3
Costituente e negli anni a seguire, sulla giusta collocazione e su una possibile definizione, e ancor
prima, su un possibile «diritto (disciplina) dei partiti», specie in termini di “democraticità” interna.
Il pluripartitismo è inequivoco segno di pluralismo politico. È un principio metagiuridicamente
fondato, prima ancora che un precetto o una regola, quale che ne sia la qualificazione; un principio
accolto dalla nostra realtà costituzionale, come risposta semplice, lineare ed immediata
all’esperienza del partito unico, realtà istituzionalmente e strutturalmente priva di confronto
dialettico (quale corollario, questo, della “pluralità”). L’essenza del pluralismo-pluripartitismo è il
partito politico, inteso non tanto come struttura o apparato (ridotto per lo più a strumento di mero
potere), quanto come “realtà” mediana tra due estremi: il popolo, come complesso di individui
recanti con sé bisogni ed interessi e la struttura statuale, quale realtà strumentale e finale allo stesso
tempo, per la realizzazione di tutte queste istanze.
Il partito è la realtà di collegamento e prima ancora il filtro dell’“indistinto” (pluralità di istanze),
che si specifica puntualmente, per poi trovare con e nello stato-apparato, pressoché concreta
realizzazione (alla luce di questo schema ideale, è dato constatare tuttavia che la realtà fattuale è
ben diversa e se ne discosta frequentemente).
D’obbligo si presenta, inoltre, un veloce sguardo ad alcune legislazioni straniere, in un raffronto
comparato che cerchi di rendere più ampio l’angolo di conoscenza del finanziamento (lecito ed
illecito) ai partiti politici, in una gamma di soluzioni normative che rendono variegata e non univoca
la risposta sostanzial-processuale data al problema di studio, registrando in ogni caso una
disarmante attiguità con il fenomeno corruttivo del settore privato e delle pubbliche
amministrazioni.
Invero, il profilo del finanziamento partitico oggetto d’esame, è stato il simbolo, il marchio, per
certi versi, il cavallo di battaglia di una giurisprudenza supplente di una assente, riottosa,
dolosamente ignava classe politica, in quel fenomeno latamente “socio-culturale” conosciuto come
“Tangentopoli”
4
, sebbene il nostro Paese sia da sempre stato attraversato da “scandali”, che, forse,
hanno avuto in meno rispetto al primo, solo l’eco pubblica, o il “non-privilegio” di avere accelerato
il passaggio dalla c.d. “Prima Repubblica” alla c.d. “Seconda Repubblica” (in un’accezione
comunque più da slogan giornalistico o da annali di storia, che non in una di carattere schiettamente
tecnico-giuridico, dacché quel blasonato passaggio, sotto il profilo della nostra Costituzione, non
c’è ancora stato: l’assetto istituzionale e costituzionale in genere è sempre rimasto lo stesso, dalla
“Prima” alla “Seconda Repubblica”
5
).
A tal ultimo proposito è tuttavia opportuno sottolineare come per molti, la legge elettorale del
1993 (che ha modificato in senso maggioritario il relativo sistema, fino ad allora di marca
proporzionale), abbia di fatto consacrato l’ingresso nella c.d. “Seconda Repubblica”, registrando
4
«Le disposizioni sull’illecito finanziamento sono state utilizzate, dagli organi inquirenti, quali vere e proprie “norme-
civetta”, che hanno permesso la scoperta di molti gravi fenomeni di degenerazione della vita amministrativa e politica
(il riferimento dell’Autore va, in particolar modo, ai reati di corruzione e di concussione)» (MANNA A., Corruzione e
finanziamento illegale ai partiti, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1999, p. 154).
5
Tanto ciò è vero che l’unico terreno che determinerebbe quel decantato passaggio, sarebbe quello della riforma
costituzionale. A tal proposito è opportuno ricordare che «cambiare la Costituzione è l’extrema ratio che una classe
politica in crisi ha per – cercare di – cavarsi d’impaccio. Quando i conflitti interni superano la soglia di guardia, e non si
intravedono risorse adeguate ed autorevoli per gestire e orientare il cambiamento, cresce la tentazione di porre mano
alle regole fondamentali del gioco. Sia per l’alto valore simbolico che la Costituzione riveste agli occhi dei cittadini,
cercando così di erigere la riforma costituzionale ad atto di rifondazione di una legittimità politica incerta. Sia per
l’ampio potere manipolativo che – almeno in teoria – le norme costituzionali promettono a chi riesce a riformularle.
Dato il valore della posta in gioco, la partita è molto rischiosa» (CALISE M., La Terza Repubblica. Partiti contro
presidenti, Roma-Bari, 2006, p. 109). Invero, altro Autore (LEPRE A., Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943
al 2003, Bologna, 2004, p. 376) seppure da un lato conferma le parole dello scrivente, dall’altro esprime vivamente la
sua opposta tesi, dicendo che: « … sono ancora convinto che un’epoca della nostra storia si è chiusa, anche se non ne è
ancora cominciata una nuova (da qui il titolo dell’Appendice al suo libro: “La transizione infinita” dalla Prima alla
Seconda Repubblica, N.d.A.). Non si può negare che, se la forma della Costituzione è rimasta pressoché intatta, lo
spirito che aveva animato i costituenti è quasi del tutto scomparso e, rispetto ai giorni in cui essa entrò in vigore, sono
profondamente cambiati i sentimenti e le passioni degli italiani».
4
quel trapasso già inaugurato, se non del tutto causato e portato alle sue estreme conseguenze dalle
inchieste di Mani Pulite
6
.
Mi permetterei, però, di riflettere sulle parole e sulle dichiarazioni rese dai principali esponenti
politici della c.d. “Prima Repubblica” traghettati nella “Seconda”, a voce dei quali, invero, la crisi
dei principali partiti “decapitati” (come si è ormai largamente inteso il fenomeno) dalle suddette
inchieste, fosse già in itinere
7
.
Per motivi di completezza, ha trovato spazio anche l’idea di una novella “Terza Repubblica” in
linea con un ritorno ad assetti elettorali di natura proporzionale, secondo le indicazioni della legge
elettorale approvata nel 2005
8
.
E vien da chiedersi sommessamente e con un filo d’ironia appena accennato: pur innestandosi
nel sistema un intervento legislativo in linea con il 1993, si determinerebbe l’ingresso in una novella
“Quarta Repubblica”?
A prescindere dal proliferare delle “Repubbliche”, in quel groviglio di ansie definitorie, parrebbe
più sensato fermarsi al principio, ad una Repubblica cioè, che sia ancora la Prima, per struttura e
protagonisti istituzionali.
Le inchieste giudiziarie sugli ulteriori scandali finanziari, quali il crac Parmalat e “Bancopoli”
(che l’Italia abbia la malsana dedizione per il gioco dei richiami è, anche da ciò, del tutto evidente),
hanno riesumato ancora una volta il reato di finanziamento illecito al mondo politico, in un percorso
corruttivo e di inquinata trasparenza che, pare, abbia interessato un movimento di denaro di gran
lunga superiore a quello circolato a “Tangentopoli”.
Ebbene, riannodando le fila del discorso già avviato, proprio in quella sede giudiziaria e
mediatica (“Tangentopoli”, per l’appunto), il reato di finanziamento illecito ai partiti politici ha
conosciuto una “seconda giovinezza” operativa ed applicativa, per lo più intrecciandosi con reati
contro la P.A. e con reati societari. Anche le problematiche, dunque, di interrelazione tra tutte
queste fattispecie penali saranno attenzionate nell’ultimo capitolo. Tuttavia, prima di avviare il
lettore alla disamina del presente scritto, appare opportuna un’ultima puntualizzazione.
Va rilevato poco entusiasticamente che l’argomento de quo, se da un lato è stato oggetto sparso
di vari articoli su diverse riviste di settore, dall’altro lato è stato oggetto di due sole monografie:
l’una del 1990 (G. Spagnolo, I reati di illegale finanziamento dei partiti politici, Padova, Cedam),
l’altra del 1998 (F. Forzati, Il finanziamento illecito ai partiti politici. Tecniche di tutela ed esigenze
di riforma, Napoli, Jovene Editore).
Invero non una abundantia di fonti, seguita da sporadiche pronunce giurisprudenziali, pressoché
confermative delle linee e delle tendenze già consolidate sull’argomento. Il finanziamento illecito ai
partiti politici non è più oggetto di studio. Non è più al centro di clamori e scalpori. È annebbiato da
un tenue oblio che s’avanza quieto. O forse è già stato detto tutto.
E pare proprio questo il momento risolutore delle perplessità testé enunciate: il dire tutto copre
ogni sorta possibile di ulteriore sviluppo argomentativo (tranne che per certi aspetti o questioni,
come si tenterà di fare nel prosieguo di questa tesi). Tuttavia non è segno (negativo) di povertà
“intellettuale”: è al contrario un unanime punto di arrivo. La legge sul finanziamento illecito ai
partiti politici, infatti, è nata già con il morbo dell’insufficienza radicato nel suo seno; è nata
moribonda perché fu questa la reale volontà redazionale del legislatore dell’epoca.
È legge simbolica, pressoché inservibile.
Quel punto di arrivo è il punto di avvio per una critica concorde che dal 1974 ad oggi non si è
arrestata e che segna, con forza, la necessità di un intervento. Il legislatore deve rivedere tutto
6
«È opinione corrente che le prossime elezioni politiche segneranno il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
In realtà, finora è cambiato soltanto il sistema elettorale» (VALIANI L., La Nuova Repubblica, in “Corriere della Sera”,
14 gennaio 1994).
7
Cfr. LEPRE A., Storia della prima Repubblica, op. cit., pp. 319 ss.
8
Sulle leggi elettorali e sull’importanza inconsistente ad esse assegnata, Calise sottolinea quanto sia utile non
commettere un errore in particolare: «L’errore di sopravvalutare il ruolo che una legge elettorale può avere nel cambiare
un sistema politico» (CALISE M., La Terza Repubblica, op. cit., p. 5).
5
l’impianto inerente l’argomento in oggetto; è un edificio fatiscente, bisognoso di recuperi strutturali
non più procrastinabili nel tempo. Invero di tempo ne è già trascorso parecchio e attendere gli
smottamenti di nuove “Tangentopoli” (sebbene mai tardino ad arrivare, come è accaduto) sarebbe
inutile, tanto più che l’impianto normativo (quell’edificio fatiscente e decrepito) non è stato
minimamente interessato da quel sisma giudiziario. Ne hanno risentito (questo si) i nostri sistemi
istituzionale, parlamentare, giudiziario, socio-culturale, economico, la credibilità interna ed
internazionale del paese, ma non anche l’impianto normativo, o meglio, la struttura che più d’ogni
altra avrebbe necessitato di stravolgimenti di sicuro beneficio.
2. – Lo scandalo dei petroli
«Recuperare la credibilità» fu lo scopo della legge del 1974. Gli scandali e gli intrecci illegali e
non trasparenti, l’inquinamento del mondo istituzionale e della pubblica amministrazione,
imponevano ai partiti quell’operazione di recupero.
Invero, la storia repubblicana è colma di scandali e collusioni tra “pubblico” e “privato”; tuttavia
è il 1974 ad emergere come data cruciale ai fini del nostro studio, giacché è solo in quell’anno che
vengono alla luce il primo scandalo dei petroli, lo scandalo dei fondi neri Montedison, quello sulla
truffa per falsi danni di guerra e si avvia l’inchiesta per lo scandalo dell’Anas. Per i petroli 35 avvisi
di reato vengono inviati a petrolieri, dirigenti ENEL, politici, per fondi versati dalle società
petrolifere ai partiti, al fine di influenzare la politica energetica del governo in senso antinuclearista.
L’accusa è di avere preso 30 miliardi di lire dall’Unione petrolifera per indurre con dati falsi ad
aumentare il prezzo della benzina del 30%.
Infatti, «le sovvenzioni ai partiti in relazione a provvedimenti a favore dei petrolieri benché
datino dal 1966 e si protraggano sino al 1973» saranno conosciuti dall’opinione pubblica solo nel
1974 «a seguito della denuncia di un privato che si è visto negare una fornitura di petrolio nel
difficile periodo seguito alla guerra arabo-israeliana del Kippur»
9
. Nel 1973 i paesi arabi dell’OPEC
avevano deciso di ridurre del 5% la produzione del greggio destinato ai paesi schieratisi con Israele,
impegnato contro Egitto e Siria, nella guerra del Kippur per l’appunto. La decisione dell’OPEC
diede il via ad una grande speculazione, a tutto favore delle compagnie petrolifere che sostituirono
il greggio arabo, giocando “al rialzo” in un clima di “austerità” (targhe alterne e biciclette come
mezzi di locomozione; riduzione dei consumi di energia elettrica). La magistratura scoprì «che i
petrolieri operanti in Italia si erano trasformati in una sorta di grandi elemosinieri dei partiti di
governo per ottenerne favori che li ripagavano a iosa delle dazioni effettuate. Pagavano e
ricevevano, i nostri petrolieri, e i beneficiari di quelle dazioni erano la DC, i socialisti, i
socialdemocratici, i liberali, i repubblicani, ciascuno secondo la sua forza parlamentare e politica
rigorosamente soppesata. Lo scandalo fu enorme e mise a rischio il sistema al punto che gli stessi
capi-partito che avevano incassato milioni e miliardi si resero conto della necessità di una svolta.
Nacque così la legge sul finanziamento pubblico
10
[…]. Ma erano passati pochi mesi che la
corruttela e l’omertà ripresero lena»
11
.
Precisa a tal proposito Galli: «Il fatto che i rimedi via via escogitati (dall’incompatibilità alle
inchieste parlamentari e poi al finanziamento pubblico ai partiti) non abbiano modificato la
situazione, mentre al contrario la corruzione e i misteri irrisolti sono diventati normali, indica
9
GALLI G., L’Italia sotterranea. Storia, politica, scandali, Roma-Bari, 1983, p. 135.
10
La logica, invero poco logica e repentinamente smentita dalla prassi, fu la seguente: si diano ai partiti soldi pubblici
attraverso il canale del finanziamento politico e, in tal modo, non soccorreranno più le tangenti e le sovvenzioni illecite,
al pari di quanto accaduto con lo scandalo dei petroli. Ma fu una delle tante (mi si permetta l’espressione) «promesse da
marinaio» fatte all’opinione pubblica e, ripetiamo, puntualmente smentita.
11
SCALFARI E., Quando la politica ha ucciso se stessa, in “La Repubblica”, 2 novembre 2003. Si riporta il passo di
Scalfari per la concisa quanto puntuale chiarezza espressiva che rende bene al lettore, in poche righe, la portata
dirompente e sconcertante di quello scandalo.
6
evidentemente che ci si trova di fronte non alla patologia, ma alla fisiologia, di un sistema politico
che non riesce a far fronte ai processi degenerativi»
12
. È una “regola”, invero, non solo italiana (ma
resa dal “caso italiano” del tutto peculiare), eretta a fondamento di un sistema esteso e saldo, che da
uno scandalo fuoriesca un clima d’emergenza, a sua volta necessario (e sufficiente) a giustificare
provvedimenti altrimenti non giustificabili, attraverso i quali frenare la portata (non sempre,
purtroppo) dirompente della contestazione specie dell’opinione pubblica, per acquietare umori e
ridurre lentamente il caos mediatico a quotidiano silenzio-assenso per porre, infine, le premesse di
un nuovo scandalo.
Infatti «la denuncia dello scandalo dei petroli si risolse non in un indebolimento, ma in un
rafforzamento, della classe politica attraverso il varo in tempi rapidissimi di una legge per il
finanziamento pubblico dei partiti per evitare – si disse – la corruzione attraverso le tangenti. Ma
nello stesso periodo… vennero poste le premesse per l’ulteriore scandalo dei petroli, che verrà reso
noto alla fine del 1980»
13
. Le truffe legate ai prodotti petroliferi non sono appannaggio dei soli anni
settanta, ma caratterizzano, seppure per vicende processuali, protagonisti e circostanze differenti,
anche il decennio successivo.
I primi punti di arrivo giudiziari si concretano nelle udienze dei seguenti processi: “Isomar 1”
(sentenza di 1° grado del 1981 e sentenza di appello del 1982 di conferma della condanna) e
“Isomar 2” (sentenza di 1° grado del 1981 e sentenza di appello del 1984 di conferma della
condanna), in cui vengono condannati alcuni petrolieri. I processi erano basati su un percorso
investigativo che nel 1978 coinvolse diciotto diverse procure, tra le quali quelle di Torino, di
Venezia, di Milano, di Treviso, la stessa che avviò l’inchiesta in oggetto, su una truffa all’Erario per
2000 miliardi (lo «scandalo dei 2000 miliardi» appunto, espressione con cui si faceva riferimento
sinonimicamente a questo secondo «scandalo dei petroli»).
La truffa consistette in questo: un gruppo di petrolieri, eludendo i controlli, importava gasolio
per benzina spacciandolo per gasolio da riscaldamento, lucrando così la differenza tra le due diverse
imposte sulle due suddette tipologie di carburante, imposte evase attraverso la compilazione di falsi
moduli.
La struttura della truffa in oggetto evidenzia, già da subito, come operazioni di siffatta natura
potessero avere possibilità di esistenza solo grazie alle disposizioni di legge favoritive (disposizioni
create ad hoc dai partiti al potere o modificando quelle già in vigore) e grazie anche al sostegno
interessato di precise personalità, quali politici e ancor prima dei vertici della Guardia di Finanza.
Non è un caso che quello scandalo venne segnato dai nomi del comandante del Corpo, Raffaele
Giudice (nominato alla carica proprio nel 1974) e del Capo di Stato Maggiore del medesimo Corpo,
generale Donato Lo Prete. Essi sono al centro del procedimento detto “Giudice 1”, che si
concluderà con la sentenza del Tribunale di Torino del 23/12/1981, poi confermata in appello,
riconoscendosi la responsabilità penale, tra gli altri, dei due ufficiali della G.d.F..
Ma tra i tanti procedimenti, in particolare, uno acquistò rilievo: è il procedimento 349/81, aperto
dal g.i. del Tribunale di Torino, Mario Vaudano, contro Gissi (ex ufficiale della G.d.F.), Galassi (ex
ufficiale della G.d.F.), Milani (petroliere), Musselli (petroliere), Boatti (petroliere).
Nell’agosto del 1985 ci sarà la richiesta di rinvio a giudizio per tutti gli imputati del
procedimento 349/81, delineandosi, secondo i giudici di Torino, un quadro del contrabbando
all’interno del quale i petrolieri, gli ufficiali della G.d.F., i partiti politici, avevano ognuno un ruolo
ben preciso. Infatti i petrolieri organizzarono e realizzarono il contrabbando, evadendo
sistematicamente l’imposta di fabbricazione sui prodotti petroliferi; i finanzieri coprirono i
petrolieri nella loro attività, grazie ai posti di comando da essi occupati nei reparti nevralgici per il
contrabbando medesimo (infatti l’intera truffa non poteva prescindere dagli uomini dell’Ufficio
Tecnico Imposte di fabbricazione (Utif) del servizio doganale, che collaborava con la G.d.F.); i
politici nominarono uomini compiacenti alle cariche e negli uffici necessari a che il contrabbando si
svolgesse indisturbato e con le coperture opportune.
12
GALLI G., L’Italia sotterranea, op. cit., pp. 27-28.
13
Ivi p. 162.
7
Nel 1987 Gissi, Galassi, Milani, Musselli, Boatti, insieme a Giudice e Lo Prete, verranno
condannati per i reati di associazione a delinquere, contrabbando, corruzione, frode ai danni
dell’Erario; ma in appello alcune di quelle condanne saranno riviste.
Tra i politici, processualmente emerse il nome del democristiano Freato (prima a capo della
segreteria di Aldo Moro, poi di quella del ministro Antonio Bisaglia, costretto a dimettersi per lo
scandalo in questione, allo stesso modo di Rumor, Gui e Tanassi, per lo scandalo Lockheed),
assolto con formula piena in appello. Non fu il solo uomo politico ad entrare in quei processi,
giacché emerse che Gissi avesse erogato dei finanziamenti anche ad altri politici della Dc, ma anche
del Psi e del Psdi.
Ad ogni buon conto la realtà processuale negò la qualità di registi dello scandalo ai politici
coinvolti. Affermeranno i giudici nella sentenza di 1° grado: «Il contrabbando ci fu, ma le cc.dd.
protezioni politiche non sono state provate». Il centro di tutto l’affare sta proprio nella
partecipazione politica perché è evidente che «la truffa è di proporzioni tali che né leggi favorevoli,
né protezioni a livello amministrativo (sino al vertice della Guardia di finanza) possono bastare a
spiegare come una attività economica coinvolgente il 20% annuo per sette anni dei prodotti
petroliferi raffinati in Italia abbia potuto svolgersi senza intralci»
14
.
Per ben sette anni; che poi lo scandalo esploderà agli occhi dell’opinione pubblica solo sette anni
più tardi, è copione già scritto e letto per altri scandali: prima l’affare-truffa nasce e prospera
indisturbato, poi, e solo “poi”, viene alla luce quasi sempre perché uno dei protagonisti o dei co-
protagonisti abbandona (o si vede costretto ad abbandonare) il ‘progetto’ speculativo ovvero perché
le dimensioni dello scandalo sono ormai tali e talmente ingenti, da non poter essere più gestite in
condizioni di silenzio e di compiacenza
15
.
Giorgio Galli dirà: «Nel periodo dello scandalo il gruppo dominante e determinante in Italia fu il
ceto politico di governo. Qui è la cuspide della piramide. Se altrove si dice che i governi passano,
ma la polizia resta, in Italia si può dire che i falsi burattinai passano, ma i veri burattinai restano»
16
.
Invero, «la miscela che genera ricorrenti scandali in Italia è questa: l’analfabetismo morale,
l’indifferenza a quel che il mondo reale dei cittadini pensa dei propri dirigenti, l’esistenza di piccole
cricche esoteriche dove il senso etico degenera perché gli iniziati si abituano a darsi ragione gli uni
14
Ivi pp. 194-195.
15
Per gli scandali c’è un certo interesse «una volta che questi siano venuti in superficie, dimenticanza per il resto. Vale
a dire: se proprio se ne deve parlare se ne parla, ma solo di quelli «grossi», che colpiscono il lettore più sprovveduto
(…); mentre per il resto è necessario il maggior silenzio possibile…» (CAZZOLA F., La politica fra corruzione e
morale, in “Democrazia e diritto”, 1987, 6, p. 107, in merito al silenzio della stampa su buona parte degli scandali della
storia repubblicana). Di rilevante interesse è l’analisi di Della Porta (DELLA PORTA D., Lo scambio occulto. Casi di
corruzione politica in Italia, Bologna, 1992), secondo cui uno scandalo evolve in diverse tappe: la “denuncia”, la
“pubblicizzazione”, la “difesa” dei personaggi coinvolti, la quale in Italia passa attraverso «il tentativo di dimostrare
soprattutto la «vulnerabilità», o «parzialità» degli inquirenti (p. 281). […]. Accanto alla difesa «pubblica», emergono
poi … vari indizi di protezioni occulte (p. 282). […]. Se la «difesa» ha successo, lo scandalo viene riassorbito. Esso
passa, invece, ad uno stadio successivo se altri attori si contrappongono ai «difensori»» (p. 284). E si passa così alla
quarta tappa, quella della “drammatizzazione”, «cioè la presentazione dei fatti di corruzione come oggetto di seria
preoccupazione» (p. 265). Tuttavia, considerando che lo schema per tappe è stato elaborato da uno studioso americano
(Scherman) sulla base dello studio di scandali di corruzione della polizia americana, Della Porta, spostando l’obiettivo
su casi di corruzione politica italiani, precisa che piuttosto che di “drammatizzazione”, si debba parlare di una tendenza
alla “sdrammatizzazione” dello scandalo. Dice infatti: «Gli uomini politici rarissimamente agiscono in modo da
«drammatizzare» la rilevanza degli episodi di corruzione emersi. Viceversa, essi tendono a sdrammatizzare, dando
l’impressione di una sorta di congiura del silenzio che coinvolge tutti i partiti» (p. 285). La tappa successiva è quella del
“riassorbimento” dello scandalo «nelle organizzazioni da esso interessate, in primo luogo nei partiti e nelle istituzioni»
(p. 290), attraverso, di solito, «le dimissioni dei politici direttamente coinvolti» (id.). «In primo luogo … il partito cerca
di riacquistare credibilità disgiungendo le sue responsabilità da quelle degli amministratori coinvolti. […]. Mentre i
«coinvolti» vengono allontanati dai loro partiti, la «normalizzazione» sembra passare attraverso un momentaneo
successo dei politici che si presentano come «moralizzatori», e dei dirigenti meno «compromessi»» (pp. 294-295). Ma
per evitare il rischio di una eccessiva personalizzazione del ruolo dei moralizzatori, questi hanno breve vita, ed i partiti e
i loro apparati ritornano ben presto alla guida. Infine, ultima tappa è quella del “procedimento penale”, ma sempre che
vi si arrivi e qualora ciò accada, il procedimento si risolverà «contro persone ad un basso livello gerarchico» (p. 298).
16
GALLI G., L’Italia sotterranea, op. cit., p. 219.
8
con gli altri, a non criticarsi mai, a giudicarsi non solo infallibili ma invisibili e insomma non
punibili. […]. Questo restare impantanati nella corruttela dei costumi ha molte radici, e tra esse c’è
anche il fastidio che tanti, a intervalli regolari, provano verso alcune forme etiche di pregiudizio. È
uno strano fastidio, che tende a privilegiare quel che è utile per sé su quel che, essendo utile per
tutti, diventa universalmente stimabile e onesto»
17
.
Degli scandali non rileva solo la “cifra morale”, quanto ed anche, più prosaicamente, l’incidenza
negativa che essi generano sul più ampio assetto dell’economia. Ed infatti, «il virus più letale degli
scandali è la mancanza di regole precise che regolino l’economia e i flussi finanziari, l’assenza di
arbitri e istituzioni indipendenti e autorevoli di controllo, non sono solo macchia morale e politica.
Sono il macigno al collo della comunità produttiva, azzoppano il Paese nella crescita e rendono
ineluttabile il declino italiano»
18
.
Al di là dei vaghi richiami teatrali del prof. Galli, credo che «quel che più spaventa nei partiti
non è quello che dicono, ma è quello che trascurano o si rifiutano di dire» (Louis Blanc, in
Organizzazione del lavoro, 1841). D’altronde «quando l’economia della corruzione è un fatto
strutturale, nessun partito riesce a sottrarsi alla sua logica, quale che sia la sua origine, la sua
tradizione, la moralità dei suoi iscritti, la sua collocazione in parlamento»
19
.
3. – Il simbolismo della legge 2 maggio 1974 n. 195: cenni
Il simbolismo cui si è accennato nella premessa, permea l’intera legge del 1974: ciò è dimostrato
dallo stanziamento di fondi statali manifestamente insufficienti a garantire la vita dei partiti
(pertanto essi avrebbero dovuto necessariamente cercare altrove ciò che abbisognasse loro per la
naturale loro sussistenza e per lo svolgimento dell’attività che loro competeva); la sottaciuta e
dimenticata rilevanza penale del finanziamento estero; l’assenza di un efficace sistema di controllo
contabile dei bilanci dei partiti; la delimitazione lacunosa del novero dei soggetti destinatari del
divieto di loro finanziamento.
Il legislatore degli anni settanta creò volutamente una inefficace e carente legge, tanto che dal
Resoconto della seduta della Commissione in sede referente del 30 agosto 1980, emerse che quel
provvedimento legislativo lasciò aperti troppi «varchi allo svilupparsi di fenomeni di corruzione»
20
.
Il legislatore, con buona pace di tutti, si presentò alla popolazione con un provvedimento
sbandierato come assolutamente efficace; come il frutto di un impegno comune di tutti gli
schieramenti politici a combattere quell’ormai elevato (e non più sostenibile) tasso di corruzione,
nel tentativo serio di moralizzare la vita politica pubblica. Il legislatore, i partiti, fecero ciò che non
poteva più rinviarsi: non è un caso che la legge n. 195 del 1974 venne discussa ed approvata dalle
due Camere in appena quattro giorni e con una votazione pressoché unanime (ad eccezione del
partito liberale, che votò contro).
In piena coscienziosa consapevolezza, il legislatore vendette all’opinione pubblica un prodotto
difettoso (volutamente difettoso): ciò caratterizzò sia le disposizioni del 1974 che quelle
successivamente introdotte.
Quel gran rumore provocato e spinto a forza dentro i padiglioni auricolari degli italiani, serviva
solo a distogliere l’attenzione dalla vera realtà dei fatti: si agitarono le onde soltanto in superficie,
mantenendo immobile quel che vi soggiaceva; si stordì il consenso sociale, esaltando una legge per
quel che, in verità, non era.
17
SPINELLI B., L’analfabetismo morale delle classi dirigenti. Elogio dei pregiudizi, in “La Stampa”, 18 dicembre
2005.
18
RIOTTA G., Ritorno alle regole. La virtù miglior modello di business, ecco la nuova sfida, in “Corriere della Sera”, 5
gennaio 2006.
19
GALLI G., L’Italia sotterranea, op. cit., p. 105.
20
Cfr. Resoconto della seduta della Commissione in sede referente del 30 agosto 1980.
9
Musco precisa infatti che: «È difficile non convenire con quegli autori che qualificano come
simbolica la grandissima parte della legislazione penale entrata in vigore negli ultimi anni. […]
simbolica nel senso di un quid che contiene nella sostanza meno di quello che promette. La
legislazione simbolica non si preoccupa di orientare effettivamente il comportamento dei consociati,
bensì tende a far sorgere l’impressione di aver messo in qualche maniera il problema sotto
controllo. L’obiettivo di fondo (inconfessato) che perseguono gli utilizzatori della legislazione
simbolica è proprio quello di aggregare il più ampio consenso presso l’opinione pubblica,
accreditando fra i cittadini una immagine di capacità e di efficienza»
21
.
Verrebbe quasi da ricordare sottovoce il gattopardiano immobilismo.
Caricare di simbolismo il provvedimento e tutto quel che vi sta attorno, fu ciò che la classe
politica fece, semplicemente per portare dalla propria parte il giusto consenso del popolo, a che si
potesse continuare impunemente ad operare, riprendendo il “lavoro” laddove lo si era lasciato.
È una semplice combinazione accidentale che dal 1974 al 1990, la fattispecie dell’illecito
finanziamento fu al centro di una sola vicenda giudiziaria, peraltro risoltasi con una semplice
archiviazione?
Si è fatto credere ai cittadini che si era creata una legge più che adeguata: se una pletora di
soggetti chiede ardentemente e con pressante urgenza una soluzione, cosa di meglio c’è se non dare
alla stessa l’idea che quel che essa desidera è stato esaudito?
In un gioco quasi da fiaba, il legislatore del 1974 fece appunto questo: contentare l’opinione
pubblica, per carpirne dolosamente il consenso. Dice Musco: «[…]. Se la stragrande maggioranza
dei cittadini non avverte la legge come giusta e se i singoli consociati non si riconoscono nelle
scelte legislative, l’intero sistema viene progressivamente – ma inevitabilmente – ad indebolirsi. La
caduta del consenso genera fattori di crisi, tensioni, […]: la perdita di credibilità […]»
22
.
Continua Musco: «[…] la continua, massiccia, penetrante e martellante produzione di fattispecie
di reato chiaramente ispirate a logiche emergenziali […], se per un verso iniettano nel sistema
consistenti dosi di irrazionalità, per altro verso ne accrescono la confusione ed in fondo ne intaccano
anche la praticabilità […]»
23
. Quanto dice l’Autore, vale, secondo lo stesso, «per ogni tipo di
legislazione» e a maggior ragione, in maniera «più pregnante», per il «settore della legislazione
penale»
24
. Ma è indubbio che la ricerca fine a sé stessa di quel consenso, «si preoccupa degli effetti
sulla società e non della funzionalità ed efficienza della soluzione in termini politico-criminali»
25
.
21
MUSCO E., Consenso e legislazione penale, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1993, pp. 86 ss.
22
Ivi p. 81.
23
Ibidem.
24
Ibidem.
25
Ivi p. 88.
CAPITOLO PRIMO
PARTITI POLITICI E FINANZIAMENTO:
NOZIONI ED EVOLUZIONI LEGISLATIVE
NEGLI ORDINAMENTI GIURIDICI ITALIANO E STRANIERI
11
1. – Partiti politici: trasformazione strutturale e definizioni
Nel tentativo di trattare dell’argomento «finanziamento dei partiti politici», ci si imbatte
giocoforza nella necessità di sobbarcarsi sulle gracili spalle, un altro tentativo che abbia ad oggetto
una breve ricostruzione storica di quel che chiamiamo “partito”, nel periodo pre-repubblicano, nel
dibattito all’Assemblea Costituente, nonché nel periodo di vigenza della carta costituzionale del
1948; senza dimenticare, poi, quanto ampie e varie siano state le definizioni (di cui si cercherà di
fornirne un quadro, senza pretese di esaustività), strettamente legate alle non meno contrastate
concezioni sulla cosiddetta ‘natura giuridica del partito politico’.
A sfogliare velocemente, ma non distrattamente, pagine di storia legate ad epoche e vicende le
più diverse e lontane per personaggi e per presupposti di sviluppo, ci si può rendere agevolmente
conto di come l’idea di conquistare il potere politico e di esercitarlo (più o meno saggiamente
sarebbe arduo dirlo dai contemporanei di quei protagonisti, meno arduo ma a volte più fazioso per i
nostri di contemporanei), sia stata l’elemento che ha accomunato i gruppi in contesa nell’antica
Grecia e nella Roma dei Silla, dei Mario, dei Cesare, dei Pompeo, sotto l’occhio sanguinante di una
Repubblica tragica e mirabile; che ha accomunato quei gruppi, ed anche le fazioni medievali, i
clans rinascimentali, i clubs dei deputati delle assemblee rivoluzionarie, i comitati elettorali delle
monarchie del XIX secolo, i partiti di una massa novecentesca, variamente colorata
1
.
Verrebbe da ricordare la concezione di partito politico in senso lato, riportata dal Virga nella sua
ricostruzione, laddove indica lo stesso come «una spontanea formazione sociale che assume come
suo elemento unificatore una comune concezione politica o comuni interessi politici, e si propone la
conquista del potere»
2
, sebbene sia chiaro che gli esempi sopra citati, sottendano una variegata
realtà che non può riportarsi, tutta quanta senza le debite distinzioni, sic et simpliciter, al concetto di
partito politico.
La nascita del partito politico vero e proprio è legata alla storia delle assemblee rappresentative e
all’estensione del suffragio popolare, vicende tutte avviatesi nei diversi paesi a partire dalla prima
metà del XIX secolo.
Si ricordi, infatti, che l’estensione del suffragio negli Stati Uniti è da collocare attorno al 1835 e
in Inghilterra a partire dal 1832 e via via nel corso del secolo; in Francia nel 1848 e a tutti gli effetti
dopo il 1870; e così anche in altri paesi europei. L’estensione del suffragio implica l’allargamento
della base elettorale e la consequenziale necessità di rivedere le strutture rappresentative, in termini
di funzioni e di prerogative, in modo da rappresentare, per l’appunto, un insieme eterogeneo di
interessi in maniera più compiuta e rispondente alla mutata realtà elettorale.
L’elemento di svolta e di trasformazione del partito politico è proprio il citato allargamento della
base elettorale, che modifica radicalmente la posizione stessa del partito all’interno dell’assetto
costituzionale dello stato, oltre a decretarne la modifica strutturale, altrettanto radicalmente. Infatti,
nel periodo compreso tra la prima metà del XIX e l’inizio del XX secolo, il passaggio o la
trasformazione appena accennata, è quella che riguarda il partito politico c.d. «d’opinione» (o «dei
notabili» o di «rappresentanza individuale») in «partito di apparato» (o «organizzativo di massa»),
senza dimenticare l’accennato riconoscimento legale degli stessi partiti (con contestuale e graduale
passaggio dallo Stato di diritto puro allo Stato sociale)
3
.
1
Si veda DUVERGER M., L’origine dei partiti, in D. FISICHELLA (a cura di), Partiti e gruppi di pressione, Bologna,
1972, pp. 35 ss.
2
Così VIRGA P., Il partito nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948, p. 15. Virga precisa che siffatta concezione se da
un lato permette di sottolineare come non possa accogliersi la posizione della dottrina liberale che ammetteva come
sufficiente e necessaria la sola presenza del “comune sentire” politico, dall’altro lato è altrettanto inadatta a
ricomprendere il fenomeno strictu sensu “partito”, giacché nella sopra riportata accezione lata, si finisce col
ricomprendere all’interno del partito non solo coloro che sono legati da un vincolo giuridico (iscritti, aderenti), ma
anche i semplici simpatizzanti, i votanti.
3
Per una ricostruzione completa dei mutamenti strutturali del partito politico, cfr. BOBBIO N.-MATTEUCCI N.-
PASQUINO G., voce Partiti Politici, in Dizionario della Politica, Novara, 2006, pp. 719 e ss.
12
La concezione liberale ottocentesca di Stato, quella del parlamentarismo classico e del suffragio
ristretto, se da un lato era approdata alla fase di non ostilità nei confronti del partito politico
4
,
dall’altro concepiva lo stesso, inevitabilmente, come «accolta di uomini aventi voce nella cosa
pubblica i quali concordano nelle massime fondamentali circa il modo di governare»; essi, i singoli
soggetti che «fanno accordo fra loro», sono legati dall’idem de republica sentire
5
e dunque, il
partito è «associazione di persone che professano la stessa dottrina politica» per usare le parole del
Constant.
Il partito, nell’ottocento liberale, è solo quell’aggregato di individui trasportati tutti dalle stesse
idee e perciò solo accomunati attorno ad un personaggio più o meno illustre (il notabile di turno):
tutti quegli “aggregati uomini”, sono dei notabili della medesima o affine estrazione sociale,
settaria.
Essi approdano ad una Camera rappresentativa eletta da una cerchia di persone assolutamente
ristretta (suffragio elettorale ristretto) rispetto alla restante popolazione e siffatto numero
circoscritto di votanti da rappresentare, finisce con l’essere a sua volta della medesima estrazione
sociale e politica dei votati, in un clima di “elettive affinità” che rendono il Parlamento di allora,
una sorta di salotto (il c.d. government by discussion). Un circolo esclusivo: era tale il Parlamento e
lo era ancor prima lo stesso partito (basato sulla spontaneità della adesione individuale): il gruppo di
notabili attorno al loro notabile.
L’individualismo dell’ideologia liberale poneva sulla scena politica il singolo, il suo gruppo e
quindi una precisa classe con il suo individuato interesse, tale da rendere il partito quasi «proiezione
pubblica di uno specifico interesse di classe»
6
: «non a caso il Minghetti poteva ravvisare
nell’interesse privato la molla principale che determinava la formazione dei partiti»
7
.
Alla luce di tutto questo, appare chiaro pertanto, perché quei partiti venissero rigorosamente
incanalati su un terreno in cui la loro libertà di azione e di propaganda fosse espressione delle
comuni libertà di riunione e di opinione e che il loro diritto di associazione venisse “acconciato”
sempre nell’ambito di siffatte libertà, oggetto attento di limiti e di divieti.
Le brevi indicazioni sopra fornite, ci offrono del partito una struttura interna essenzialmente
chiusa, tanto che lo stesso partito ottocentesco venne identificato con il gruppo parlamentare; e
d’altra parte Duverger elaborò un preciso schema circa l’origine c.d. interna o parlamentare dei
partiti stessi. Non a caso l’Autore sottolinea come «la comunanza di dottrine politiche abbia
costituito il motore essenziale della formazione dei gruppi parlamentari», tranne quei casi in cui il
gruppo parlamentare non fu ab origine un gruppo ideologico, ma un gruppo locale «trasformatosi
successivamente in gruppo ideologico»
8
. Sono i parlamentari stessi che costituiscono la struttura e
l’organizzazione del partito, senza sguardo all’esterno, tranne in quegli sporadici appuntamenti
(attraverso gli altrettanto provvisori ed occasionali comitati elettorali) che erano le elezioni,
rigorosamente a suffragio ristretto.
Se dal suffragio ristretto si passa via via ad un allargamento della base elettorale, non soltanto gli
interessi in gioco non saranno più uguali per tutti, ma si diversificheranno in quella eterogeneità
riflessa dalla nuova compagine elettorale. Pertanto i voti e gli elettori da gestire saranno
d’improvviso aumentati esponenzialmente e se necessità sarà quella di gareggiare vittoriosi nella
competizione elettorale, si dovranno giocoforza gestire ed incanalare i nuovi votanti e i nuovi voti.
Ecco che i comitati elettorali, da strutture temporanee divengono strutture permanenti, al fine
4
L’evoluzione del rapporto intercorrente tra partiti politici e Stato, è stata ricondotta a quattro fasi essenziali: aperta
ostilità; indifferenza; riconoscimento giuridico; inserimento del partito politico nell’organizzazione statuale. Cfr.
TRIEPEL H., Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Berlino, 1930, pp. 12 ss.
5
«L’idem de repubblica sentire è il fondamento che natura pone al partito politico» (MINGHETTI M., I partiti politici
e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna, 1881, prima ristampa anastatica, Napoli, 1992, p.
65).
6
Cfr. FORZATI F., Il finanziamento illecito ai partiti politici. Tecniche di tutela ed esigenze di riforma, Napoli, 1998,
p. 17.
7
Così RIDOLA P., voce Partiti politici, in “Enc. dir.”, XXXII, 1982, p. 67.
8
DUVERGER M., L’origine dei partiti, op. cit., p. 36.
13
esclusivo di mantenere ed alimentare (a che non si spezzi), il legame con la più ampia base
elettorale.
Ebbene per il Duverger, «queste due cellule-madri, gruppi parlamentari e comitati elettorali»,
coordinandosi stabilmente, decretano finalmente la nascita di un partito vero e proprio; adesso
(grazie all’estensione del suffragio e quindi all’allargamento della base elettorale, cause primigenie
di un vero e proprio “processo di democratizzazione”) si realizza il tramonto del «partito dei
notabili» e si saluta l’ingresso sulla scena politica del «partito d’apparato»
9
.
Infatti, è proprio il termine ‘apparato’ che ci dà contezza del nuovo volto che viene assumendo il
partito: una più curata ed accentuata struttura organizzativa. Insomma «[…] una volta sorto, prima
cura del partito è normalmente di creare dei comitati elettorali nelle circoscrizioni dove esso ancora
non ne possiede»
10
.
A differenza dei partiti dei notabili, adesso, quelli di apparato sorgono da un impulso centrale: il
diverso modo di costituzione sopra descritto, decreterà «[…] l’istituirsi d’uno stato maggiore del
partito distinto dal gruppo parlamentare»; cominciano a sorgere le direzioni centrali e periferiche
degli apparati partitici e gli stessi partiti cominciano «[…] ad assomigliare a quelli del secondo tipo
(quelli del primo erano per l’appunto i partiti di origine interna o parlamentare): i partiti di
creazione esterna»
11
.
Partiti, questi ultimi, che si generano per impulso di un raggruppamento o di una associazione
esterna di varia estrazione e natura: i sindacati (si pensi al partito laburista britannico); le società di
pensiero o un cenacolo di intellettuali; le Chiese (si pensi ai partiti democratici cristiani); le stesse
associazioni di ex-combattenti (soprattutto all’indomani della prima guerra mondiale, laddove in
Francia posero le fondamenta del partito sociale francese e in Italia del fascismo)
12
.
La struttura del partito, pertanto, muta radicalmente: l’estensione del suffragio, i nuovi
eterogenei interessi che entrano in gioco (maggiori salari; recupero di una visione meno laicista di
fare politica; esigenze vive di democratizzazione, dalle libertà civili alle libertà politiche),
l’aumento repentino del numero di elettori, i nuovi centri di potere che sollecitano in varia misura la
creazione di nuovi partiti o ne influenzano le scelte, un apparato sempre più complesso: insomma,
appare evidente che «l’azione del partito tende dunque ad estendersi dal Parlamento alla società
civile, all’interno della quale esso viene ad assolvere alla funzione di organizzare in modo
permanente i nuovi ceti ammessi a partecipare alla vita politica»
13
.
Il partito di apparato è il partito di massa (i primi dei quali furono quelli socialisti); al notabile
parlamentare si sostituisce l’organizzatore, la federazione locale; i membri pagano una quota e
divengono parte attiva nella vita del partito; l’organizzazione stabile e capillare è il preludio e al
contempo il necessario svolgimento di un sempre più emergente professionismo
14
e di una
accentuata burocratizzazione
15
(che si accompagna all’esaltazione del momento oligarchico rispetto
a quello democratico-partecipativo), riflesso della funzione propria del nuovo partito di massa:
mediare e trasporre nel Parlamento una più vasta domanda sociale.
In questa funzione del partito, il Leibholz individua l’aspetto caratterizzante del moderno «Stato
dei partiti» (Parteienstaat).
9
Ivi p. 40.
10
Ivi p. 41.
11
Ibidem.
12
Per una classificazione dei partiti, secondo il criterio «sociologico», si veda PELLOUX R., Quelques réflexions sur
les partis politiques dans l’ordre interne et dans l’ordre international, in “La technique et les principes du droit public”
(Études en l’Honneur de G. Scelle), I, Parigi 1950, pp. 415 e ss.
13
RIDOLA P., voce, op. cit., p. 69.
14
L’origine del professionismo nella politica è di matrice statunitense: «Politician viene dall’America: è negli Stati
Uniti che è nata l’industria del machinisme per votare, per far votare, per comprare i voti, per pagare gli elettori e gli
eletti» (MAURRAS C., Dictionnaire politique et critique établi par les soin de Pierre Chardon, t. IV, Parigi, 1932, p.
66).
15
Cfr. MARANINI G., Dall’oligarchia nei partiti alla tirannia nello Stato, in “Rass. it. soc.”, 1960, p. 113.
14
Ma che cos’è lo «stato dei partiti»? Antonio Negri risponde così: «È quella forma democratica
dello stato in cui il rapporto con la società civile […] è materialmente determinato e garantito
attraverso un sistema di partiti»
16
.
Il che vale lo stesso, dicendo che nello Stato contemporaneo i partiti politici hanno assunto un
ruolo fondamentale nell’attività di mediazione degli eterogenei interessi, di rappresentanza di una
più vasta base elettorale e soprattutto di trasposizione della domanda politica dalla società
all’apparato statale (in un processo di integrazione tra società civile, Stato e apparato partitico,
talmente stretto, da far dire ad alcuni che lo Stato dei partiti non poggia più sul principio di
rappresentanza, bensì su quello di identità, giacché i partiti stessi formerebbero al contempo la
volontà dello Stato e della società, tanto da considerare i parlamentari non più come rappresentanti
del popolo, bensì come semplici portavoce dei partiti politici e, solo per questa mediazione, del
popolo stesso).
Il tutto significa che elemento necessario e necessitante dello Stato costituzionale
contemporaneo è il partito politico: infatti, in dottrina, a guardare allo Stato dei partiti, si sostiene
che in una democrazia parlamentare il popolo possa essere rappresentato per forza di cose solo dal
partito politico, laddove la democrazia parlamentare è una democrazia di partiti
17
; ovvero che nello
stato contemporaneo sia altrettanto necessario il rapporto tra partiti e gli organi costituzionali per il
loro stesso funzionamento, sino a spingersi a considerare i partiti politici, espressamente, come
organi di governo.
Continua Negri: «[…] il sistema dei partiti viene ad occupare una posizione fondamentale
nell’insieme dell’ordinamento: e se le diverse carte costituzionali non lo ricordano nella loro lettera,
in effetti invece esso domina quello che, della costituzione dello stato democratico, è stato chiamato
l’elemento materiale. […]. In particolare il rapporto tra sovranità dello stato e sovranità popolare è
completamente formato dai partiti che nel loro sistema assommano tutti i meccanismi
dell’integrazione e della subordinazione, della rappresentanza e della mediazione»
18
.
Al di là delle diverse posizioni ed enunciazioni, l’espressione «stato dei partiti», è
emblematicamente il simbolo di una realtà, quella dello stato contemporaneo appunto, dove i partiti
nascono e muoiono e di essi la struttura statuale non può più fare a meno.
Sono i protagonisti oramai, diretti ed indiretti, della vita politica e istituzionale dello stato ed
essi, consapevoli del loro peso, hanno progressivamente occupato tutti i possibili spazi loro
accessibili
19
, dal settore pubblico a quello parapubblico, a quello privato, in una marcia infinita e a
volte silenziosa di prese di posizioni, destinate a radicarsi talmente in profondità, da non poter più
pensare ad uno Stato senza i partiti.
Alcuni hanno finito, per questo, col considerare i partiti politici come delle “istituzioni
parallele”, cioè a dire delle vere e proprie strutture di potere affiancate e sovrapposte alle
amministrazioni legittime
20
.
Tutto ciò è facilmente comprensibile se si pone mente a questo fatto: i partiti dei notabili,
nell’ottocento liberale, si è visto, erano delle strutture agili, chiuse, ristrette e ridotte
numericamente, le quali non necessitavano di ingenti spese per operare e pertanto le coprivano a
sufficienza grazie al semplice autofinanziamento da parte degli associati (le spese sono
sensibilmente ridotte in un sistema a suffragio ristretto ove i pochi che votano, sapendo già per chi
votare, non necessitano di alcun convincimento indotto da comizi e propagande varie, men che mai
su larga scala).
16
NEGRI A., Alcune riflessioni sullo «Stato dei partiti», in “Riv. trim. dir. pubbl.”, 1964, p. 98.
17
«La democrazia parlamentare è, infatti, una democrazia di partiti. Nel moderno mondo di masse il popolo non è più in
grado di reggere se stesso secondo il sistema della democrazia diretta» (DAHM G., Deutsches Recht, Stuttgart-Köln,
1951, pp. 227 ss.). Cfr. pure MARANINI G., Governo parlamentare e partitocrazia, in “Rass. dir. pubbl.”, 1951, I, pp.
36 ss.
18
NEGRI A., Alcune riflessioni sullo «Stato dei partiti», op. cit., p. 110.
19
In tal senso vedi CHELI E., Spunti per una nuova disciplina in tema di finanze dei partiti, in “Scritti in onore di Vezio
Crisafulli”, vol. II, Padova, 1985, pp. 145 ss.
20
Cfr. BENVENUTI F., Il nuovo cittadino tra libertà garantita e libertà attiva, Venezia, 1994.
15
Tutto all’opposto si situa il moderno partito di massa, quella immensa struttura che deve fare i
conti con un numero enormemente più ampio di possibili votanti che vanno debitamente
indottrinati, in un’opera di proselitismo quanto più capillare possibile; deve fare i conti con una
struttura sempre più vasta, dal centro alla periferia; deve quindi confrontarsi con una propaganda
sempre più incisiva, ampia, a largo spettro. Ebbene tutto questo ha i suoi costi, i suoi ingenti costi
ed essi non possono minimamente essere sopportati con i soli contributi di iscritti e di simpatizzanti.
Questa continua necessità di risorse, quantitativamente sempre più ingenti (tanto da potersi dire
che dal «partito ideologico» si passa al «partito economico»
21
), portò via via i partiti ad inserirsi,
finendo con occuparli, nei più diversi settori della vita pubblica e privata, per rastrellare, appunto,
risorse o per crearsi le basi necessarie e sufficienti a garantirsene l’approvvigionamento, in un gioco
di scambi non sempre lecito con i gruppi ivi al comando proprio in quei settori e, in quanto tali,
capaci di «pressioni influenzanti» (gruppi di pressione, insomma)
22
.
Alcuni ritengono che la c.d. «partitocrazia» sia una delle conseguenze di un siffatto agire; altri,
al contrario, che essa sia un presupposto e che, una volta instauratasi, non abbia potuto se non
generare un aumento spaventevole della spesa dei partiti. Al di là della diversa posizione assunta,
un elemento comune e oggettivamente veritiero lo si può comunque rinvenire: il termine
«partitocrazia» (introdotto in un articolo del 1952 dal professor Giuseppe Maranini) è usato per
indicare una situazione di fatto in termini tutt’altro che laudativi. I partiti, come sopra accennato, dal
secondo dopoguerra in poi, accentuano la loro presenza nei settori pubblici e parapubblici del paese,
finendo con l’ingerirsi oltre misura, nel funzionamento del governo e dell’amministrazione
23
.
«Basti pensare al rilevante, se non esclusivo, peso che i segretari di partito hanno ricoperto nella
nomina ad importantissime cariche, quali gli istituti creditizi, le società a partecipazione pubblica,
gli enti statali e parastatali, e così via»
24
. Si arriva al punto di ridurre gli organi costituzionali, dal
Parlamento al Governo, «a mere sedi di registrazione delle decisioni già prese nelle segreterie
politiche dei partiti»
25
, tanto da apparire del tutto scandaloso e fuori d’ogni schema costituito, la
pratica dei “franchi tiratori”, ribelli a quelle decisioni.
Si crea un continuo intreccio, sempre più fitto, tra il mondo affaristico delle lobbys economiche e
il mondo dei partiti politici, acuendo la crisi delle ideologie, sostrato e molla primigenia della genesi
dei partiti storici: adesso si fa politica solo perché remunera bene, passando in sordina eventuali
richiami e giustificazioni ideologiche
26
.
Continua Musumeci: «È sintomatico verificare [grazie a questa caduta del partito ideologico] la
facilità di raccogliere un vasto consenso da parte di partiti nuovi rispetto alla difficoltà che
incontrano i partiti storici; […] e altrettanto emblematico è riscontrare come molti nuovi partiti
siano fortemente caratterizzati dalla figura personalissima e dal ruolo carismatico del loro
21
Cfr. MUSUMECI T. S., Il costo della politica ed il finanziamento ai partiti, Padova, 1999, p. 18.
22
Sui gruppi di pressione, vedi esaustivamente, BOBBIO N.-MATTEUCCI N.-PASQUINO G., voce Gruppi di
pressione, op. cit., pp. 156-171. Sul fenomeno del lobbying e sulla sua regolamentazione, cfr. CHECCOLI T., Il
fenomeno del lobbying negli Stati Uniti e nell’Unione europea, in “Quad. cost.”, n. 4, 2006, pp. 719-742. L’Autore, alla
luce dell’esperienza statunitense, precisa che: «Il lobbying in sé non può che considerarsi legittimo, ferma tuttavia la
necessità di garantire che esso non degeneri in un rapporto clientelare fra poteri forti e istituzioni» (p. 740).
23
Potrebbe osarsi un’ipotesi ricostruttiva del tipo che segue: i partiti ebbero a fronteggiare un’esigenza, reale e
contingente, di ricostruzione post-bellica (benché di portata differente nei due casi) in occasione di ambedue i conflitti
mondiali del ‘900. Tuttavia, nel 1° dopoguerra, i partiti furono quasi subito messi a tacere dall’ascesa del PNF; nel 2°
dopoguerra, invece, forti della compattazione antifascista, la ricostruzione si dispiegò innanzi ad essi come una sorta di
sterminata e nuda prateria, terra libera e di confine, da conquistare a man bassa. Ciò permise l’innalzamento di un vero e
proprio sistema, chiamato poi spregiativamente «partitocrazia». Conquistato ogni anfratto di potere conquistabile, i
partiti di tutto l’arco costituzionale divennero gli unici veri referenti di tale sistema e il finanziamento illecito ne
rappresentò, ben presto, lo specifico e peculiare emblema, sebbene non l’unico, giacché in termini autoreferenziali il
vero e reale problema di quel sistema era (è?) il sistema stesso.
24
MUSUMECI T. S., Il costo della politica, op. cit., p. 18.
25
FORZATI F., Il finanziamento illecito, op. cit., p. 21.
26
««Di» politica come professione vive chi tende a farne una duratura fonte di guadagno; «per» la politica, invece,
colui per il quale ciò non avviene» (WEBER M., La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come
professione, Torino, 1948, p. 57).
16
fondatore, al quale si riconosce quel consenso che un tempo si appuntava sull’ideologia
rappresentata da quello specifico partito in alternativa agli altri, e molto spesso, in conflitto con
essi»
27
.
I partiti storici, quelli tradizionali, assistono ormai al loro declino, trasformatisi in macchine
arraffapotere, ponendosi definitivamente agli occhi dell’opinione pubblica come «dei malati, dei
malati pericolosi, (…) dei partiti pigliatutto che hanno rinunciato progressivamente alla funzione di
direzione; […] hanno perduto il loro ruolo primario, che è quello di rappresentare, di essere e di
essere percepiti quali interpreti e giusti ordinatori delle esigenze dei cittadini»
28
.
Ecco perché è ormai più che luogo comune, un sentire comune la dilagata e dilagante
disaffezione per la politica, in una con quella per i partiti politici
29
, foriera di due fenomeni ormai
assolutamente radicati: da un lato l’elevato astensionismo
30
, in occasione delle consultazioni
elettorali soprattutto a livello nazionale ed europeo (e, in moltissimi casi, referendario) e dall’altro il
richiamo sempre più forte ed ascoltato dei leaders e di nuovi soggetti politici, quali leghe
31
e
movimenti nuovi per origine e ispirazione, capaci di calamitare l’attenzione dell’elettorato finendo
col trasformarsi essi stessi, a loro volta, in veri partiti
32
.
Al termine di questo excursus storico, si vorrebbe tentare una possibile «definizione» di partito
politico, premettendo però che lo stesso Maurice Duverger «ad esempio, apre un suo lavoro sui
partiti con questa professione di diffidenza: «Non ho molta simpatia per le definizioni. […]»»
33
,
seguito da David Truman, il quale sottolinea che «una preoccupazione eccessiva per i problemi di
definizione si dimostra solo un handicap»
34
, laddove è senza dubbio più che mai gustosa
l’espressione di Arthur F. Bentley, il quale dice che: «Chi vuole può ritagliare definizioni verbali in
tarda età, allorché il suo mondo si è disseccato e scricchiola»
35
.
Potremmo fermarci già qui, a origliare questi illustri pensieri, diffidenti e poco inclini alle
definizioni, laddove tuttavia è insito nell’uomo la necessità di definire, come modo o metodo per
racchiudere fenomeni, di per sé non facilmente compendiabili, con l’illusione che così facendo si
riesca a dominare la materia o, almeno, a renderla più agevolmente accessibile.
27
MUSUMECI T. S., Il costo della politica, op. cit., p. 29.
28
MUSCO E., Consenso e legislazione penale, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1993, p. 91.
29
I partiti «devono capire – ed è anche loro interesse capirlo – che una democrazia si regge sulla fiducia dei cittadini nei
loro confronti e che, quando tale fiducia viene a mancare, si aprono paurosi vuoti di potere reale…» (CICCONETTI S.
M., Sistemi elettorali e sistema dei partiti, in “Riv. trim. dir. pubbl.”, 1996, 4, pp. 1000-1001).
30
Sebbene alle ultime consultazioni politiche dell’aprile 2006 (similmente alle precedenti) si sia registrata una
sorprendente e raramente elevata affluenza, dovuta, a modestissimo parere dello scrivente, quasi esclusivamente ad una
esacerbata esasperazione dei toni, quasi si fosse trattato di una sorta di scontro epocale sul terreno delle urne, che in
molti analisti ha suscitato il paragone con le bagarres elettorali dell’immediato secondo dopoguerra. In contesti
propagandistici di questo tipo e di tal tenore, l’elemento “affettivo” del voto (indirizzato più per “affinità emozionale”
che non per adesione ai contenuti programmatici) è l’elemento centrale per indirizzare i voti di coloro che vengono
definiti cives marginales ed elettori pigri. Su quest’ultimo punto, cfr. BARISIONE M., Le scelte politiche dei cittadini:
ambivalenza, ragione o affetto?, in “Riv. it. sc. pol.”, 2002, 1, pp. 141-151.
31
In particolare, sul punto, vedi LEPRE A., Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, 2004, p.
339.
32
Dopo la svolta maggioritaria del 1993, si è assistito ad una crescente quanto inarrestabile imposizione dei «partiti
personali» da un lato e della «personalizzazione» della leadership dei partiti tradizionali, dall’altro. Cfr. sul punto,
CALISE M., La Terza Repubblica. Partiti contro presidenti, Roma-Bari, 2006, pp. 81 e ss.; FISICHELLA D., Elezioni
e democrazia. Un’analisi comparata, Bologna, 2003, pp. 243 ss.
33
DUVERGER M., Classe sociale, ideologia e organizzazione partitica (1953-54), in G. SAVINI (a cura di),
Sociologia dei partiti politici, Bologna, 1971, p. 109.
34
Ibidem.
35
Ibidem.