9
Introduzione.
La tematica del diritto al silenzio rappresenta un aspetto fondamentale della
procedura penale, in grado di dispiegare i propri effetti tanto sul piano strettamente
processuale, quanto su quello sistematico, indicando le scelte di fondo operate da
un ordinamento in determinate epoche storiche. L’istituto qui in esame costituisce
una garanzia imprescindibile del processo penale, dalla natura polivalente, che si
articola tanto nel diritto a non essere interrogati, quanto nel diritto di tacere in senso
stretto, così come nel principio di non autoincriminazione. Ciascuna di queste tre
componenti contribuisce a creare e definire i diritti spettanti ad una persona
imputata e sottoposta a procedimento penale.
La disciplina del contributo informativo dell’imputato alla ricostruzione dei
fatti contribuisce a delineare gli aspetti di fondo di un impianto processuale: la
storia mostra come nel rito penale si sia sempre registrata l’irrefrenabile
propensione ad estrarre la verità di cui l’imputato è depositario, nel tentativo di
colmare la distanza tra verità storica, assoluta ed oggettiva e verità giuridica,
ineluttabilmente condizionata dal contesto in cui è resa e dai soggetti che
conducono la ricerca. Il principio in base al quale nessuno è tenuto ad accusare se
stesso o a fornire prove in tal senso rappresenta un’importante conquista operata
attraverso i secoli, nel passaggio da un processo penale teso a carpire, ad ogni
costo, il sapere dell’imputato ad un approccio, al contrario, ispirato dal rispetto
della libertà di autodeterminazione del soggetto contro cui si procede.
I progressi raggiunti nell’ambito della cultura processualpenalistica, ispirati
da nuovi ideali di giustizia, ove la dialettica stato-cittadino non è improntata sullo
strapotere del primo e la soccombenza del secondo, in ragione di un fine più grande
rappresentato dalla garanzia della sicurezza, dalla lotta alla criminalità e dalla
punizione del colpevole, unitamente alla consapevolezza che la verità
processualmente conseguibile non può condurre ad una corrispondenza oggettiva
ed assoluta ai fatti, hanno condotto a connotare il processo penale attraverso regole
e forme definite a priori che garantiscano, oltre alle esigenze processuali di
10
accertamento dei fatti, anche il riconoscimento di importanti diritti spettanti
all’individuo ed il contemperamento tra essi.
Riconoscere all’accusato, in qualunque sede processuale egli si trovi, la
facoltà di sottrarsi al dialogo con l’autorità procedente costituisce una di queste
fondamentali conquiste: l’autorità si è imposta una sorta di autolimite, in nome del
rispetto di basilari principi di civiltà giuridica e contestualmente, in nome del
ripudio di strumenti volti a carpire in qualsiasi modo il sapere dell’imputato -
approccio che, invece, in passato, rendeva legittimo e consueto il ricorso alla tortura
- rifiutando forme di collaborazione o di delazione coatte.
L’importanza dell’istituto dello ius tacendi risiede proprio nella sua capacità
di coinvolgere e condizionare, tramite il suo riconoscimento e l’ampiezza operativa
accordatagli, molti altri elementi processuali: l’avvertimento dato all’imputato che
ha la facoltà di non rispondere contribuisce a fondare la natura dell’interrogatorio
quale mezzo di difesa, la possibilità di tacere in ordine a talune domande rievoca il
secolare principio di non autoincriminazione, la distinzione tra silenzio esercitato
sul fatto proprio e sul fatto altrui apre le porte alla delicata questione relativa
all’imputato che in fase preliminare accusi un correo e poi in dibattimento rifiuti di
rispondere e lasci il coimputato privo delle possibilità di espletare il contraddittorio
in relazione alle accuse mossegli.
La trattazione si propone, quindi, di analizzare l’istituto dello ius tacendi
innanzitutto attraverso un panorama storico, il quale mette in luce il passaggio dalle
prime formulazioni che si ebbero di tale principio nel XVII secolo, giungendo ad
una sua più compiuta formulazione nell’epoca illuminista. L’attenzione si focalizza,
poi, sul contesto italiano, attraverso l’analisi delle prime codificazioni preunitarie e
postunitarie, del riconoscimento costituzionale accordato al diritto al silenzio, quale
espressione del diritto di difesa sancito nella Costituzione italiana all’art. 24. La
trattazione si rivolge, in seguito, alla legge n. 932 del 1969, con la quale viene
consacrato il diritto al silenzio nel nostro ordinamento, attraverso una normativa
decisamente pioniera, in materia, nel panorama europeo, che accorda all’imputato
una supertutela nell’esercizio della facoltà di non rispondere. Con l’emanazione del
11
nuovo Codice di procedura penale nel 1988, lo ius tacendi entra definitivamente
nell’impianto codicistico: l’art. 64 c.p.p. sancisce, infatti, la necessità che
all’interrogato venga formulato un avvertimento preventivo, in grado di renderlo
edotto della sua facoltà di non collaborare con l’autorità procedente, in ossequio ad
una connotazione dell’interrogatorio quale mezzo di difesa e non quale mezzo di
prova.
L’analisi prosegue addentrandosi in particolar modo nella disciplina del
diritto al silenzio quale risultante dalle modifiche apportate al codice di rito penale
in materia di formazione e valutazione della prova, dalla legge n. 63 del 2001,
volgendo l’attenzione al delicato rapporto tra diritto al contraddittorio nella
formazione della prova che spetta all’imputato accusato dalle precedenti
dichiarazioni di altro imputato e diritto a tacere di quest’ultimo, passando in
rassegna le varie problematiche connesse a tale questione. L’analisi si incentra
anche sul nuovo regime di incompatibilità testimoniale risultante dalla novella del
2001 e sull’ufficio di testimone assistito, introdotto dalla riforma, cercando di
mettere in luce pregi e difetti della scelta operata dal sistema italiano, sottolineando
gli aspetti garantistici che hanno portato a talune scelte e le esigenze processuali
che ne hanno caratterizzato altre.
Le soluzioni adottate dalla riforma sul giusto processo hanno condotto ad un
ridimensionamento del diritto al silenzio, in nome del contraddittorio nella
formazione della prova, appena consacrato nell’art. 111 Cost. e hanno risentito di
un decennio di impressionanti episodi di criminalità organizzata, in cui si è espansa
fortemente la legislazione premiale e le chiamate di correo sono dilagate. Una parte
di questo elaborato è, pertanto, dedicato ad un’analisi della legge sui collaboratori
di giustizia, delle ragioni storiche che hanno condotto a prediligere la via del
premio processuale a fronte della delazione, in un contesto quale quello mafioso e
alla delicata questione della valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori, per la
maggior parte rese in sede di indagini preliminari e dunque, in assenza di
contraddittorio. Dinanzi all’incapacità di rinunciare all’apporto probatorio delle
chiamate di correo, il legislatore del 2001 si è orientato verso una riduzione del
diritto al silenzio, specialmente in relazione alla criminalità organizzata, ambito in
12
cui non solo si vuole salvaguardare appieno il diritto al contraddittorio del chiamato
in correità, ma le esigenze di accertamento dei fatti si rendono più urgenti e il
timore di una dispersione totale del materiale raccolto nelle indagini preliminari, a
fronte del silenzio esercitato in dibattimento dagli imputati, si fa più stringente.
Da ultimo, il lavoro si apre ai profili comparatistici, approcciandosi al
sistema britannico, patria storica del privilegio contro l’autoincriminazione e dello
ius tacendi. L’attenzione si focalizza sull’attuale regime della materia, così come
risultante dalle recenti modifiche del legislatore d’oltremanica, orientato verso una
restrizione dell’area di operatività del diritto al silenzio, mostrando un modello a
cui l’ordinamento italiano ha voluto rifarsi, senza però effettuare scelte altrettanto
drastiche. La comparazione si propone di mettere in luce l’indubbia efficienza del
sistema inglese, la quale traspare da una normativa snella e compatta, a fronte della
complessa disciplina italiana, in cui convivono molteplici figure di dichiaranti. Al
tempo stesso, si è voluta sottolineare l’inequivocabile importanza di salvaguardare
le esigenze processuali ed il principio del contraddittorio, sulla falsariga del
modello britannico, ma non al prezzo di declassare il diritto al silenzio da garanzia
fondamentale ad ingombro processuale, disincentivando l’imputato a tenere una
condotta reticente.
13
Capitolo I
NEMO TENETUR SE DETEGERE: GENESI E
SVILUPPO DELL’ISTITUTO
1. Il diritto al silenzio dell’imputato: dai primi riferimenti
storici alle formulazioni illuministe.
Il diritto al silenzio dell’imputato costituisce uno dei capisaldi nel
novero delle garanzie del processo penale italiano, nonché un corollario del
principio di non autoincriminazione, che affonda le sue radici già nelle
teorizzazioni del secolo XVII.
Contrariamente all’orientamento prevalso in seno ai sistemi
processualcivilistici, dove a lungo è dominata la regola per cui nullus idoneus
testis in re sua intelligitur
1
, fin dall’epoca del diritto comune, le dichiarazioni
dell’imputato contra se sono state utilizzate in chiave probatoria nei
procedimenti penali. Benché solo recentemente esso abbia trovato spazio nei
moderni ordinamenti, una prima teorizzazione, seppur filosofica, del principio
in questione risale al XVII secolo, laddove T. Hobbes affermò, nel Leviatano,
che «un uomo interrogato […] intorno a un delitto che ha commesso, non è
1
V. GREVI , Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel
processo penale italiano, Giuffrè, Milano, 1972, p. 6.
Capitolo primo
14
tenuto a confessare, senza garanzia di perdono, perché nessuno […] può essere
per patto obbligato ad accusare se stesso»
2
.
Fu poi merito dell’illuminismo settecentesco l’elaborazione dei
presupposti che hanno condotto alla considerazione dell’imputato come un
soggetto del processo
3
, rendendolo titolare di diritti e garanzie processuali. La
polemica illuminista si incentrò sul richiamo al carattere contra naturam delle
dichiarazioni autoincriminanti e sull’immoralità degli strumenti impiegati per
costringere l’imputato a confessare
4
.
In Italia significativa fu la posizione di Cesare Beccaria a proposito del
giuramento imposto all’imputato in modo che non rendesse dichiarazioni
mendaci
5
, una argomentazione incentrata sull’immoralità del giuramento a
causa dell’elemento di coazione psichica implicito in esso
6
.
Lo stesso Beccaria, tuttavia, pur essendosi schierato per l’abolizione del
giuramento dell’accusato, non esitava a pronunciarsi a favore della punibilità
dell’imputato che si rifiutasse di rendere dichiarazioni
7
, insegnamento che fu
tra l’altro recepito in alcuni sistemi processuali europei, nei quali si continuò a
prevedere, per lungo tempo, l’inflizione di pene corporali a danno dell’accusato
2
T. HOBBES, Leviatano, trad. it., Editori Riuniti; Roma, 2002, p. 151-152.
3
V. GREVI, op. cit., p. 8.
4
J. GRAVEN, L’obligation de parler en justice, in Droit et vérité, Ginevra, 1946, p.121.
5
C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Einaudi, Torino, 2007, p. 48: «Una contraddizione
fralle leggi e i sentimenti naturali all’uomo nasce dai giuramenti che si esigono al reo,
acciocchè sia un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso; quasi che
l’uomo dovesse giurar da dovero di contribuire alla propria distruzione».
6
La trattazione improntata sul carattere contra naturam di tale coazione risale in realtà già ad
un’impostazione delineata dai criminalisti di epoca pre-illuminista avversi all’istituto del
giuramento, in proposito cfr. A. MATTEI, De criminibus, l. XLVII, tit. XVI, I, § 6, Ticini, 1803,
tit. I, p. 168.
7
C. BECCARIA, «Finalmente colui che nell’esame si ostinasse di non rispondere alle
interrogazioni fattegli merita una pena fissata dalle leggi», op. cit., p.102.
Capitolo primo
15
reticente, così ad esempio nel Codice dei delitti austriaco del 1803, esteso a
tutto il Lombardo-Veneto nel 1815
8
.
Ad uno sviluppo più intenso e coerente dei principi già enunciati da
Beccaria, giunse Gaetano Filangieri, giurista e filosofo del regno borbonico, il
quale, nelle sue argomentazioni contro la pratica della tortura, non mancò di
affermare che non è configurabile l’esistenza di un dovere di collaborazione in
capo all’accusato, riconoscendogli espressamente un diritto al silenzio in sede
di interrogatorio
9
. Questa impostazione non riscosse un’unanime consenso tra i
giuristi dell’epoca: una cospicua parte, infatti, era ancora legata ad una
concezione dell’interrogatorio quale mezzo precipuamente volto ad acquisire
elementi di prova contra reum
10
. Ma del resto, la posizione di Filangieri non
era isolata, al contrario, rientrava nel solco delle istanze illuministiche contrarie
alla tortura e favorevoli ad un sistema processualpenalistico più equo, istanze
che, unitamente alla carica ideale successiva alla Rivoluzione Francese,
segneranno l’evoluzione delle varie legislazioni europee continentali, le quali,
seppur con un lento processo, vennero abolendo le più gravi coazioni nei
8
Così disponeva il Codice dei delitti austriaco del 1803 qualora l’imputato «non dia risposta
alcuna alle interrogazioni che gli verranno fatte, si dovrà seriamente ammonirlo dell’obbligo
che gli corre di rispondere al giudizio e rappresentargli che colla sua ostinazione va ad esporsi
ad una certa punizione.»
9
G. FILANGIERI, La scienza della legislazione, Genova, 1798, p. 53.
10
Cfr. in proposito la posizione di G. CARMIGNANI, giurista italiano che visse a cavallo tra
XVIII e XIX secolo, il quale, in Teoria delle leggi e della sicurezza sociale, Pisa, 1832, p. 211
e ss., affermava che il riconoscimento di una simile facoltà di non rispondere in capo
all’accusato frustrava le esigenze dell’interrogatorio e l’esigenza di verità. Del pari si espresse
Lord BENTHAM, giurista e filosofo inglese, in Traité des preuves judiciaires, Bossange Fréres,
Libraires-Editeurs 1823, laddove considerava prevalente la ratio dell’interrogatorio quale
mezzo istruttorio, ravvisando nell’esercizio del silenzio una tacita confessione.
Capitolo primo
16
confronti degli imputati sottoposti ad interrogatorio, approdando ad una
embrionale configurazione della facoltà di non rispondere
11
.
1.1 I riflessi delle teorizzazioni illuministe sulla facultas
tacendi negli ordinamenti di common law.
Se nell’ Europa continentale le tappe di un progressivo riconoscimento
del diritto di difendersi con il silenzio sono state lente e graduali, nel mondo
anglosassone il principio del nemo tenetur se detegere fu consacrato
implicitamente già nella prima metà del XVII secolo, nello statuto di Carlo I
del 1641, laddove, con l’abolizione della Court of Star Chamber e della Court
of High Commission for ecclesiastical Causes, ossia la Corte regia e quella
ecclesiastica, caratterizzate da prassi inquisitorie, venne inserito il divieto di
deferire il giuramento d’ufficio all’imputato dinanzi alle corti ecclesiastiche, in
modo da evitare che costui fosse obbligato a rilasciare dichiarazioni
autoindizianti
12
. Ciò grazie al rapido riconoscimento che il modello
11
Cfr. in riferimento all’abolizione della tortura, A. ESMEIN, Histoire de la procédure
criminelle en France: et specialement de la procédure inquisitoire depuis le XIII siècle jusqu’à
nos jours, L. Larose et Forcel, Parigi 1882, p. 228 e ss.; P. FIORELLI, La tortura giudiziaria nel
diritto comune, vol. II, Giuffrè, Milano 1954, p. 205 e ss.; e per quanto riguarda la situazione
italiana, P. DEL GIUDICE, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto
italiano, vol. III, parte II, Giuffrè, Milano 1927, p.484 e ss.; nonché U. FERRARI, La verità
penale e la sua ricerca nel diritto processuale italiano,Giuffrè, Milano 1927, p. 80 e ss.
12
Cfr. J.H. WIGMORE, A Treatise on the Anglo-American System of Evidence in Trials at
Common Law, edizione a cura di J.T. Mc Naughton, vol. III, Little-Brown &Co, 1961, p.284,
nota 69.
Capitolo primo
17
accusatorio, insieme all’affermazione del diritto a confrontarsi con
l’accusatore, conobbe in Inghilterra
13
.
Inoltre, oltreoceano, già nel 1791 la Carta Costituzionale degli Stati
Uniti d’America prevedeva, nel V emendamento, che nessuno «può essere
obbligato in qualsiasi causa penale a deporre contro sé medesimo»
14
.
2. Il riconoscimento del principio nemo tenetur se detegere
nelle prime compilazioni codicistiche italiane.
2.1 Cenni sulla legislazione preunitaria.
Con particolare riferimento all’Italia, assumono peculiare importanza le
disposizioni dettate nel Codice di procedura penale pel Regno d’Italia del
1807, codice entrato in vigore durante la dominazione napoleonica sulla
penisola: in esso si stabilì il divieto di deferire il giuramento all’imputato e di
far uso di «qualunque falsa supposizione, seduzione o minaccia, onde ottenere
una risposta diversa da quella che l’interrogato è disposto a fare
spontaneamente», così disponeva l’art. 204 c.p.p.; dall’altro lato, nell’art. 208
c.p.p., si previde che, di fronte al rifiuto di rispondere da parte dell’imputato o
di fronte all’imputato che si finga muto, il giudice dovesse ammonirlo a
13
Per una analisi più approfondita di tale tematica si rimanda all’ultimo capitolo di questo
elaborato.
14
Così testuale: «No person…shall be compelled in any criminal case to be a witness against
himself», V em., Costituzione USA.
Capitolo primo
18
rispondere, avvertendolo che nonostante il suo silenzio, si sarebbe proceduto
oltre nell’istruzione
15
.
Queste disposizioni rappresentano un importante superamento della
passata impostazione e un approccio sempre più concreto all’abolizione della
tortura, essendo esse orientate a garantire l’imputato da ogni forma di
costrizione per ottenere dichiarazioni. Sebbene la dominazione napoleonica in
Italia non si sia protratta a lungo, le norme contenute nel codice del 1807
influenzarono le successive codificazioni in materia nell’epoca della
Restaurazione
16
.
15
Cfr. V. GREVI, op. cit., p. 23, nota 36, nella quale l’autore specifica che l’equiparazione
dell’art. 208 del codice in esame, tra l’imputato che si rifiuti di rispondere e quello che si finga
muto, era già stata sancita nell’ Ordonnance criminelle francese del 1670.
16
Così il Codice di processura criminale per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla del
1820, nel quale all’art. 159 si vietava «l’uso di qualunque falsa supposizione, seduzione o
minaccia, onde ottenere una risposta diversa da quella che l’interrogato è disposto a fare
spontaneamente» e si prevedeva, negli artt. 162 e 398, che se «l’inquisito si finga muto, o si
ostini in qualunque modo a tacere, il giudice lo ammonisce a rispondere e lo avverte che si
procederà oltre malgrado il suo silenzio». Il medesimo avvertimento era previsto nel Codice di
procedura criminale per gli stati Estensi del 1855 agli artt. 199 e 202, così come «il divieto di
deferire il giuramento al prevenuto per causa del delitto di cui è imputato» era contenuto
nell’art. 197. Anche nello Stato Pontificio il Regolamento di procedura criminale gregoriano
del 1831 aveva portato alla costruzione di un impianto garantistico del tutto simile a quelli
sopra indicati. E ancora, il Codice per lo Regno delle due Sicilie, all’art. 224 previde
l’ammonimento da parte del giudice di fronte al rifiuto di rispondere e il divieto di deferimento
del giuramento. Infine, la legislazione del Granducato di Toscana, già con Pietro Leopoldo, era
approdata nel 1786 al divieto «di obbligare il reo a giurare […] tanto riguardo al fatto proprio,
quanto riguardo al fatto degli altri complici o non complici del delitto per cui si procede» e
all’abolizione della tortura.
Le norme ora elencate non possono ritenersi ispirate al Code d’instruction criminelle
francese del 1808 poiché esso non conteneva nessuna normativa corrispondente, anche se la
dottrina riteneva che dinanzi alla recusatio respondendi dell’imputato, il giudice dovesse
Capitolo primo
19
Disposizioni del tutto simili a quelle del codice di procedura penale,
emanato sotto la dominazione napoleonica, sono state poi inserite nel Codice di
procedura criminale degli Stati Sardi del 1847
17
, disciplina che, senza
modifiche, fu trasferita nel successivo codice di procedura penale sardo del
1859, destinato a confluire poi nel primo codice di rito penale del Regno
d’Italia.
2.2 Lo ius tacendi nella codificazione dell’Italia unita.
Nelle varia codificazioni che si susseguirono a partire dal 1865 in poi,
l’impostazione della questione relativa alla possibilità per l’imputato di
difendersi tramite l’utilizzo della facultas tacendi ha risentito delle concezioni
politiche ed ideologiche dominanti all’epoca dei vari codici.
Il codice del 1865, rifacendosi, come accennato, al codice sardo del
1847, prevedeva all’art. 236, comma 1, l’obbligo di avvertire l’imputato
reticente o che simuli una condizione di mutismo o sordità, del proseguimento
della trattazione, nonostante il suo rifiuto di rilasciare dichiarazioni, ma
l’avvertimento doveva essere comunicato solo dopo che l’imputato si fosse
effettivamente astenuto dal rispondere. Al di là della formulazione letterale
della disposizione, in dottrina andò sviluppandosi una interpretazione in chiave
limitarsi a prendere atto del suo silenzio, senza che l’andamento del processo ne fosse
intralciato.
17
Cfr. l’art. 215 del codice sardo secondo cui «quando l’imputato ricuserà di rispondere, o darà
segni di pazzia che possono credersi simulati, o fingerà di essere sordo o muto per esimersi dal
rispondere, il giudice lo avvertirà che non ostante il suo silenzio le sue infermità simulate, si
passerà oltre all’istruttoria del processo» e l’art. 211 nel quale era sancito «il divieto di deferire
il giuramento all’imputato, anche in ciò che concerne il fatto altrui».
Capitolo primo
20
difensiva dell’interrogatorio
18
, inteso non più come strumento esclusivamente
probatorio.
Anche il codice del 1913 conteneva un simile avvertimento, ma la
formulazione della norma disponeva che esso dovesse essere espresso
all’imputato ancor prima che questi si accingesse a rilasciare dichiarazioni
19
. Si
giunse, così, ad un meccanismo di tutela preventiva per l’accusato, in modo da
porlo al riparo da qualsiasi lesione della sua libertà morale
20
. Nel nuovo codice,
in definitiva, si perveniva ad una posizione più garantistica, nonché preordinata
a mettere in rilievo quell’aspetto dell’interrogatorio incentrato sulla garanzia di
autodifesa dell’imputato
21
.
Con l’avvento del fascismo, il clima politico mutò sensibilmente e con
esso il modo di intendere i rapporti tra autorità e cittadino, nell’ottica di uno
Stato autoritario, entro il quale il cittadino si muove non protetto da un sistema
di garanzie che lo tutelino dal forte potere centrale. Ne è derivato un impianto
legislativo conforme all’ideologia del partito, approdando così alla redazione
del codice di procedura penale del Ministro Rocco, nel 1930. Nel codice Rocco
non fu riprodotta la previsione dell’art. 261, comma 2 del codice abrogato,
considerata un elemento processuale di derivazione liberal-democratica e l’art.
18
Cfr. G. BORSANI-L. CASORATI, Codice di procedura penale italiano, Giuffrè, Milano, 1876,
p. 424, 495
19
La formulazione dell’art. 236 del codice del 1865 prevedeva che il giudice dovesse avvertire
l’imputato che l’istruzione sarebbe proseguita «non ostante il suo silenzio» e dunque quando
l’imputato stesso avesse ricusato di rispondere, la nuova norma del codice del 1913 affermava
che il giudice dovesse avvertire l’accusato che «se anche non risponda, si procederà oltre
nell’istruzione».
20
Cfr. V. PATANÈ, Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli, Torino, 2006, p. 17.
21
Cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto del codice di procedura penale del 1905, in
Atti parlamentari 1904-1905, parte I, p. 334, dove viene affermato che «in omaggio al
principio nemo tenetur se accusare il progetto riafferma il sistema che fa dell’interrogatorio un
mezzo di difesa e non già un mezzo di prova».
Capitolo primo
21
367, comma 2 fu così formulato: «Il giudice invita l’imputato a discolparsi e a
indicare le prove in suo favore. Se l’imputato rifiuta di rispondere, ne è fatta
menzione nel processo verbale e si procede oltre nell’istruzione.», simile
posizione si registrò anche nella disciplina degli avvertimenti riguardante la
fase dibattimentale: l’imputato doveva indicare le prove ritenute utili per la sua
difesa, qualora rifiutasse di rilasciare dichiarazioni, se ne faceva menzione nel
processo verbale e il dibattimento proseguiva
22
.
Sebbene fosse mutato il rapporto individuo-autorità, pervenendo ad una
diffusa avversione verso la presunzione di innocenza dell’imputato,
nuovamente collocato in una posizione di soggezione nell’interrogatorio, la
nuova formulazione del codice Rocco non arrivò fino al punto di configurare
un obbligo di rispondere e di dire la verità in capo all’accusato, ipotesi
confermata dalla mancanza di sanzioni penali in caso di comportamento
reticente da parte dell’interrogato
23
; tuttavia, la reticenza o il mendacio
dell’imputato, benché incoercibili sul piano giuridico, non erano privi di
effetto, da un lato, infatti, potevano influire sulla commisurazione della pena da
parte del giudice, dall’altro potevano fondare una prova per presunzione,
desunta appunto dal comportamento della parte
24
.
È chiaro, tuttavia, che il silenzio dell’imputato non fosse del tutto
scevro da connotazioni indizianti, nel senso che spesso finì con l’avvalorare gli
indizi a carico.
22
Cfr. V. PATANÈ, op. cit., p. 18.
23
Nella Relazione al Progetto definitivo del C.p.p. del 1930, p. 71, si legge al riguardo della
facoltà di non rispondere che trattasi di «un interesse che per se stesso contrasta con quello
della giustizia; di un rifiuto non conforme al diritto ma contrario al diritto, che tuttavia non può
dar luogo all’applicazione di sanzioni, perché, data la particolare condizione dell’imputato ed il
principio nemo tenetur se detegere, si ritiene equo lasciarlo impunito».
24
Cfr. G. FOSCHINI, L’interrogatorio dell’imputato, in Annali di diritto processuale penale,
1943, p. 5., laddove afferma che «più che di obbligo di verità deve riconoscersi l’esistenza di
un onere di dichiarare il vero, caratterizzato dalle conseguenze sfavorevoli che per l’imputato
stesso derivano dall’inadempimento dell’onere medesimo».