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Il presente lavoro è incentrato sulle conseguenze che una situazione di mobbing
comporta all’interno dell’ambito familiare, nello specifico sugli aspetti psicodinamici
del doppio mobbing, un fenomeno riscontrato frequentemente in Italia dallo studioso
Harald Ege (1997).
Nella prima parte di questo lavoro, faremo un excursus storico dell’evoluzione del
termine mobbing nel tempo sino ad arrivare ai giorni nostri, dando uno sguardo alle
definizioni date dai principali studiosi in materia, i quali ci aiuteranno a delineare
meglio cosa si intende per mobbing, in modo da evitare fraintendimenti dovuti alla
generica conoscenza dell’argomento, spesso appreso in maniera superficiale dai mass-
media. Successivamente, dopo aver inquadrato le quattro fasi del processo di mobbing
descritte da Leymann e l’adattamento di queste ultime alla realtà italiana (modello
italiano a 6 fasi di Ege), ci soffermeremo sui protagonisti del processo di mobbing (il
mobbizzato, il mobber e gli spettatori), sulle loro reazioni e sui loro tratti caratteristici
così come riportati in letteratura, dando uno sguardo ai tipi di mobbing esistenti, e
analizzeremo le cause (fattori scatenanti) e le conseguenze che questo fenomeno
comporta.
La seconda parte, invece, vuole essere una riflessione teorica al sevizio delle dinamiche
inconsce che si strutturano all’interno del sistema famiglia. L’intento di questo lavoro è
quello di delineare un quadro di attuazione delle dinamiche interne alla situazione di
doppio mobbing. Partendo dal contributo della scuola di Palo Alto (Pragmatica della
Comunicazione Umana) per poi proseguire su altri modelli teorici, introduciamo il
concetto di “doppio legame” e di “triangolazione” all’interno del conflitto familiare, per
spiegare come alcune modalità di deviazione del conflitto si ripercuotono negativamente
sul membro-mobbizzato che così si ritrova ad essere doppiamente bersagliato, sia sul
posto di lavoro che nel contesto familiare (la famiglia cessa di dispensare aiuto e
protezione).
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PRIMA PARTE:
Il fenomeno mobbing
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Capitolo 1
Il fenomeno mobbing
1.1. Etimologia del termine
Da un punto di vista etimologico, il termine mobbing deriva dall’espressione latina
mobile vulgus che significa fuoco plebeo, gentaglia, gruppi di persone meritevoli di
disprezzo. Da questa locuzione derivano sia il sostantivo inglese mob (folla, moltitudine
disordinante, tumultuante, violenta, marmaglia, plebe, popolino), sia il verbo to mob,
che nella traduzione letteraria italiana, assume il significato di attaccare, assalire,
malmenare, aggredire, riferito a folla o marmaglia.
Successivamente la parola inglese mob ha mantenuto sia l’accezione negativa di
gentaglia, sia quella neutra, usata per indicare parole o atti riguardanti il popolo, la
gente. Col tempo l’accezione positiva è andata scemando, lasciando il posto alla
versione in cui un gruppo di persone incute timore, soggezione minaccia
(cfr. Ranieri, 2003).
Già nell’800 il termine mobbing assume una valenza scientifica, infatti compare nei
testi di biologia inglese, per descrivere il comportamento minaccioso di difesa del
proprio nido da parte di alcune specie di uccelli (cfr. Mottola, 2003).
Nella seconda metà del secolo scorso, l’etologo austriaco Konrad Lorenz riprende il
termine mobbing per descrivere le modalità d’attacco di un gruppo di animali che
aggrediscono un componente della stessa specie o dello stesso gruppo. Secondo Lorenz
questi comportamenti aggressivi nei confronti del singolo sono a scopo conservativo,
nel senso che tutelano la struttura gerarchica del gruppo stesso.
Il primo a mutuare il termine mobbing dall’etologia, per applicarlo all’ambito degli
studi sul comportamento umano, fu il medico svedese Heinemann nel 1972. Con questo
termine, Heinemann indicava una serie di atti distruttivi messi in atto da un piccolo
gruppo di bambini nei confronti di un loro coetaneo. Questa tipologia di comportamento
verrà poi ripresa dal norvegese Dan Olweus, che la ribattezzerà con il termine bullying
(cfr. De Risio, 2002).
Il merito di aver applicato il termine mobbing all’ambito lavorativo spetta allo
psicologo svedese di origine tedesca Heinz Leymann che nel 1986 lo definì come
«terrore psicologico».
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Va comunque detto che il mobbing era un fenomeno già noto ancor prima che Leymann
lo definisse così, infatti nel 1976 la ricercatrice Carroll Brodsky, nel suo libro «The
harassed worker», con il termine harassment definiva i persistenti comportamenti e
tentativi messi in atto da un individuo, per infastidire, esasperare, indurre a una reazione
un’altra persona (cfr. Ege, 2002).
Grazie agli studi a alle ricerche promosse in Svezia negli anni Ottanta, lo studio del
mobbing si è diffuso anche negli altri paesi del nord Europa sino ad arrivare anche in
Italia.
In Germania, le prime notizie sul mobbing si ebbero nel 1990, grazie alle conferenze e
ai reportage televisivi del professor Leymann. Ben presto, grazie anche alla semplicità
del termine mobbing, facile da pronunciare in tutte le lingue e capace, nello stesso
tempo di indicare quel complesso di azioni e reazioni che si verificano nel mondo del
lavoro in una situazione di terrorismo psicologico, la popolarità del fenomeno si è
diffusa nei paesi di lingua o cultura germanica, scandinava, sino ad arrivare in Svizzera,
Francia e Inghilterra (cfr. Ege, 1998a).
1.2. Definizioni classiche
La definizione ufficiale più vecchia di mobbing è da attribuire all’«Associazione
tedesca contro lo stress psicosociale ed il mobbing», un’associazione no profit nata
negli anni Novanta. Eccola nella versione tradotta da Ege (1996):
«Il mobbing consiste in una comunicazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi
o tra superiori e dipendenti, nella quale la persona attaccata viene posta in una
posizione di debolezza ed aggredita direttamente o indirettamente da una o più persone
in modo sistematico, frequentemente e per un lungo periodo di tempo, con lo scopo e/o
la conseguenza della sua estromissione dal mondo del lavoro. Questo processo viene
percepito dalla vittima come una discriminazione»
(Gesellschaft gegen psychosozialen Streß und mobbing 1993).
In questa definizione il mobbing viene identificato come una comunicazione conflittuale
sul posto di lavoro, il che implica la presenza di un emittente (aggressore o mobber), di
un ricevente (vittima o mobbizzato) e di un messaggio (il conflitto). Inoltre sono
indicati i criteri della frequenza e della durata, nonché l’esito ultimo del processo
mobbing, ossia l’estromissione della vittima dal mondo del lavoro, sia che questa
avvenga in maniera diretta, o che sia una conseguenza indiretta.
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Con il termine discriminazione si vuole sottolineare che per essere mobbizzati è
necessario sentirsi in una situazione di impotenza, di debolezza, e non in una contesa
alla pari (cfr. Ege, 2002).
La definizione più usata e conosciuta, è quella che Leymann diede nel 1996:
«Il terrore psicologico sul posto di lavoro o mobbing, consiste in una comunicazione
ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da uno o più persone
principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione
di impotenza e impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue attività
ostili. Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (definizione statistica:
almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (definizione
statistica: per almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il
comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali»
(in Ege, 2002).
Notiamo che quest’ultima definizione è più articolata rispetto a quella precedente, infatti
Leymann, delinea statisticamente i criteri di durata e di frequenza, evidenzia la
posizione di impotenza e di coartazione del mobbizzato, soffermandosi sulle
conseguenze psicofisiche e relazionali della vittima.
Anche lo studioso norvegese Ståle Einarsen, dà importanza alla percezione che la
vittima ha della sua posizione nel mobbing, infatti secondo questo autore:
«una persona è vittima di mobbing quando è ripetutamente soggetta ad atti negativi sul
posto di lavoro. Tuttavia, per essere definita vittima, questa persona deve anche sentirsi
in condizione di inferiorità nel difendersi in tale situazione» (in Ege, 2002).
Sempre nel 1996, lo studioso britannico Tim Field utilizza il termine bullying al posto
di mobbing per descrivere: «un attacco continuato e persistente nei confronti
dell’autostima e della fiducia in sè della vittima» (cfr. Field, 1996).
Un altro contributo arriva dalla ricercatrice americana Noa Davenport. La sua
definizione - oltre a contenere gli elementi classici del mobbing come frequenza, durata,
percezione della vittima, dislivello di potere tra vittima e aggressore - presenta tratti
nuovi e originali come il coinvolgimento degli spettatori e la responsabilità
dell’organizzazione. Vediamo la definizione nella traduzione fatta da Ege nel 2002:
«Il mobbing è un attacco emozionale che comincia quando un individuo è fatto
bersaglio di comportamenti lesivi e irrispettosi, di pettegolezzi e di atti di pubblico
discredito con lo scopo di creare un clima ostile che induce anche altri individui,
volenti o nolenti, a partecipare alla continuata azione negativa per indurre questa
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persona a lasciare il posto di lavoro. Queste azioni aumentano di intensità fino a
sfociare in comportamenti terrorizzanti ed illegali. La vittima si sente sempre più
impotente, soprattutto nel momento in cui percepisce che l’azienda, non solo non fa
nulla per fermare il mobbing ma lo consente tacitamente o addirittura lo sostiene o lo
opera deliberatamente» (in Ege, 2002).
Con il termine mobbing si intendono: «tutti quei comportamenti violenti che si
verificano sul posto di lavoro attraverso atti, parole, gesti, scritti vessatori, persecutori,
intenzionali e comunque lesivi dei valori di dignità di personalità umana e
professionale, che arrecano offesa alla dignità o all’integrità fisica e psichica di una
persona fino a mettere in pericolo il clima aziendale e l’impiego stesso»
(Menelao, Della Porta, Rindonone, 2001).
Secondo l’autrice francese M.F Hirigoyen (2000), questi comportamenti “mobbizzanti”
possono essere messi in atto da superiori, colleghi, pari grado e dai datori di lavoro
stessi i quali utilizzano il mobbing per eliminare o accantonare dei dipendenti ritenuti
“scomodi” dall’azienda.
Una nuova definizione ci arriva da Ege, per il quale i comportamenti degli attori del
mobbing possono essere descritti e compresi meglio se ci si avvale di metafore militari:
pertanto, recentemente ha paragonato il mobbing a una guerra vera e propria sul lavoro.
«Il mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o
morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più
aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che
hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di
informazioni, la reputazione e /o la professionalità della vittima. Le conseguenze psico-
fisiche di un tale comportamento aggressivo risultano inevitabili per il mobbizzato»
(Ege, 2001).
Può sembrare un’espressione un po’ forte, ma non possiamo negare che sono molti i
fattori in una situazione di mobbing che ci ricordano una guerra: i comportamenti ostili
del mobber, con le sue strategie d’attacco, le varie schermaglie, la ricerca di alleanze
con vari metodi, tendono tutte verso un unico obiettivo ossia le dimissioni o
l’allontanamento della vittima dal posto di lavoro. D’altro canto, anche il mobbizzato si
comporta come una vittima assediata, infatti progetta tattiche difensive, tenta sortite
subendo perdite ingenti. Per non parlare degli spettatori che assistono al mobbing, i
quali apparentemente sono neutrali, estranei al conflitto, ma, spesso, sono delle spie al
servizio di una delle due parti.
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Secondo Ege (1998a), l’analogia con la guerra ha radici più profonde, basti pensare al
significato che gli etologi attribuiscono alla parola mobbing (insieme di comportamenti
messi in atto da certe specie di uccelli per difendere o impadronirsi di un nido), inoltre il
paragone con la guerra è utilizzato anche nel mondo degli affari (Ferdinand Piëch,
presidente della Volkswagen AG, in un’intervista del 1998, rivela di considerare il
mercato dell’industria automobilistica una guerra).
1.3. Diffusione del termine in Italia
In Italia il merito di aver introdotto lo studio scientifico del mobbing è da attribuirsi allo
studioso tedesco di origine austriaca Harald Ege che, dopo aver osservato il fenomeno
nei paesi del nord Europa, si trasferisce a Bologna e contribuisce alla diffusione di
questo problema a livello nazionale (cfr. Mottola, 2003).
Ege utilizza la parola mobbing, per sintetizzare in un unico termine il fenomeno del
“terrorismo psicologico sul posto di lavoro”(traduzione del termine “Psychoterror am
Arbeitsplatz” coniato da Leymann).
Nella lingua italiana esistono diversi sinonimi della parola mobbing: persecuzione,
vessazione, violenza psicologica o morale, aggressione, vittimizzazione, guerra in
ufficio, terrorismo psicologico, molestie morali etc.; non tutti, però sottintendono allo
stesso significato, per esempio, secondo Ege parlare di molestie morali è riduttivo, in
quanto il mobbing è un attacco che và oltre il livello morale di una persona, infatti
investe la capacità di relazione, l’autostima, la professionalità, l’integrità psicofisica e
sociale, per sfociare, alcune volte, in atti di violenza fisica.
Secondo la definizione di Ege il mobbing è:
«una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante
progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto
persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di
parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato
si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare
accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a
invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione»
(Ege, 2002)
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In queste poche righe, Ege sintetizza i sette criteri fondamentali per la corretta
definizione e l’individuazione del mobbing, che sono: l’ambiente lavorativo, la
frequenza, la durata, il tipo di azioni, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento in fasi
successive e l’intento persecutorio.
Nel contesto italiano, per trovare la definizione più completa e organica di mobbing,
bisogna però rifarsi all’ambito giuridico e normativo:
«Ai fini della presente legge vengono considerate violenze morali e persecuzioni
psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa quelle azioni che mirano esplicitamente
a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore. Tali azioni devono essere svolte con
carattere sistematico, duraturo e intenso. Gli atti vessatori, persecutori, le critiche, i
maltrattamenti verbali esasperati, l’offesa alla dignità, la delegittimizzazione di
immagine anche di fronte a soggetti esterni all’impresa, ente o amministrazione,
comunque attuati da superiori, pari grado, inferiori e datori di lavoro, per avere il
carattere della violenza morale o delle persecuzioni psicologiche devono mirare a
discriminare, screditare o comunque danneggiare il lavoratore nella propria carriera,
status, potere formale o informale, grado di influenza sugli altri. Alla stessa stregua
vanno considerate la rimozione da incarichi, l’esclusione o immotivata
marginalizzazione della normale comunicazione aziendale, la sottostima sistematica dei
risultati, l’attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità professionali o
della condizione fisica e di salute»
(Disegno di legge n. 4265 del 13.10.99 in Ege, 2002).
1.4. Mobbing: una nozione troppo ampia
Uno dei pericoli in cui si può incorrere quando si parla di mobbing, è quello di
un’eccessiva dilatazione della sua stessa nozione. Troppo spesso vengono utilizzati
termini, che pur riguardando situazioni di violenza psicologica, possono risultare troppo
restrittivi o troppo estensivi del fenomeno (cfr. Ascenzi, Bergagio, 2002).
Il termine mobbing non è universalmente accettato. Nei diversi Paesi del mondo, infatti,
per definire le persecuzioni psicologiche sul posto di lavoro vengono utilizzati anche
altri termini. Nei paesi anglosassoni si utilizza il termine job harassement o bullying, in
Giappone, oltre al termine bullying, si utilizza anche il termine ijiame, in Olanda viene
usata la parola pesten così come in Francia viene usato l’appellativo harcélement
morale cioè molestia morale (cfr. Hirigoyen, 2000, 2001). È meglio precisare che si
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tratta di fenomeni più restrittivi rispetto al mobbing vero e proprio, in quanto si
riferiscono al terrore psicologico derivato da molestie sessuali (Harassement) o ad atti di
bullismo e di prepotenza (bullying) (cfr. Ranieri, 2003).
Analizziamo brevemente il significato di questi termini:
bullying: Lo studio di questo fenomeno risale agli inizi degli anni ’70. É un
termine molto usato in Inghilterra e significa “fare il prepotente, comandare,
angariare, tiranneggiare”. Secondo alcuni autori (cfr. Ascenzi, Bergagio, 2002) il
bullying non è adatto a rappresentare il mobbing in quanto descrive azioni di
violenza psicologica che non si riferiscono esclusivamente al mondo del lavoro,
ma che possono concretizzarsi anche in altri contesti come la scuola e le caserme
(fenomeno del nonnismo); inoltre utilizzare il termine bullying nel contesto
lavorativo è restrittivo rispetto al mobbing, in quanto ne indica solo un tipo,
ossia quello compiuto da un capo verso un suo sottoposto. Va anche detto che, a
differenza del mobbing, per bullying la violenza può essere, non solo a carattere
psicologico, ma anche fisico con percosse, atti di vandalismo, trattamenti
fisicamente umilianti per la vittima (cfr. Ranieri, 2003).
Siccome la violenza fisica si riscontra raramente nei comportamenti di mobbing,
il quale per contro è caratterizzato da comportamenti più complicati come
l’isolamento sociale della vittima, allora Leymann suggerisce di utilizzare la
parola bullying per quel che riguarda i rapporti tra bambini e adolescenti a
scuola, riservando la parola mobbing per il comportamento adulto nei luoghi di
lavoro (cfr. Leymann, 1999). In ogni caso, quando il termine bullying viene
utilizzato come sinonimo di mobbing, viene fatto precedere o seguire, dalla
specificazione del contesto lavorativo, per cui si troverà il termine workplace
bullying o bullying at work.
job harassement o work abuse: (vessazione, tormento, molestia) è un termine
molto diffuso negli Stati Uniti. Si riferisce al contesto limitato delle molestie
sessuali, che possono tuttavia essere una forma di mobbing
(cfr. Carrettin, Recupero, 2001).
employee abuse: (insultare, ingiuriare, abusare di un lavoratore, un impiegato),
termine utilizzato per indicare l’abuso di potere o di comportamento, anche
questo un tipo di mobbing (cfr. Ege, 1998b).
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harcélement morale: termine utilizzato in Francia per riferirsi alle molestie
morali sul posto di lavoro, oppure alla discriminazione razziale che si concentra
su un soggetto debole o a rischio (cfr. Hirigoyen, 2001).
bossing: indica un solo tipo di mobbing, quello compiuto dall’azienda stessa o,
in particolare, dalla direzione del personale nei confronti del dipendente
(cfr. Ascenzi, Bergagio, 2002).
1.5. Errate credenze sul mobbing (cosa non è mobbing)
In Italia dilaga una certa disinformazione circa il fenomeno del mobbing che sfocia in
equivoci ed in errate credenze. Questa incomprensione impedisce il corretto approccio
al problema e mina pericolosamente l’efficacia degli strumenti preventivi e risolutivi del
problema mobbing. Per evitare ulteriori malintesi, vediamo nello specifico cosa non è
mobbing (cfr. Ege, 2002):
Non è una singola azione o un conflitto generalizzato: tutti i maggiori
autori sottolineano il fatto che il mobbing non è frutto di una singola azione
ostile, ma è un attacco ripetuto, continuato, sistematico e duraturo.
Fu Leymann che negli anni Novanta indicò le variabili temporali della
frequenza e della durata (le azioni vessatorie devo presentarsi almeno una
volta alla settimana per almeno sei mesi) che sono tutt’ora riconosciuti da
tutti gli studiosi come parametri di base del mobbing. In questa ottica, si
distinguono dal mobbing: un litigio occasionale con un collega o con un
superiore; una singola azione come un demansionamento, un trasferimento o
un ordine di servizio umiliante; i fattori organizzativi negativi rappresentati
dall’assenza di sostegno da parte di colleghi o superiori, un ambiente di
lavoro teso, un clima organizzativo pessimo, una gestione aziendale
autoritaria. Tutt’al più questi fattori possono essere considerati come una
causa scatenante, una pre-fase del mobbing, cioè quella che Ege definisce
nel suo modello italiano a 6 fasi: “Condizione Zero”. Per poter parlare di
mobbing, il conflitto deve essere mirato contro una persona o un gruppo di
persone, deve cioè esistere un intento persecutorio
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Per ulteriori approfondimenti, si rimanda al paragrafo 1.2 del secondo capitolo relativo alla prima parte.