Introduzione
Nel presente lavoro di tesi si è scelto di analizzare il
tema della diversità nell’opera cinematografica di due
importanti registi europei, conosciuti e apprezzati sia a livello
nazionale che internazionale, Ferzan Ozpetek e Pedro
Almodòvar.
Il motivo per cui si è preferito concentrarsi sul regista
turco risiede nella sua capacità di raccontare la diversità, sia
sessuale che culturale, al di là di ogni stereotipo o
classificazione aprioristica. Inoltre, essendo Ozpetek uno
“straniero” in quanto proveniente dalla Turchia, la sua distanza
gli permette di avere uno sguardo privilegiato ed una
panoramica migliore, in grado di cogliere le sfumature e i lati
nascosti della società occidentale e, in particolare, di quella
italiana, sempre più eterogenea e multiculturale. Dunque, la sua
doppia natura, di turco e di italiano, gli permette di esprimersi
più liberamente, di osservare le due culture con uguale
complicità, di contaminare e di contaminarsi.
Si è scelto si soffermarsi anche su Pedro Almodòvar in
quanto, nella sua produzione cinematografica, egli affronta le
tematiche sessuali da punti di vista inediti e, a volte,
dissacranti. Sicuramente, il forte attaccamento alla sua terra e
alla cultura spagnola hanno notevolmente influenzato l’opera
del regista madrileno che riesce a rappresentare sul grande
schermo la diversità sessuale e il problema dell’identità sociale
in maniera originale e provocatoria.
Il primo capitolo sarà dedicato ad un’approfondita
analisi sociologica dei concetti di devianza, stigmatizzazione ed
anomia, sottolineando il ruolo fondamentale svolto dal
meccanismo di controllo sociale nella costruzione dell’identità
deviante; nonché la trattazione dei concetti di pregiudizio e
stereotipo, in quanto meccanismi naturali di funzionamento
della mente e di costruzione delle relazioni sociali. Dopodiché,
un’ampia parte sarà dedicata alla relazione esistente tra
omosessualità e società, con un breve excursus storico sulle
leggi emanate in merito a tale questione. Infine, l’ultima parte
del capitolo sarà riservata ad un’analisi del panorama
cinematografico italiano dagli anni ’80 al terzo millennio. In
particolare, si è scelto di soffermarsi su come il cinema, nel
corso degli anni, abbia rappresentato le persone omosessuali,
riproducendo schemi e concetti già presenti nel contesto
culturale di riferimento, andando ad accentuare immagini
stereotipate e pregiudizievoli dell’omosessualità, o offrendone
una visione innovativa. In questo discorso, si distingue
l’apporto di Ozpetek ed Almodòvar, per l’importante contributo
offerto in merito a tale tematica, rappresentando sul grande
schermo storie di amori omosessuali, perfettamente integrate e
accettate all’interno della società e nell’ambiente nel quale
vengono descritte.
Nel secondo capitolo, ci si soffermerà sull’analisi delle
pellicole cinematografiche di Ferzan Ozpetek nelle quali è
presente il tema della diversità sessuale. Infatti, dopo una breve
biografia del regista turco per conoscere la sua vita e le sue
opere, l’attenzione sarà rivolta alla singola analisi di quattro
film, considerati esemplari in quanto in essi il cineasta ha
tracciato le tappe principali della coppia omosessuale: la
scoperta di essere “diversi” ne “Il bagno turco”, la
trasgressione dalla normalità ne “Le fate ignoranti”,
l’esclusione e il dramma ne “La finestra di fronte” e l’essere
una famiglia in “Saturno Contro”.
Nel capitolo successivo, il terzo, l’attenzione si sposta
sul cinema di Pedro Almodòvar. Non essendo chiaramente
possibile un resoconto dettagliato dell’intera cinematografia del
regista spagnolo, vista l’ampiezza dell’argomento, anche in
questo caso si è scelto di dedicarsi all’analisi di quattro
pellicole cinematografiche, cercando di individuare un filo
conduttore tra le stesse: la diversità nelle sue varie
sfaccettature, non solo sessuali, ma anche sentimentali. Nel
primo film analizzato, “La legge del desiderio”, questa
tematica riguarda l’amore omosessuale tra i due protagonisti
maschili. I film successivi, “Tutto su mia madre”, “Parla con
lei” e “La mala educaciòn”, invece, fanno parte di una vera e
propria trilogia incentrata sul tema della diversità, intesa come
difficoltà di una piena affermazione di sé nei confronti della
società e analizzata nelle sue implicazioni più tragiche: il
travestitismo e il transessualismo in “Tutto su mia madre”, la
diversità dell’amore in “Parla con lei” e, infine, ne “La mala
educacion” ritornano le tematiche dell’omosessualità e del
travestitismo, ma a queste si aggiunge quella più tragica
dell’abuso sessuale da parte di un prete nei confronti di un
bambino.
Infine, nell’ultimo capitolo, dopo aver cercato di capire
come i due registi riescano a rappresentare il mondo di gay,
lesbiche e transessuali nella loro quotidianità e caratterizzato
dagli stessi sentimenti comuni che investono tutti gli esseri
umani, si analizzeranno le differenze e le analogie nell’opera di
Ozpetek ed Almodòvar. In particolare, si cercherà di capire se
sia possibile istituire un paragone tra i due registi, in relazione
al loro contesto culturale e ai personaggi presenti nelle loro
pellicole. L’attenzione sarà dedicata ad alcuni aspetti della loro
cinematografia per cui appaiono così simili ma, al tempo
stesso, anche lontani e diversi per genere, stile narrativo e
linguaggio.
13
CAPITOLO I
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DIVERSITÀ:
PREGIUDIZI E STEREOTIPI
.1 Devianza e controllo sociale
Il mondo moderno è fortemente caratterizzato da
dinamiche di ostilità ed esclusione, piuttosto che di comunanza
e integrazione. L’altro, il diverso vive vicino a noi, ma il clima
che lo circonda è ostile; egli viene percepito come un intruso,
potenzialmente pericoloso e dal quale occorre difendersi.
Come osserva Mazzara, “il tema della lotta contro
l’altro, l’estraneo, il nemico, è un tema sempre presente nella
storia dell’uomo, e dal quale si è sempre interessato il pensiero
sociale, da quello classico fino alla sociologia e
all’antropologia moderne”.
1
Nel corso del tempo sono stati
utilizzati diversi termini per indicare la tendenza a preferire i
propri simili, combattere gli estranei e marcare le barriere che
separano da loro: xenofobia, etnocentrismo e razzismo sono
solo alcuni di essi. Questi diversi ambiti di conflittualità sono
accomunati da una stessa matrice, ovvero una forte
valorizzazione psicologica dell’appartenenza, insieme ad una
forte ostilità nei confronti di coloro che non la condividono.
Questa tendenza a definire l’appartenenza di gruppo propria e
1
B. M. Mazzara, Appartenenza e pregiudizio: psicologia sociale delle
relazioni interetniche, Carocci, Roma, 1998, p. 19.
14
degli altri porta a vedere positivo e desiderabile il proprio
gruppo e gli altri inferiori e potenzialmente nemici.
Tale teoria, nota come “teoria della selezione di
gruppo”, è stata esposta nel 1986 dal biologo Wynne-Edwards
ed è stata spesso presa come punto di riferimento per la
concezione biologo-istintuale dell’eterofobia. Secondo questa
teoria, “la selezione naturale avrebbe premiato gli individui
che avevano la tendenza a fare gruppo, coalizzando le risorse
di consanguinei nella lotta per la sopravvivenza, ed avrebbe
invece penalizzato gli individui che non essendo dotati di tale
propensione hanno affrontato da soli la battaglia per la vita e
per la riproduzione”.
2
Nell’ ambito della sociologia e dell’antropologia, il
tema della diversità e della conflittualità non nasce
immediatamente come interesse a studiare la disposizione
verso l’altro. In un primo momento, infatti, le discipline sociali
cercarono di fornire un sostegno scientifico adeguato rispetto
alla concezione “naturalistica” della differenza e della
conflittualità.
Secondo Simmel, nel percepire l’altro, si fa
costantemente riferimento alla “categoria” alla quale appartiene
e alle caratteristiche tipiche di quella categoria: “noi
rappresentiamo ogni uomo – con particolari conseguenze per il
nostro rapporto pratico con lui – come il tipo di uomo al quale
la sua individualità lo fa appartenere; lo pensiamo, insieme a
tutta la sua singolarità, sotto una categoria generale che
certamente non lo ricopre del tutto e che egli non ricopre del
tutto; […] non lo vediamo nella sua pura individualità, ma lo
2
B. M. Mazzara, Appartenenza e pregiudizio: psicologia sociale delle
relazioni interetniche, op. cit., p. 25.
15
vediamo sorretto, elevato o anche abbassato dal tipo generale
al quale lo assegniamo”.
3
Questo accade perché, naturalmente,
la percezione avviene sempre in un contesto di appartenenze:
“Noi vediamo l’altro non semplicemente come individuo, bensì
come collega o camerata o compagno di partito, in breve come
coabitatore del medesimo mondo particolare”.
4
Per devianza si intende comunemente “ogni atto o
comportamento o espressione, anche verbale, del membro
riconosciuto di una collettività che la maggioranza dei membri
della collettività stessa giudica come uno scostamento o una
violazione, più o meno grave, sul piano pratico o su quello
ideologico, di determinate norme, o aspettazioni o credenze
che essi giudicano legittime, o a cui di fatto aderiscono , ed al
quale tendono a reagire con intensità, proporzionale al loro
senso di offesa”.
5
Il termine ha una lunga storia nella letteratura
sociologica teorica ed empirica. In linea di massima, i sociologi
parlano di comportamento deviante per descrivere un
comportamento che si discosta dalle aspettative di normalità
collaudate da una data società. Gli elementi costitutivi di questa
definizione sono:
a) un attore individuale o un gruppo;
b) un comportamento che si presenta nella sua relativa
eccezionalità nei confronti del quadro normativo
generalmente accettato da una società e ben radicato
nella cultura dominante del tempo.
3
G. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano, 1989, p. 30.
4
G. Simmel, Sociologia, op.cit., p. 31.
5
L. Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 1978, p. 216.
16
Il comportamento deviante è storicizzato, ovvero
cambia in base alle varie epoche e ai vari luoghi.
Il positivismo fa coincidere l’atto deviante con il rifiuto
della norma codificata e cerca di individuare le motivazioni che
inducono alla devianza. Dunque, la devianza è il non
assoggettarsi al ruolo che il sistema di valori della propria
società si aspetta. Come si può notare, la definizione data dal
positivismo si riferisce alle aspettative e non alla norma. Dalla
conoscenza e dalla condivisione della norma derivano le
aspettative di comportamento. Secondo Parsons
6
, la genesi del
comportamento deviante è individuale: per i positivisti, la
devianza è spiegabile in base alle motivazioni che spingono a
deviare.
I marxisti, invece, tendono a privilegiare
un’impostazione secondo cui la devianza si connette a
determinati ruoli definiti dalla diversa appartenenza di classe e
dalla posizione che i soggetti occupano nel processo
produttivo.
Nell’ambito della scuola di Chicago, la teoria
dell’interazionismo simbolico costituisce un riferimento
importante per la comprensione della devianza. Essa è definita
come il risultato della percezione che le persone hanno le une
delle altre: per questo motivo, un comportamento ritenuto
normale dagli appartenenti di un gruppo può, invece, essere
definito deviante dall’esterno. L’attribuzione della devianza,
secondo questa prospettiva, avviene in riferimento all’assetto
sociale complessivo e può sorgere dal fraintendimento della
situazione da parte degli individui.
6
Cfr. T. Parsons, Il sistema sociale, Comunità, Milano, 1965.
17
Negli anni Sessanta, negli Stati Uniti, nasce e si
sviluppa un orientamento teorico che si occupa dello studio dei
comportamenti devianti, ad opera di studiosi come Becker,
Erikson, Lemert, Scheff, Goffman e Matza. Tale prospettiva,
nota come Labelling Theory, ovvero teoria dell’etichettamento,
si rifà alla corrente filosofica, psicologica e sociologica
dell’interazionismo simbolico e si distingue per l’importanza
attribuita ai processi di reazione e controllo sociale per la
comprensione e l’analisi dei fenomeni devianti. La Labelling
Theory si focalizza sul processo che conduce alla devianza,
all’interno del quale giocano un ruolo fondamentale i processi
di attribuzione, di etichettamento e di stigmatizzazione che
colpiscono la condotta deviante. La condizione di devianza
finisce con l’acquisire un valore prescrittivo, in quanto induce
l’individuo stigmatizzato a fare della sua diversità un ruolo
stabile e ad assumerla quale componente centrale del sé.
In questa prospettiva, i meccanismi di reazione e di
controllo sociale svolgono un ruolo fondamentale nella
costruzione dell’identità deviante e sono fondamentali per
comprendere a pieno il fenomeno della devianza e la tendenza
al comportamento recidivo tipico degli individui etichettati
come devianti.
7
Lo studio del comportamento deviante è strettamente
collegato allo studio del controllo sociale. Questo concetto è
stato coniato per la prima volta nel 1986 da Edward Allsworth
Ross, il quale usa il termine “controllo sociale” riferendosi al
meccanismo che intenzionalmente viene esercitato dalla
collettività sull’individuo per indurlo alla conformità rispetto
7
Cfr. R Milanese, La costruzione e il mantenimento dell’identità deviante,
in A. Salvini e L. Zanellato (a cura di), Psicologia clinica delle tossicodipendenze,
Lombardo, Roma, 1998.
18
all’insieme di valori che compongono l’ordine sociale in una
società non tradizionale
8
.
Parsons, mezzo secolo dopo la pubblicazione del libro
di Ross, “Social Control”, si dedica alla trattazione di questo
stesso concetto
9
. Il mutamento sociale viene concepito da Ross
come il passaggio da un ordine naturale costituito dal concorso
di personalità non corrotte ad un ordine basato su istituzioni
concepite ad hoc per il controllo sociale e rette da uomini non
corrotti. Parsons, invece, intende il controllo sociale come
risposta alla devianza: controllo sociale e devianza sono due
concetti interdipendenti la cui trattazione viene sviluppata
nell’ambito dell’intera concezione dell’azione sociale. “La
dimensione della conformità-deviazione, cioè il problema
funzionale, è inerente ai sistemi socialmente strutturati di
azione sociale in un contesto di valori culturali”.
10
Parsons
osserva che lo studio della devianza viene proposto nei termini
di un’analisi dei processi che incoraggiano la resistenza alla
conformità, mentre lo studio del controllo sociale corrisponde
all’indagine dei meccanismi attraverso i quali le tendenze
devianti vengono “neutralizzate nei vari sistemi sociali”.
11
Il sociologo statunitense fornisce, inoltre, un’articolata
tipologia dei meccanismi preposti alla funzione del controllo
sociale. In primis, egli osserva che tali meccanismi si possono
ritrovare nei normali processi di interazione, così come si
8
Cfr. E. A. Ross, Social Control: A survey of the Foundations of Order,
The Press of Case, Western Reserve University, Londra, 1969.
9
T. Parsons, Il sistema sociale, op. cit.
10
T. Parsons, Il sistema sociale, op. cit., p. 329.
11
T. Parsons, ivi, p. 307.
19
svolgono in un sistema sociale integrato istituzionalmente. Il
primo meccanismo è, appunto, l’istituzionalizzazione che
svolge funzioni integrative a diversi livelli: in particolare, essa
mette ordine nell’intreccio di relazioni in modo tale che l’attore
sociale possa gestire il suo sistema interattivo contenendone la
dimensione conflittuale. Ci sono, poi, alcuni meccanismi
informali di controllo, definiti “minori”: si tratta di sanzioni
interpersonali che esprimono il dissenso rispetto al deviante e
che ricorrono a forme di comunicazione sociale gestuale o
indiretta, con la finalità di ricondurre “garbatamente” chi è
andato al di là del limite nello spazio comportamentale corretto.
Il terzo meccanismo, invece, è la ritualizzazione: i modelli
rituali hanno lo scopo di riorganizzare la reazione al dato
critico in un modo positivo e a prevenire le tendenze alla
rottura. Il quarto meccanismo di controllo sociale è
rappresentato dai congegni di isolamento, il cui scopo è sia
quello di prevenire la formazione di strutture di gruppo
caratterizzate da una maggiore deviazione sia di prevenire una
pretesa di legittimità. Infine, la categoria più vasta di
meccanismi di controllo è rappresentata dall’apparato punitivo
composto da polizia e magistratura con la funzione di imporre i
modelli normativi e di collegare alla violazione della norma
l’erogazione di specifiche sanzioni negative.
1.2 Stigmatizzazione e anomia
Per gli interazionisti, parte integrante dello studio della
devianza è il modo in cui si attribuisce il significato di
comportamento deviante agli attori sociali e il tipo di reazione
20
che deriva dalle persone che circondano colui che adotta tale
comportamento. Tali reazioni, in molti casi, sono espressione
del senso comune e si manifestano in contesti non ufficiali.
Il modo in cui si concretizza la reazione sociale è
identificabile con la nozione di “ stigmatizzazione”, definita da
Lemert “un processo che conduce a contrassegnare
pubblicamente delle persone come moralmente inferiori,
mediante etichette negative, marchi, bollature, o informazioni
pubblicamente diffuse”.
12
Per stigma, in senso generale, si
intende un marchio che contrassegna in modo indelebile e
irreversibile l’individuo che ne è portatore. Il termine stigma
deriva dal greco stìgma e significa marcare, pungere e, secondo
Goffman, “stigma indica quei segni fisici che caratterizzano
quel tanto di insolito e criticabile della condizione morale di
chi li ha”.
13
Ne deriva una modificazione dei giudizi e degli
atteggiamenti nei confronti di chi ne è portatore: “un individuo
che potrebbe facilmente essere accolto in un ordinario
rapporto sociale possiede una caratteristica su cui si focalizza
l’attenzione di coloro che lo conoscono alienandolo da lui,
spezzando il carattere positivo che gli altri suoi attributi
potevano avere”.
14
In seguito a questa modificazione dei
giudizi, accade che l’individuo perde il rispetto e la
considerazione che lui avrebbe ritenuto di dover ricevere. Le
reazioni di colui che è stigmatizzato possono essere di diverso
tipo, ma solitamente sono caratterizzate dall’esigenza di
12
E. M. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Giuffrè,
Milano, 1981, p. 91.
13
E. Goffman, Stigma, l’identità negata, Giuffrè, Milano, 1963, p. 19.
14
E. Goffman, ivi, p. 20.