tipologia contrattuale, ma soltanto limitati interventi normativi che hanno per
lo più esteso, alcune delle discipline previste per i lavoratori subordinati (tra le
quali spiccano quella processuale, fiscale, previdenziale e antinfortunistica), ai
titolari di diversi contratti di lavoro autonomo, tipici e atipici, in cui dette
collaborazioni si inquadravano. Alla tipizzazione di un nuovo contratto
sembra, invece, arrivare, da ultimo, “lavoro a progetto”. Tale affermazione
appare infatti confermata dal riferimento letterale di lavoro a progetto, quale
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“tipologia contrattuale” e dall’indicazione dei requisiti formali che il “contratto
di lavoro a progetto”deve soddisfare. La tipizzazione del contratto di lavoro a
progetto pone immediatamente il problema dell’inquadramento sistematico
della nuova fattispecie.
In apertura del titolo VII del d. lgs. n. 276 del 2003, dedicato alle tipologie
contrattuali a progetto e occasionali, l’art. 61 identifica la fattispecie “lavoro a
progetto” utilizzando un “modello a sommatoria”, caratterizzato dalla
presenza di tutti i caratteri delle tradizionali collaborazioni coordinate e
continuative più altri di nuova ispirazione; lontano dal provocare soltanto un
arricchimento delle tipologie contrattuali tramite cui il lavoro viene integrato
nei processi produttivi, coinvolgendo le principali categorie del diritto del
lavoro e la storica dicotomia (autonomia-subordinazione) che ne ha disegnato
i confini nel corso del secolo appena conclusosi. Con la formalizzazione della
nuova figura il legislatore prende posizione in ordine al dibattito sviluppatosi
nell’ultimo decennio. Ovvero tra i sostenitori della necessità di dare piena
cittadinanza giuridica ad un “tertium genus”, capace di attenuare le tensioni
che in tema di qualificazione dei rapporti si erano rivelate ai confini della
subordinazione e coloro che rifiutavano ogni revisione della tradizionale
classificazione delle attività lavorative, ritenendo sufficiente una modulazione
delle tutele volta a realizzare una più equilibrata distribuzione delle risorse
garantistiche. Il contrasto più conclamato che radicale, dal momento che
anche i primi insistevano per un riequilibrio nell'allocazione delle tutele,
mentre i secondi spinti dall'esigenza di modulare le garanzie, finivano per
disegnare delle classi omogenee di rapporti, evocando implicitamente la
necessità di una predeterminazione legale di nuove fattispecie. La scelta del
legislatore di stabilire una nuova tipologia contrattuale non può non
riscuotere consenso da chi già alla fine degl’anni novanta, auspicò la
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formalizzazione legislativa di una nuova figura capace di accogliere rapporti di
lavoro, che solo a costo di grandi forzature potevano ancora essere inquadrati
all’interno della classica dicotomia.
La proposta sembrò quasi provocatoria, sicuramente diversa rispetto ad una
consolidata tradizione sistematica ben poco scalfita dal riferimento alla c.d.
parasubordinazione (di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c.). Da un lato attirò le critiche
di chi continuava a ritenere immutato il modello storico del diritto del lavoro e
con esso le categorie giuridiche su tale modello forgiate e dall'altro, generò il
timore che l’operazione mirasse soltanto ad allentare le garanzie riconosciute
al lavoro subordinato. Viceversa appare oggi evidente anche per l’avallo del
legislatore, che il frequente tentativo di superare la normazione per tipologie
è destinato a perdere credito, rispetto alla necessità di individuare fattispecie
legali come presupposto per l’applicazione dei diversi regimi giuridici e che la
predeterminazione di una “fattispecie legale” esoneri il legislatore
dall’impegnativo compito di ridisegnare ogni volta il campo di applicazione
delle singole disposizioni, contribuendo così, ad una sistematizzazione più
lineare degli apparati di tutela. Del resto la riconducibilità normativa di una
nuova figura intermedia tra autonomia e subordinazione, ritrova ampia
giustificazione nell'aderenza a processi evolutivi dell’organizzazione della
produzione quanto mai diffusamente utilizzati, infatti oggetto di disciplina
sono pur sempre le collaborazioni di cui all’art. 409 c.p.c., i cui tradizionali
attributi sono espressamente richiamati dall’art. 61.
Dall’altra in aggiunta ai requisiti già presenti della continuatività, del
coordinamento e della prevalente personalità della prestazione lavorativa, la
fattispecie “lavoro a progetto” è arricchita da ulteriori elementi definitori: la
“riconducibilità” della collaborazione ad uno o più progetti specifici o
programmi di lavoro o fasi di esso; la determinazione degli stessi da parte del
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committente; la gestione autonoma in capo al collaboratore in funzione del
risultato; l’irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività
lavorativa. Ai fini della ricostruzione della fattispecie “lavoro a progetto”, si
cercherà di valutare la portata di tali elementi partendo dalla nascita della
parasubordinazione nel regime giuridico italiano, che è stato il primo
coraggioso passo necessario alla successiva introduzione dei rapporti di
collaborazione, arrivando alle complesse disquisizioni giuridiche ed aziendali
inerenti l’utilizzo dell’odierno “lavoro a progetto”, avendo comunque cura di
rilevare quale sia il trattamento di queste figure contrattuali atipiche anche a
livello europeo. Per cercare di fornire a questa analisi un tratto di certezza
sarà considerata, tramite una serie di domande qualitative, l’esperienza di 88
di soggetti legati al mondo del lavoro attraverso il contratto a progetto;
cercando in tal modo di comprendere quali siano i caratteri rilevanti dello
strumento in termini di autonomia e subordinazione, sia dal punto di vista
dell’individuo stesso che dell’organizzazione, la quale sceglie di sfruttare
questa tipologia di strumento, anche per rispondere alle esigenze di
flessibilità “intelligente” richiesta dal mercato del lavoro.
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1. IL LAVORO PARASUBORDINATO
1.1 La concezione storica del lavoro e la nascita della subordinazione
Appartiene ormai a secoli di storia la nascita, la maturazione e lo sviluppo
della nozione di lavoro, profondamente legata alla stessa natura umana che
attribuisce da sempre al lavoro una delle funzioni primarie vita. Difatti le
giornate e più in generale il tempo a disposizione dei soggetti, sono scanditi
in funzione della propria attività lavorativa, necessaria per il soddisfacimento
di una vasta gamma di bisogni, dai più elementari fino a quelli più legati
agl’aspetti motivazionali e intrinseci dell’uomo che gli permettono di
sopravvivere e soprattutto di evolversi. In ragione del bisogno di questa
“necessità lavorativa”, per l’uomo, del concetto stringente di lavoro si è
cominciato a disquisire assai presto in funzione delle prime differenziazioni tra
i concetti di libertà e schiavitù.
Inizialmente il lavoro reso a beneficio di terzi andava contro il classico ideale
di libertà, riscontrabile nell’uomo che agiva sostanzialmente per i propri
interessi e non certamente per quelli di altri. Da questa prima dicotomia si
possono desumere i concetti di lavoro astratto e lavoro concreto, attribuibili il
primo al lavoro dell’uomo libero esplicitato tramite le proprie opere frutto
delle sue qualità e del suo genio, mentre il secondo imputabile allo schiavo
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che produceva una semplice quantità, misurabile sia in tempo che in denaro.
È solo con i primi processi d’industrializzazione che le distinzioni di lavoro così
nette, arrivano ad identificarsi con un’unica concezione li “lavoro umano”, che
risulta dall’esigenza della nascente economia di mercato di attribuire quantità
misurabili sia ai prodotti tangibili che ai prodotti intangibili, in modo da poter
creare i presupposti per lo scambio dei primi beni e servizi. Quindi è il lavoro
inteso come subordinazione, a divenire l’oggetto di scambio del “contratto di
lavoro” [Supiot ‘00, 217].
Per Fabre-Magnan “la soggezione del lavoratore alla volontà del datore di
lavoro compensa l’impossibilità di quest’ ultimo di venire direttamente in
possesso della forza lavoro, della quale ha per contratto acquisito il
godimento. La subordinazione rappresenta proprio questa acquisizione ed in
questo modo il contratto di lavoro viene a legare i lavoro, in quanto bene
separabile dal lavoratore, e la subordinazione, in quanto forma particolare di
possesso di questo bene” [Fabre-Magnan, ‘98, 119].
È comunque da rimarcare come questa definizione di “contratto di lavoro” e
di prima identificazione di subordinazione, non sia ancora in grado di sanare
le vaste differenze tra l’inquadramento in una professione di tipo liberale
piuttosto che ad un’attività manovale, facendo così nascere le categorie del
salario ovvero il mero prezzo del lavoro scambiabile su mercato e
dell’onorario come compenso della prestazione d’opera dell’uomo colto. Si
attribuisce come determinante l’importanza a ciò che rappresentano il salario
e l’onorario per la definizione del contratto di lavoro. Infatti per Supiot “Nel
contratto di lavoro è il valore del lavoro astratto, salario, che si trova al centro
del rapporto giuridico, mentre il risultato concreto del lavoro è relegato
all’esterno della sfera dello scambio e rimane unica responsabilità del datore
di lavoro dall’inizio alla fine dell’esecuzione del contratto. Al contrario
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nell’esercizio di una professione liberale, sono la particolare natura della
prestazione resa e la responsabilità del professionista che configurano il
rapporto giuridico, mentre il valore commerciale di questa prestazione è
lasciata ai margini di questo rapporto” [Supiot ‘00, 218]. Il salario è quindi
sinonimo di un periodo in cui si assiste allo scoppio della rivoluzione
industriale, che favorirà la nascita delle prime controversie a carattere
classificatorio dei nuovi lavoratori.
L’impresa capitalista tramite il nuovo “detentore di capitale finanziario”
assoggetterà a se stessa, da principio attraverso l’impostazione di orari e
obiettivi da raggiungere fino al vero esproprio dei mezzi produttivi i lavoratori
artigiani, che in precedenza erano pienamente titolari delle proprie capacità
produttive talvolta utilizzate in modo interdipendente per trarne vantaggi
comuni. Si assiste ad una crescita costante della concentrazione dei mezzi di
produzione nelle mani dei nascenti capitalisti, devitalizzando così il mestiere
dell’artigiano, caratterizzato invece dalla patrimonializzazione di diverse abilità
e competenze sia manuali che tecnico-merceologiche. Il processo di
sottrazione delle capacità produttive del singolo culmina nell’importante fase
storica del fordismo-taylorismo, in cui il contratto di lavoro costituisce una
pura obbligazione per il lavoratore, ad eseguire compiti specificati nel
dettaglio dalla proprietà. Tramite organizzazioni assolutamente gerarchizzate
e basate sulla concezione fordista dell’attività produttiva serializzata,
composta da uno svariato numero di sequenze ripetitive ma necessarie per la
costruzione del prodotto, che tuttavia non consentono al lavoratore un
accumulo utile di conoscenza spendibile diversamente [Reyneri, ‘04].
Il contratto di lavoro dipendente, inteso come subordinazione, è divenuto il
caposaldo su cui si è retto il sistema capitalistico, anche se ha contribuito ad
indebolire i lavoratori, perché legalmente assimilati al datore di lavoro sia dal
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punto di vista del “potere di mercato” nonché dell’esecuzione della
prestazione.
Un ridimensionamento dell’utilizzo delle formule di subordinazione, comunque
maggiore rispetto ai lavori indipendenti nelle attività lavorative, è accaduto
tra gl’anni settanta e ottanta del secolo scorso, in cui professioni di tipo
intellettuale avrebbero trovato spunti di rinnovamento e sviluppo proprio nel
contratto di lavoro, ciò ad indicare sempre più sfuggente la distinzione tra
autonomia e subordinazione [Supiot ‘00, 218].
1.2 La distinzione tra autonomia e subordinazione
Il significato di subordinazione è quindi strettamente legato al concetto di
lavoro dipendente sviluppatosi nelle organizzazioni produttive europee di tipo
tayloristico, con una forte parcellizzazione e standardizzazione delle attività in
cui il lavoratore si poteva definire eterodiretto dall’imprenditore, che gli
forniva appunto indicazioni nel merito della prestazione da eseguire e delle
modalità organizzative. Il lavoratore subordinato è estraneo quindi all’intero
processo organizzativo dell’impresa, riassumibile nel rischio e nel profitto.
Il regime di dipendenza economica rispetto al datore di lavoro, inizialmente
sembrava essere sufficiente ad inquadrare il lavoratore come subordinato,
perché legato all’organizzazione proprio dalla mancanza di quei mezzi
produttivi necessari al sostentamento. Le giurisprudenze europee hanno
successivamente individuato come classificatorio del contratto di lavoro, il
criterio della subordinazione tecnico-funzionale, in un’ottica di
“potere/subordinazione”, per indicare la soggezione del lavoratore alle
direttive del datore di lavoro [Supiot ‘00, 221].