4
nascita della Germania riunificata nell’ambito di un nuovo trattato
europeo che legava i destini economici dei tredici (la DDR e la RFT
erano ancora due Stati distinti e separati).
Con questa tesi mi propongo di studiare la posizione del governo e dei
partiti italiani di fronte all’invasione del Kuwait e, successivamente, alla
guerra del Golfo del 1991. Mi sono basato prevalentemente su materiale
giornalistico, ma esaminato anche alla luce dei pochi contributi critici in
materia e soprattutto delle testimonianze dei principali politici del tempo
che hanno chiarito la posizione di politica estera che i partiti hanno
promosso.
Mentre studiavo mi sono convinto che la guerra del Golfo non è stata
una semplice parentesi scissa dal quotidiano, ma che sia un argomento
particolare tramite il quale si può risalire alla situazione generale della
politica italiana, un sistema che stava dando segni di cedimento che
spingeva taluni partiti alla ricerca di una coalizione di governo
alternativa a quelle con la DC, piuttosto difficili da prospettare nella
nuova realtà internazionale e di riflesso interna; cosa che poi si è riflessa
anche nelle posizioni assunte dai partiti sui problemi del Kuwait, non sul
principio del ritiro iracheno, ma sulle iniziative militari.
5
Capitolo I:
I partiti italiani prima del 2 agosto
1990
I/1 il Medio Oriente alla fine del bipolarismo:
Nell’agosto del 1990 la situazione delle relazioni internazionali era in
grande fermento. L’Unione Sovietica era al collasso, il muro di Berlino
era caduto e la Germania stava compiendo rapidi passi verso la
riunificazione. La questione tedesca era al centro dell’attenzione della
politica estera degli Stati europei. I Paesi della comunità, sotto la
presidenza italiana, stavano studiando un modo per vincolare assieme i
loro destini, in modo da evitare che la futura Germania riunificata
diventasse una sorta di “superstato” europeo capace di alterare gli
equilibri, ormai consolidati, del Vecchio Continente.
Nessuno, tranne Israele, faceva molta attenzione a ciò che succedeva fra
l’Iraq e i suoi vicini. L’Iraq di Saddam Hussein, dittatore sanguinario,
era un Paese apprezzato dagli occidentali e dall’URSS per la sua
funzione di vera e propria barriera contro l’integralismo islamico del
regime teocratico dell’Iran.
6
Finita la guerra con l’Iran, la sfida maggiore che Saddan Hussein si
trovò ad affrontare era la politica economica del suo Paese. La carenza di
fondi per far funzionare i clientelismi e mantenere l’economia
consumistica dell’Iraq, fortemente sovvenzionata e basata
sull’importazione, avrebbe potuto creare molti problemi a un leader che
ora sembrava incompetente più che eroico; inoltre i debiti contratti
ponevano il Paese in una posizione di supplicante che minava
l’immagine di Saddam “Nuovo Saladino”. La liberalizzazione, avviata
per cambiare la pessima situazione economica irachena, era servita solo
a migliorare i profitti di poche famiglie vicine al regime. In poco tempo
l’Iraq fu sottoposto a una devastante ondata inflazionistica
1
.
La dirigenza irachena cercò di aumentare le entrate petrolifere, ma per
farlo occorreva convincere i membri dell’OPEC. Saddam credeva che il
Kuwait e l’Arabia Saudita l’avrebbero aiutato a risolvere i problemi
economici del suo Paese; chiese addirittura al piccolo emirato arabo di
trasformare il debito di 40 miliardi di dollari, contratto durante la guerra
con l’Iran, in una sovvenzione. Naturalmente le risposte dei vicini furono
negative.
La dirigenza irachena cominciò così a pensare di usare la forza militare.
Il primo bersaglio sarebbe stato il Kuwait, ma l’obiettivo a lungo termine
era ottenere le risorse e le concessioni richieste a tutti gli Stati del Golfo,
specie all’Arabia Saudita
2
. L’esercito iracheno era uno dei più potenti del
Medio Oriente, grazie alle forniture d’armi da parte delle due
superpotenze e dell’Europa. Il ragionamento era semplice: annettere il
Kuwait per usarne le ricchezze per sanare il debito pubblico e per
aumentare sia il suo prestigio sia il suo potere.
1
Charles Tripp, “Storia dell’Iraq”, Bompiani, Milano 2003
2
ibidem
7
“Saddam aveva combattuto gli Iraniani con il beneplacito delle due maggiori
potenze mondiali e credeva di poter riscuotere in Kuwait il prezzo dei servizi resi.
Non capì che l’America era pronta a servirsi dell’Iraq per impedire alla rivoluzione
iraniana di dilagare sul Medio Oriente, ma non poteva ammettere che una nuova
potenza alterasse gli equilibri del Golfo e controllasse la via del petrolio
3
”.
L’esito della guerra contro l’Iran aveva rafforzato in Saddam la
convinzione di essere l’uomo forte della regione; ciò lo spinse a
proseguire nella sua politica di potenza con una scelta di tempi e di modi
totalmente sbagliata. Il Kuwait era uno Stato sovrano e indipendente,
rappresentato alle Nazioni Unite, molto legato agli Stati Uniti e
all’Arabia Saudita; con i primi per interessi comuni, con i secondi anche
per analogie di regime e della comune percezione del pericolo
rappresentato proprio dall’espansionismo iracheno
4
. L’attacco poi veniva
sferrato nella fase culminante della crisi interna sovietica, quando le
ultime speranze di Gorbaciov erano riposte nella costruttiva
collaborazione con gli USA e l’Europa. L’ipotesi che l’Iraq potesse
diventare un’occasione per un conflitto fra superpotenze, nella quale i
Sovietici avrebbero tutelato l’iniziativa irachena, era dunque “costruita
sulla sabbia”.
Il presupposto ideologico dell’invasione, cioè che il Kuwait non
costituisse una vera Nazione, ma fosse solo il risultato artificiale della
politica coloniale britannica, sarebbe stata fondata se esistesse almeno un
altro Stato arabo che non fosse nato dalla politica coloniale britannica o
francese
5
.
3
Sergio Romano, “Guida alla politica Estera italiana”, Rizzoli, Milano 2002
4
Ennio Di Nolfo, “Dagli imperi militari agli imperi tecnologici”, Mondadori, Milano 2002
5
Ennio Di Nolfo, “Storia delle relazioni internazionali 1918 – 1992”, Laterza, Bari 1994
8
Bisogna inoltre sottolineare che l’azione irachena rappresentava una
violazione assoluta del diritto internazionale in quanto soppressione di
uno Stato indipendente e membro delle Nazioni Unite. Se si fosse subita
una tale enormità in quel preciso momento storico senza reagire ogni
altro illecito sarebbe stato legittimato. Il lasciar passare tali gesti senza
ritorsioni avrebbe significato dar via libera a subimperialismi regionali,
mettendo in moto una catena di reazioni imprevedibilmente lunga, la
prima delle quali avrebbe probabilmente investito Israele. Inoltre la
concentrazione di risorse petrolifere nelle mani di un dittatore aggressivo
rappresentava un grave pericolo per i rifornimenti di greggio della CEE
prima ancora che degli USA
6
.
Ragioni di principio e di sostanza imponevano una reazione, ma solo
una risposta concertata e collettiva attraverso le Nazioni Unite avrebbe
impedito a Saddam di usare efficacemente l’arma del complotto
imperialistico degli Stati Uniti contro il mondo Arabo. Si inseriva a
questo punto la nuova realtà sovietica. Se la crisi fosse avvenuta solo un
paio d’anni prima, l’URSS non avrebbe esitato a sfruttare la situazione
per recuperare influenza nel Medio Oriente, adesso invece, nonostante la
contrarietà ad un intervento armato, a causa della crisi del Patto di
Varsavia e dei condizionamenti dati dai rapporti con gli USA, era
necessario schierarsi secondo la maggioranza del CdS, dove si registrava
anche la tacita adesione cinese. Il governo del Kuwait fece immediato
ricorso all’ONU che fra il 2 agosto e fine novembre adottò una serie di
deliberazioni contro l’Iraq culminate con l’egida all’uso della forza dal
15 gennaio 1991 per far applicare tutte le risoluzioni del CdS
inadempiute dal regime iracheno.
6
ibidem
9
I/2 Il Pentapartito
La Democrazia Cristiana
La democrazia cristiana era il partito di maggioranza relativa con il
33,4% di preferenze alle elezioni nazionali del 1987. Grazie al risultato
elettorale e agli accordi con gli alleati, specie con i socialisti, sia il
Presidente della Repubblica sia il Presidente del Consiglio erano
democristiani.
Nonostante che i socialisti di Craxi avessero meno della metà delle
preferenze degli Italiani, avevano imposto alla DC un accordo che
prevedeva l’alternanza alla presidenza del Consiglio. Così, dopo Sandro
Pertini e Bettino Craxi, Francesco Cossiga era salito al Quirinale e
Palazzo Chigi era tornato alla DC.
La democrazia cristiana viveva un momento di intensa crisi interna.
Proprio l’accordo coi socialisti aveva minato il potere fino ad allora
praticamente incontrastato della DC. Inoltre il governo Craxi era stato
(ed è ancora) il governo più lungo della storia dell’Italia repubblicana, un
vero successo per il PSI.
Per contrastare l’avanzata socialista nel 1982 venne eletto un nuovo
segretario, Ciriaco De Mita, leader della sinistra DC, vincolato ad un
accordo con il PSI dalla deliberazione del congresso nazionale e non
allearsi con il PCI. Intorno al nuovo segretario si strinsero le altre
correnti democristiane, rinunciando alla gestione collegiale del partito in
favore di un segretario forte, quasi una figura modellata proprio su Craxi.
10
Dopo sette anni, dopo aver constatato il calo del PCI, la scarsa avanzata
socialista e il fallimento della gestione De Mita, i notabili DC, con
Andreotti e Forlani in testa, ritennero che si potesse tornare alla
normalità, cioè che fosse ora di tornare alla collaudata formula della
dirigenza collegiale del partito. La scelta della DC era in controtendenza
con quelle degli altri parti politici italiani; il confronto politico si stava
spostando sempre più sul duello fra personaggi piuttosto che sulla
competizione degli apparati, fenomeno questo amplificato
dall’imponente figura di Craxi e seguito da quasi tutte le forze politiche,
come il PCI di Occhetto
7
Oltre alle questioni interne al partito c’erano quelle esterne: il calo del
PCI sulla scia del crollo dell’URSS unito all’avanzata del PSI, seppur
limitata, potevano portare a una situazione di sostanziale parità fra i due
partiti e alla tanto temuta unione dei due in un blocco progressista che si
contrapponesse alle coalizioni di governo democristiane; come a seguire
la strategia di De Mita che “propendeva più verso il bipolarismo che
verso la grande coalizione
8
”. De Mita stesso ha detto:
“Sono da tempo persuaso che bisogna creare le condizioni dell’alternativa […]. Io
voglio scommettere sulle capacità del PCI di rinnovarsi fino in fondo e di poter
costituire un’alternativa credibile per il governo del Paese e per il ricambio della
classe dirigente. Spero naturalmente che, anche quando questo rinnovamento sarà
compiuto, la DC sia in grado di meritarsi le preferenze della maggior parte degli
Italiani”.
7
Marco Follini, “L’arcipelago democristiano” pag.21, Laterza, Bari 1990
8
Marco Follini, La DC al bivio” pag.15, Laterza, Bari 1992
11
Questo scenario non era affatto auspicabile per la minoranza del partito
che si apprestava a diventare maggioranza. Questa si proponeva di
diminuire la conflittualità con il PSI. Secondo Follini, Forlani e
Andreotti sono gli interpreti maggiori dei questa seconda linea. Nella
dialettica del partito Forlani “giocava la carta della coerenza, della
conferma, della continuità: la sconfitta era l’effetto di un disorientamento
da recuperare. Egli non negava il cambiamento, ma lo poneva all’interno
delle coordinate storiche del partito. Avvertiva il valore della novità, ma
si sforzava di farla rientrare della tradizione. Non c’era una nuova DC da
giocare contro quella vecchia, c’erano due tempi da conciliare senza
spezzare nessun filo
9
”. Detta con le parole di Forlani:
“Il rischio che corriamo, l’errore forse fatale che stiamo commettendo è quello di
ritenere che la società secolarizzata chieda alla DC di trasformarsi nella sua stessa
direzione, in direzione dei fenomeni più vistosi che la caratterizzano. Il
cambiamento, questa parola magica e ambigua, che abbiamo adottato e fatto
adattare e amplificato e proiettato all’interno, rischia di diventare il boomerang del
suicidio […]. Io credo che la società secolarizzata e la civiltà industriale esigono
che la DC sia se stessa”.
C’era quindi bisogno di rinsaldare i legami con i compagni di
coalizione, specie con i socialisti, da sempre in pessimi rapporti con De
Mita e, contemporaneamente, cercare di limitare la conflittualità con il
PCI. Quale scelta migliore di Andreotti come presidente del Consiglio?
Andreotti era stato primo ministro durante la terribile VII legislatura ed
era stato ministro degli Esteri da 1983 al 1989, era insomma l’uomo
adatto non solo alla situazione nazionale ma anche internazionale, visti i
grandi cambiamenti all’orizzonte.
9
Marco Follini, “L’arcipelago democristiano”, pag.127
12
La decima legislatura, la legislatura a guida democristiana, iniziava con
queste due strategie politiche e i rispettivi schieramenti a confronto,
aspettando il congresso nazionale del 1989. Il primo governo, guidato da
Goria, uomo di De Mita, fu liquidato dopo meno di un anno; veniva
sostituito dal governo De Mita. La somma della carica di segretario della
DC a quella di primo ministro, due cariche di eccezionale importanza e
potere, non era mai stata accettata nella DC, anche se nel PSI aveva
funzionato perfettamente, oltre ad essere una prassi consolidata in altri
Paesi Europei (come in Gran Bretagna).
La scelta di diventare primo ministro caduto il governo Goria era
inevitabile per mantenere coerenza politica: difficilmente un altro uomo
della sinistra DC avrebbe potuto avere successo; De Mita sperava di
riuscire finalmente a portare a compimento quelle riforme istituzionali
per le quali combatteva da anni e realizzare il suo progetto politico. La
sua era la sola scelta coerente da prendere, ma era una scelta disperata
perché tesa a un progetto sostenuto dalla minoranza non solo del suo
partito ma dell’intera coalizione di governo e perché fatta in momento di
debolezza.
Gli avversari di De Mita orchestrarono con cura sia il cambiamento alla
segreteria sia quello alla presidenza del Consiglio.
Al XVIII congresso nazionale la DC era divisa in cinque correnti,
rispettivamente: Area del Confronto (la sinistra DC, o “area Zac”,
guidata da de Mita con Rognoni, Martinazzoli, Bodrato, Goria,
Zaccagnini), Forze Nuove (guidata da Donat Cattin), la corrente di
Andreotti (con Pomicino, Sbardella, Evangelisti), Nuove Cronache di
Fanfani e Azione Popolare, un cartello che riuniva tutti gli ex dorotei
(Gava, Piccoli, Colombo, Scotti ecc.) e Forlani
10
.
10
Mario Caciagli, “Il XVIII congresso della DC”, cap. VI de “Politica in Italia ‘90”, il Mulino,
Bologna 1991
13
Il congresso si apriva il 18 febbraio 1989. Sancì la sconfitta di De Mita e
la vittoria di Andreotti. De Mita perdeva la segreteria e veniva eletto
presidente del partito, un incarico di prestigio ma povero di potere.
Andreotti è ritenuto il vincitore del congresso perché la sua corrente è
l’unica che abbia aumentato sensibilmente i propri consensi (dal 14,2%
del XVII congresso del 1986 al 17,8% riuscendo ad ottenere buoni
risultati anche fuori dalla sua roccaforte tradizionale, il Lazio) e perché
il neosegretario, Arnaldo Forlani, era il candidato sponsorizzato dalla sua
corrente, oltre al fatto che dopo pochi mesi Andreotti divenne Presidente
del Consiglio proprio in virtù dei risultati del congresso.
Congressi 1982 1984 1986 1989
Sinistra/ 30,3 30,5 33,3 35
Area Zac
Forze Nuove 8,9 7,8 7,8 7
Andreotti 15,8 12,2 14,2 17,8
Fanfani 6,7 5,4 3,2
13,5 (F+F)
Forlani 9,9 11,7
Piccoli+ Bisaglia* 23,6
Piccoli + Gava* 2,8 14,8
Ex Bisaglia* 7,8 5,8
Colombo* 4,1 3,3 2,8
Rumor*(dal 1982 Scotti) 2,1 2,3 4,1
Azione Popolare (*dorotei + Forlani) 37,0
14
L’elezione di Forlani è stata principalmente il frutto di un accordo fra gli
andreottiani e i neodorotei, ai quali l’area Zac aveva proposto un accordo
alternativo che escludeva proprio Andreotti. L’operazione, presentata
come unitaria, perché al congresso Forlani era il candidato unico di tutte
le correnti, ha significato in realtà un radicale cambiamento nel gruppo
dirigente “con conseguenze decisive sui rapporti interni di potere, sui
metodi di gestione del partito e sull’applicazione della strategia politica e
programmatica
11
”, in altri termini la sinistra DC che era stata il cuore del
partito per sette anni andava all’opposizione.
De Mita accettò ciò che aveva fin ad allora osteggiato e cioè Andreotti
nella maggioranza e Forlani suo successore nella dichiarata convinzione
di assicurare l’appoggio del partito al suo governo e garantire continuità
alla sua linea politica
12
. Tre mesi dopo i socialisti aprivano la crisi di
governo da cui sarebbe nato il VI governo Andreotti.
La “nuova DC” uscita dal XVIII congresso nazionale era principalmente
il risultato di manovre di potere interno al partito e di ragioni di
opportunità di politica interna italiana. Ciò che i dirigenti della DC non
considerarono approfonditamente fu il cambiamento della società
italiana e delle relazioni internazionali, a differenza dei comunisti che,
pur fra mille contraddizioni e mediazioni, cercavano di mettere le basi
per un partito pronto alla nuova realtà degli anni ’90. Come dice
Gianfranco Pasquino:
“Le frazioni della DC sono quasi tutte saldamente radicate nel Paese e svolgono un
ruolo fondamentale nel mantenere al potere la DC. Disfunzionali a una gestione in
senso dinamico e progressista del governo, le frazioni sono altamente funzionali al
controllo dei più importanti centri di potere […]. La lentezza decisionale del nostro
sistema politico e le leggi – compromesso che spesso ne scaturiscono, derivano
11
Ibidem
12
Ibidem
15
sostanzialmente dalla necessità che ha il partito di maggioranza relativa di
conciliare tutti gli interessi che si confrontano al suo interno e che, se ne fanno un
partito frazionato, ne fanno altresì un partito rappresentativo”.
Quello che era stato il punto di forza della DC, cioè la rappresentatività,
stava diventando il suo punto di debolezza. Le correnti che fino ad allora
erano state canali di collegamento con la società erano diventate un
veicolo di lottizzazione interna, come pensava De Mita che però non era
riuscito a cambiare il partito
13
. Un rinnovo che gli elettori chiedevano,
come hanno dimostrato le elezioni regionali del maggio 1990: i dati
nazionali danno la DC in lieve calo, ma se si vanno a vedere i dati
regione per regione si scopre che nelle regioni del nord le perdite sono
forti (il dato della Lega Lombarda era assai preoccupante, aveva
raggiunto il 18,9% dei voti) e che la lieve variazione rispetto alle
politiche del 1987 è data dalla compensazione proveniente dalla
meridionalizzazione dei voti alla democrazia cristiana. Le elezioni del
nord d’Italia danno da sempre il termometro della situazione italiana
futura con buona approssimazione, il fatto di aver perso così tanti voti
doveva essere un chiaro segnale di allarme per la dirigenza del partito.
La DC che usciva dal congresso era pronta a discutere con cognizione di
causa di problemi vecchi, ma dimostrò di essere impreparata a discutere
di questioni nuove di politica internazionale, come appunto l’invasione
del Kuwait e successivamente la guerra del Golfo. Lo stesso Andreotti,
vicino alle organizzazioni cattoliche, fra cui Comunione e Liberazione,
sembrò sorpreso dagli avvenimenti.
13
Marco Follini, “L’arcipelago democristiano”, pag. 129