saggio di Yoshida, Ozu ou l'anti-cinema) e con una breve sinossi di alcune
pellicole citate nel corso dell'elaborato, introducendo così la seconda parte,
incentrata sulla critica e sul pensiero di due personaggi, Gilles Deleuze
e Yoshida Kiju, distanti per nazionalità, ma affini per formazione culturale.
Entrambi citano Ozu; Deleuze lo definisce “precursore del neorealismo” poiché fu
il primo a rivoluzionare l'immagine filmica da “movimento” a “immagine pura”,
con uno stile capace di creare una nuova razza di segni (opsegni e sonsegni),
capaci di rendere visibili il tempo e il pensiero. Il filosofo francese si sofferma
molto su quelle inquadrature definite pillow-shots da Noël Burch, veri e propri
quadri d'assenza che si aprono verso l'infinito e che non si estraneano dal ritmo
stesso del film.
Anche Yoshida, che di Ozu è stato allievo, è affascinato da questa assenza di
movimento, e propone la tesi dell' “anti cinema”; secondo il pensatore giapponese,
il cinema di Ozu è volutamente limitato nei mezzi rappresentativi, affinché possa
esprimere in maniera più profonda situazioni e particolari sentimenti, come l'idea
estetica giapponese del mono no aware (la malinconia suscitata dalle cose),
fotografie di mondi aperti all'infinita possibilità di interpretazione.
Due punti di vista, simili e al contempo distanti, interessano il secondo
capitolo: Deleuze che parte dall'analisi delle teorie sul cinema, incontra Ozu e
si interroga su ciò che il cinema esprime, e Yoshida che, attraverso il ricordo di
una situazione più intima, analizza l'espressività dello stile di Ozu per giungere a
domandarsi cosa sia realmente il cinema.
La terza parte, infine, rappresenta quasi una scommessa.
Seguendo i concetti studiati riguardo all'estetica dell'espressione, intesa in un
ottica di stampo fenomenologico, ho tentato di approfondire il senso della
5
domanda iniziale sul coinvolgimento, mettendo in rapporto Ozu e pensatori quali
Dufrenne e Merleau-Ponty. Quest'ultimi non citano direttamente il cineasta
giapponese, ma possono dare una chiave di lettura teoretica molto significativa
per l'opera del regista. Non a caso, il titolo dell'ultimo capitolo è uguale al titolo
dell'elaborato: “Il gusto del saké” che, oltre a richiamare il nome italiano
dell'ultimo film di Ozu (Sanma no aji), rinvia al concetto merleau-pontiano di
“carne del mondo”, poiché il senso dell'espressione (e quindi del coinvolgimento)
risiede nello spessore che abita le cose stesse, in quel gusto che si prova nel
momento stesso in cui si realizza la coscienza in una totalità precategoriale,
inspiegabile.
L'ultimo capitolo è dunque una scommessa per aprire un nuovo orizzonte di
senso, rapportando ciò che, in questi ultimi anni, mi ha più coinvolto,
sia intellettualmente (l'estetica), sia artisticamente (il cinema di Ozu Yasujirō).
6
CAPITOLO PRIMO
OZU YASUJIRŌ
La strategia è la via del paradosso.
(Sun Tsu)
1. (tutto) Ozu
Nell’agosto del 1958, intervistato da Iwasaki Akira e Iida Shinibi per «Kinema
Junpō»
1
Ozu dichiarò: “L’ottava di un regista è qualcosa di innato, non la si può
modificare facilmente. Naruse e io siamo registi dall’ottava bassa. Kurosawa e
Shibuya viaggiano, in proporzione, su un’ottava più alta. Mizoguchi sembra
possederne una bassa, ma in realtà è alta. Ogni regista ha la sua propria ottava”.
Questa breve citazione, fondamentale per delineare la figura di Ozu Yasujirō,
rispecchia un’ampia gamma di consapevolezze che coinvolgono, come spesso si
noterà, tutto l’universo del cineasta giapponese. In primis, i riferimenti ai grandi
nomi sostengono la lucida conoscenza del panorama artistico a lui
contemporaneo. Successivamente, utilizzando un’arguta metafora musicale, egli
1
Nota rivista giapponese di cinema, fondata nel 1917.
7
detta non solo il proprio stile, ma il senso stesso della sua espressione, senso
“laterale ed obliquo”
2
per usare parole di Merleau-Ponty, senso eccedente,
percepibile solo come una deformazione coerente, paradossale in tutto e per tutto,
tanto da essere definito “anti cinema”
3
.
Dipingere i caratteri di Ozu significa considerare quelli di: coerenza, coscienza,
stile, espressione, metafora e paradosso. Tuttavia, l’agosto del 1958 è una data che
suggerisce una summa totale della consapevolezza del regista di Tōkyō
monogatari il quale, a cinquantacinque anni, si considera ormai “sakè
invecchiato”
4
, riluttante all’idea di “ricominciare tutto da capo”
5
, avendo già
l’esperienza di un gusto della vita così intenso da poterlo trasmettere sia
artisticamente nelle ultime opere, sia attraverso le massime tanto care a Yoshida
6
.
Ozu Yasujirō nasce il 12 dicembre del 1903 nel vecchio quartiere popolare di
Fukugawa, shitamachi
7
di Tokyo, ma si trasferirà già nel 1913 a Mastusaka, nella
prefettura di Mie ad una ventina di chilometri dall’Ise Jingū, il più venerato fra i
templi scintoisti del Giappone. Questa scelta è dettata dal padre che, trattenutosi a
Tokyo, predilige un ambiente più tradizionale per i suoi figli, affidandoli così alle
cure della madre, la quale rimarrà accanto al celibe Yasujirō fino al 1962.
Ozu tornerà nella capitale solo dieci anni più tardi, dopo una carriera studentesca
mediocre, e dopo aver scoperto (a caro prezzo) la propria passione sia per il
cinema americano che per il sakè. Se all’amore per il vino penserà, ancora una
volta, la figura paterna, saldando i debiti del figlio nelle osterie, l’interesse per
2
M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio 1952, contenuto in Segni a cura di
A. Bonomi, trad. it. di G. Alfieri, Net, Milano 2003, p. 72.
3
K. Yoshida, Ozu ou l’anti-cinéma, traduit du japonais par J. Campignon et J. Viala, Institut
Lumière/Actes Sud, Arte éditions, 2004.
4
Dichiarazioni tratte dall’intervista di A. Iwasaki e S. Iida su «Kinema Junpō», agosto 1958, trad.
it. di D. Tomasi in Ozu Yasujirō, Il Castoro Cinema, Editrice Il Castoro, Milano 1996, pp. 5-9.
5
Ibid.
6
Cfr. K. Yoshida, op. cit., p. 11.
7
Letteralmente: “città bassa”; viene così chiamata la parte più antica e tradizionale di Tokyo.
8
l’arte cinematografica del giovane Ozu verrà sostenuta dallo zio che presenterà il
futuro regista ai dirigenti della neonata casa di produzione Shōchiku; lo stesso
anno del suo ritorno a Tokyo, Ozu entra così negli studi di Kamata come
assistente operatore, finché a ventitré anni inizia a seguire Ōkuba Tadamoto, uno
specialista di nansensu-mono
8
. Nel 1927, Ozu dirige il suo primo film: Zange no
Yaiba (“La spada della penitenza”), unico jidaigeki
9
del regista, andato perduto
come gran parte delle pellicole in muto.
Inizia così la lunga filmografia della sua vita, struttura portante di un esistenza
continuamente riprodotta attraverso l’arte visiva; una passione che porterà Ozu a
considerare, se non a superare, quasi tutti i generi del cinema giapponese,
dimostrando l’impossibilità di dare una definizione categorica alla propria
espressività, evidenziata da Yoshida col neologismo: “ozuité”
10
, per indicare
un’ambiguità rappresentativa apparentemente tautologica.
Le opere dei primi anni ‘30 denotano uno stretto rapporto col cinema americano,
sia nello stile che nella concezione filmica, senza mai decontestualizzare
pienamente la realtà storica del proprio paese. Già Wakaki hi (“Giorni di
gioventù”) del 1929 si presenta come un buon gakusei-mono
11
, dai toni umoristici
che richiamano i film di Chaplin e Lubitsch, che però induce a riflettere sul
problema della disoccupazione giovanile nella seconda metà degli anni ‘20,
quando circa un terzo di neolaureati soltanto trovava lavoro. Basterà un solo anno
per alimentare le ambizioni di Ozu, il quale dimostra fin da subito un talento
incentrato sullo shomingeki
12
, genere importante per le finalità artistiche future.
Durante i gloriosi anni ‘30, la Shōchiku produrrà a Ozu una media di quattro film
8
Film assurdi, equivalenti degli slapstick americani.
9
Film in costume.
10
Cfr. K. Yoshida, op. cit., p. 19.
11
Film di studenti.
12
Drammi sulla gente comune.
9
all’anno, affidandogli almeno un soggetto dalle caratteristiche ambiziose; la
critica è entusiasta del nuovo pupillo tanto che Umarete wa mita keredo (“Sono
nato, ma…”) del 1932 ottiene il primo posto nella classifica annuale di «Kinema
Junpō». Sebbene gli stilemi e i richiami al cinema americano siano principalmente
orientati sulla commedia, molti titoli realizzati fino al 1937 suggeriranno
un’interpretazione feroce contro il carattere repressivo delle istituzioni che finirà
poi per portare il regista a oltrepassare questo tipo di realismo antiborghese,
definendosi sempre di più attraverso una poetica interessata principalmente alla
profondità universale dell’esistenza, piuttosto che a una riproduzione critica della
realtà interpretata. Tōkyō no onna (“Una donna di Tokyo”, 1931), Dekigokoro
(“Capriccio passeggero”, 1933) e Ukigusa monogatari (“Storia di erbe fluttuanti”,
1934) coinvolgono l’universo psicologico giapponese, affidandosi a un duplice
rapporto tra condizione sociale e interpretazione estetica del vissuto; l’attenzione
ai personaggi diventa essenziale, l’azione si riversa perennemente in una
quotidianità scandita da microdrammi che si dispiegano nell’universo di una
natura\cultura nazionale, come dimostra la consapevolezza con cui Ozu tratta i
temi della vergogna, della femminilità, dei rapporti sociali e le stesse tradizioni
artistiche, tra cui l’elemento teatrale e il richiamo alla canzone popolare.
Nel 1936 Ozu si trova di fronte un nuovo elemento tecnico, che accetterà
dubbiosamente, ma che gli permetterà anche di realizzare un importante
capolavoro: si tratta del sonoro e del primo talkie: Hitori musuko (“Figlio
unico”). Un proverbio giapponese recita: “kuchi wa wazawai no kado”, ovvero:
“la bocca è la porta della disgrazia”, e forse Ozu, implicitamente, la pensava così,
quando giustificava la propria riluttanza nell’abbandonare il muto (indecisione che
si ripeterà anche con l’avvento del colore); fortunatamente, grazie all’incentivo
10
del direttore della fotografia Mohara Hideo, la tecnica della riproduzione sonora
soddisfa il regista che utilizza il nuovo mezzo espressivo per dipingere un apice
significativo di tutta la produzione degli anni ‘30. Hitori musuko è uno dei film
più amari, attraversato ancora da un pessimismo per così dire giovanile,
interessato a dipingere il fallimento dell’ideale Meiji (1868-1912) che
pronosticava una modernizzazione dai toni splendenti per l’economia nipponica, a
discapito di una rivisitazione del sistema di vita tradizionale. Nel 1936 il 44% dei
diplomati e dei laureati era senza lavoro; Ozu concentra su un microdramma
familiare che rispecchia echi di carattere universale: la semplice storia di una
madre che si sacrifica per permettere al figlio di studiare, scoprendo poi che
quest’ultimo vive umilmente nella periferia di Tokyo, lavorando come insegnante
serale di un modesto istituto, rivela ogni potenzialità per raccogliere l’espressività
dell’evoluzione storica, sociale, generazionale, psicologica ed esistenziale. La
desolazione delle campagne, l’incapacità del modernismo, il fallimento di una vita
che muterà nella comprensione di valori posti al di là della contingenza, seppur
rivelati dalla contingenza stessa (la generosità del figlio Ryōsuke nei confronti di
un bimbo ferito donerà conforto alla vecchia madre, abbattuta dalla mediocre
situazione sociale) sono tutte ispirazioni coscienti di un’autonomia artistica in
potenza.
Shukujo wa nani o wasureta ka (“La ragazza che cosa ha dimenticato?”) del 1937,
con le sue gag comiche e il personaggio chiave della moga
13
, sembra non risentire
ancora dell’influsso significativo che la Politica Nazionale, promulgata
dall’impero giapponese, stava attuando attraverso ideali di sacrificio, ritorno alla
tradizione e antimodernismo. Il 7 luglio dello stesso anno, scoppia la guerra tra
Cina e Giappone; il 7 dicembre del 1941 l’aeronautica giapponese distrugge la
13
Dall’inglese: modern girl; negli anni ‘20 indicava le donne dagli atteggiamenti occidentali.
11
flotta americana a Pearl Harbor. Ozu è chiamato alle armi il 10 settembre del 1937
e torna in patria nell’agosto del ‘39, dopo aver partecipato all’attacco di Nanchino,
proprio quando il governo vara una legge di censura preventiva sulle
sceneggiature dei film.
Negli anni di guerra, Ozu scrive una sceneggiatura, dirige film e realizza un
capolavoro; il drammatico clima bellico che piegherà la società giapponese a una
crisi dai toni quasi surreali, non muterà essenzialmente la volontà espressiva del
regista, anzi probabilmente, come suggerisce Noël Burch
14
, sarà proprio questo
passaggio storico a definire quell’intima “ozuité” già citata precedentemente.
Ozchazuke no aji (“Il sapore del riso al tè verde”, 1939) rimane sulla carta,
censurato dal Ministero degli Interni; sarà poi riscritto e rigirato nel 1952.
Todake no kyōdai (“Fratelli e sorelle della famiglia Toda”, 1941), invece risulta
essere una pellicola interessante per la critica sul rapporto tra Ozu Yasujirō e la
Politica Nazionale. Da un lato le due posizioni antitetiche, quella di Joan
Mellen
15
, che vede nel lavoro del regista un cinema reazionario, molto vicino alla
propaganda imperialista, e quella di Satō Tadao
16
che invece predilige l’ipotesi di
arte della resistenza nei confronti del governo, sembrano concentrarsi più sul
problema storico rispetto all’analisi espressiva delle opera. Dall'altro, Bordwell
17
individua uno sorta di avvento che, superata la cultura di guerra in parte descritta
nel film, porterà allo sviluppo di una nuova generazione più consapevole e
matura, forgiata dai drammi del passato. Tomasi
18
compie un’elaborazione ancor
più profonda, sottolineando come in realtà Ozu sia rimasto quel narratore di storie
e sentimenti, capace di armonizzare la propria estetica con la realtà circostante
14
Cfr. N. Burch, To the Distant Observer. Form and Meaning in the Japanese Cinema, University
of California, Berkeley and Los Angeles, 1979, p. 179.
15
Cfr. J. Mellen, The Waves at Genji’s Door, Pantheon, New York, 1976, pp. 151-6.
16
Cfr. T. Satō, Ozu Yasujirō no geijutsu, Asahi Shinbunsha, Tokyo, 1978, vol. II, pp. 99-101.
17
Cfr. D. Bordwell, Ozu and the Poetics of Cinema, Princeton University Press, 1988, pp. 282-8.
18
Cfr. D. Tomasi, op. cit., pp. 78-80.
12