Homo ludens
1.0 Prefazione-introduzione
Quando noi uomini non risultammo essere così sensati (razionali) come il secolo dei Lumi,
ossia “il secolo placido del «culto della Ragione» ci aveva creduti”, si dette alla nostra specie,
accanto alla definizione di homo sapiens, anche quella di homo faber , uomo produttore. Questo
termine [sic!] era però meno esatto del primo perché anche più di un animale è faber. Ciò che vale
per il verbo ‘fare’, vale anche (forse a maggior ragione) a suo parere per il verbo ‘giocare’: parecchi
animali giocano.
Huizinga ritiene infatti che « l’homo ludens , l’uomo che gioca, indichi una funzione almeno così
essenziale come quella del fare», poiché si deve riconoscere che «ogni azione umana appare un
mero gioco». Questa visione è presente nelle sue opere fin dal 1903, anno della sua orazione (sui
limiti del gioco e del serio nella cultura) per l’incarico di rettore all’Università di Leida.
Si tratta di domandarsi non quale posto occupi il gioco fra i vari fenomeni culturali, ma in qual
misura la cultura stessa abbia carattere di gioco; è necessario in qualche modo integrare il concetto
di gioco in quello di cultura.
Huizinga dichiara poi che il gioco è considerato nell’opera come fenomeno culturale, e non
(non almeno in primo luogo) come funzione biologica, e per questo è trattato con i mezzi della
sociologia. Egli annuncia che ha tentato di astenersi il più possibile dalla interpretazione psicologica
(sebbene la ritenga importante) e che trova insoddisfacenti gli strumenti etnologici di approccio al
gioco (Huizinga 2002, XXXI-XXXII).
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1.1 Natura e significato del gioco come fenomeno culturale
Il gioco è più antico della cultura, poiché il concetto di cultura presuppone una qualche
forma di convivenza umana, ma il gioco è presente anche nel mondo animale, nel quale non è stato
introdotto dall’uomo. Gli animali non hanno dovuto attendere che l’uomo insegnasse loro a giocare.
Basta osservare i cuccioli ruzzare per vedere i tratti fondamentali del fenomeno che condividono
con l’uomo:
1) si invitano al gioco con gesti e atteggiamenti cerimoniosi;
2) osservano la regola che non si deve mordere a sangue l’orecchio del compagno;
3) fingono di essere arrabbiatissimi.
Comportandosi in questo modo «provano evidentemente in massimo grado piacere o gusto»
(Huizinga 2002 , 5), ma questa non è che la forma più semplice del gioco animale, ve ne sono altre
che assomigliano a vere e proprie gare o addirittura a rappresentazioni per spettatori.
Già nelle sue forme più semplici e nella vita animale il gioco è qualcosa di più di un fenomeno
puramente fisiologico e una reazione psichica fisiologicamente determinata. Il gioco come tale
oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica; è una funzione che contiene un senso. Nel gioco
è presente qualcosa che oltrepassa l’immediato istinto al mantenimento della vita, che rivela un
senso.
Se chiamiamo spirituale il principio attivo che dà al gioco la sua essenza, allora diciamo troppo; se
lo chiamiamo istinto non diciamo nulla. Comunque lo si voglia considerare, il gioco rivela
inequivocabilmente un’«intenzione», un elemento immateriale nella sua natura.
La psicologia e la fisiologia hanno tentato di definire la natura e il significato, l’origine e la
base del gioco di volta in volta come:
1) esercizio per liberarsi dell’eccedenza (del superfluo) di forza vitale;
2) gusto innato di imitazione;
3) soddisfazione del bisogno di rilassamento;
4) esercizio preparatorio alla grave operosità della vita;
5) allenamento all’autocontrollo;
6) risposta al bisogno di causare e di essere capaci di qualche cosa;
7) ansia di dominio sugli o di concorrere con gli altri membri del gruppo;
8) evacuazione di istinti nocivi;
9) appagamento, attraverso la finzione, di desideri inappagabili (e in quanto tale, capace di
conservare il senso della personalità).
Tutte queste spiegazioni hanno in comune la supposizione che il gioco avvenga in funzione
di un’altra cosa (nel suo significato teleologico-oggettivo), dotata di utilità biologica. Le risposte
sono tutte accettabili, ne consegue per Huizinga che sono tutte parziali. Se una di esse fosse
definitiva dovrebbe escludere le altre (essenzialismo). Nessuna affronta il problema di cosa sia il
gioco in sé e della sua «qualità profondamente estetica». L’intensità del gioco non è spiegata da
nessuna di queste interpretazioni, sebbene proprio nella sua «facoltà di far delirare, sta la sua
essenza, la sua qualità».
Il «gusto» del gioco resiste a ogni analisi o interpretazione logica. Questa sua qualità
irriducibile non è per la nostra sensibilità linguistica moderna, espressa in nessuna lingua così
perspicuamente come nell’inglese fun, recente nell’uso comune. Più o meno vi corrisponde in
tedesco spass , preso insieme a witz . Il francese, fatto curioso, non ha un equivalente per tale
nozione. Nel gioco abbiamo a che fare con una categoria di vita assolutamente primaria, con una
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«totalità». Il gioco non può essere fondato su un rapporto razionale, poiché l’ipotesi che sia basato
sulla ragione lo limiterebbe al solo mondo umano, cosa che come si può facilmente appurare si
estende anche al mondo animale.
Il gioco, qualunque sia la sua essenza, non è materia: oltrepassa già nel mondo animale i
limiti dell’esistenza fisica. Solo per l’influenza dello spirito «l’esistenza del gioco diventa possibile,
immaginabile, comprensibile». Il gioco è per Huizinga irrazionale (Huizinga 2002, 6).
L’uomo che volge lo sguardo alla funzione del gioco lo trova nella cultura «come una data
grandezza, esistente prima della cultura stessa, che ne viene accompagnata poi attraversata». La
analisi scientifica riesce a ridurre il suo modo e la sua qualità a fattori quantitativi? Il gioco risulterà
a questo sguardo come una «forma in senso pregnante, come una funzione sociale, [una] struttura
sociale» (Huizinga 2002, 6).
Le principali manifestazioni della cultura sono tutte intessute di gioco. Il linguaggio, per
esempio, «quel primo e supremo strumento che l’uomo ha creato per poter comunicare, imparare e
comandare» (Huizinga 2002, 6), con il quale «distingue, definisce, stabilisce, insomma nomina,
cioè attira le cose nel dominio dello spirito. Lo spirito creatore della lingua, giocando, passa
continuamente dal materiale allo spirituale. Dietro a ogni espressione dell’astratto c’è una metafora,
e in ogni metafora c’è un gioco di parole» (Huizinga 2002, 6). Il mito è una trasfigurazione
dell’esistente, ma più elaborata della parola. L’uomo primitivo cerca col mito d’interpretare le cose
terrene, e col mito fonda le realtà umane su una base divina. In ogni figurazione capricciosa di cui il
mito riveste l’esistenza c’è uno spirito ingegnoso che gioca sui limiti tra scherzo e serietà. Infine c’è
da parlare del culto. La collettività primitiva compie le sue azioni sacre che le servono di garanzia
per la salute del mondo, e le sue consacrazioni, i suoi sacrifizi, i suoi misteri con giochi autentici nel
senso più stretto della parola.
Nell’ambito del mito e del culto sorgono le grandi attività della vita culturale: amministrazione della
giustizia e ordine, traffico e industra, artigianato e arte, poesia, filosofia e scienza. Anche queste
sono dunque radicate in tale base di azione giocosa. È scopo di questo studio cercare di considerare
la cultura sub specie ludi. L’idea non è nuova, già in voga all’inizio del Seicento con la nascita del
teatro profano. Shakespeare, Calderón e Racine paragonano il mondo a una rappresentazione in cui
ognuno ha la sua parte. Con ciò il carattere ludico della vita culturale sembra interamente
riconosciuto. Se si osserva meglio, questo paragone risulta concepito però su basi platoniche, in
gran parte caratterizzato dalla predica morale: una variazione del vecchio tema della vanitas , un
lamento per la vanità di tutte le cose terrene. Non era ancora riconosciuta od espressa «l’effettiva
compenetrazione di gioco e cultura» (Huizinga 2002, 7).
Nella nostra coscienza il gioco si oppone alla serietà, ma questa opposizione non pare né
conclusiva né stabile. Possiamo dire che il gioco è non serietà, ma un tale giudizio non dice nulla
delle qualità positive del gioco ed è molto precario. Appena noi diciamo il «gioco non è serio»
piuttosto che «il gioco è non serietà», ecco che il contrasto viene già a mancare, perché il gioco può
essere benissimo serio. L’aristotelico animal ridens caratterizza l’uomo in contrasto con gli animali
quasi meglio di homo sapiens.
Il riso si oppone senz’altro alla serietà ma non si unisce affatto direttamente al gioco. Bambini,
calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere. Ciò che vale
per il riso vale anche per il comico: esso è parte della categoria della non serietà, ha un certo
rapporto col riso, lo eccita, ma il suo rapporto col gioco è di natura secondaria. Il gioco in sé non è
comico, né per i giocatori, né per gli spettatori. Il comico è legato alla follia, il gioco però non è
folle è «al difuori del contrasto saggezza-follia» (Huizinga 2002, 8). Nell’uso linguistico del tardo
Medioevo, la coppia di termini folie et sens coincideva più o meno con la nostra distinzione di gioco
e serietà.
Se tentiamo di confrontare il gioco con il riso, la facezia, lo scherzo, il comico, la follia e
altre «forme di vita» apparentemente affini, ne vediamo però rapidamente la sua «irriducibile
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indipendenza» (Huizinga 2002, 9). Se il gioco sta al di là della distinzione saggezza-follia, resta
escluso anche da quella verità-falsità e da quella bene-male. Il gioco in sé, benché attività dello
spirito, non contiene una funzione morale, né virtù, né peccato.
Se il gioco non si collega direttamente col vero né col buono, forse si trova allora nel dominio del
bello? La bellezza caratterizza molti elementi del gioco, che fin nelle sue forme più primitive
possiede gentilezza e grazia, ritmo e armonia, «le doti più nobili della facoltà percettiva estetica che
siano date all’uomo» (Huizinga 2002, 9).
Il gioco non si lascia dunque determinare appieno né biologicamente, né logicamente o eticamente.
Il soggetto del saggio (il rapporto tra gioco e cultura), a parere di Huizinga, permette di non
esaminare tutte le forme esistenti di gioco, ma di limitarsi ai giochi di indole sociale, ai giochi
superiori.
1) Libertà del gioco. «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero». «Il gioco comandato non
è più gioco. Tutt’al più può essere la riproduzione obbligata di un gioco. Già per questa sua libertà il
gioco esorbita dal processo puramente naturale» (Huizinga 2002, 10-11).
2) Superfluità del gioco. «Il gioco è superfluo, il bisogno di esso è urgente solo in quanto il
desiderio lo rende tale. Il gioco può in qualunque momento essere differito o non aver luogo. Non è
imposto da una necessità fisica, e tanto meno da un dovere morale. Non è un compito. Si fa
nell’ozio, nel momento del loisir dopo il lavoro» (Huizinga 2002, 11).
Il gioco non è la vita ordinaria e vera è un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea
di attività con finalità tutta propria. Già il bambino sa perfettamente di «fare solo per finta», di «fare
solo per scherzo» (Huizinga 2002, 11). Ogni gioco può in qualunque momento impossessarsi del
giocatore. L’antitesi gioco-serietà rimane instabile.
3) Carattere disinteressato del gioco. Non essendo la vita ordinaria sta al di fuori del processo di
immediata soddisfazione di bisogni e desideri. Interrompe quel processo. Vi si introduce come
un’azione provvisoria che ha fine in sé, ed è eseguita per amore della soddisfazione che sta in
quell’esecuzione stessa. È indispensabile all’individuo ed è indispensabile alla collettività per il
senso che contiene, per il significato, per il valore espressivo, per i legami spirituali e sociali che
crea, insomma in quanto funzione cultu-rale. Appartiene a una sfera superiore a quella strettamente
biologica del processo nutrimento-accoppiamento-difesa.
4) Sacralità del gioco. Il gioco umano in tutte le sue forme superiori, in cui significhi o celebri
qualche cosa, occupa un posto nella sfera della festa e del culto, nella sfera sacra cioè (Huizinga
2002, 13).
5) Limiti temporali e spaziali del gioco. Il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata. Si
svolge entro certi limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un senso in sé.
Comincia e a un certo momento è finito. Mentre ha luogo c’è un mo-vimento, un andare su e giù,
un’alternativa, c’è il turno, l’intrigo e il distrigo. Il gioco si fissa inoltre subito come forma di
cultura. Giocato una volta, permane nel ricordo come una creazione o un tesoro dello spirito, è
tramandato, e può essere ripetuto in qualunque momento, sia subito, come è per i giochi infantili,
per il tric-trac, per una gara, sia anche dopo un lungo intervallo. Questa possibilità di ripresa è una
delle qualità essenziali del gioco. Vale non solo per il gioco come un tutto, ma anche per la sua
struttura interna. In quasi tutte le forme più sviluppate del gioco si possono riscontrare gli elementi
della ripresa, del ritornello, del cambio di turno. Notevole più ancora della sua limitazione nel
tempo, è la sua limitazione nello spazio. Ogni gioco si muove entro il suo ambito, il quale, sia
materialmente, sia nel pensiero, di proposito o spontaneamente, è delimitato in anticipo. Come
formalmente non vi è distinzione tra un gioco e un rito, e cioè il rito si compie con le forme stesse di
un gioco, così formalmente non si distingue il luogo destinato al rito da quello destinato al gioco.
L’arena, il tavolino da gioco, il cerchio magico, il tempio, la scena, lo schermo cinematografico, il
tribunale, tutti sono per forma e funzione dei luoghi di gioco, cioè spazio delimitato, luoghi
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