I derivati offrono nuove opportunità per la diversificazione dei rischi e
concorrono a completare i mercati finanziari, con riguardo a quelli a termine la
cui rilevanza ai fini dell’efficienza economica è stata oggetto di importanti
approfondimenti teorici e ha avuto solidi riscontri empirici.
I mercati dei derivati sono strettamente connessi con quelli dei mercati a
“pronti” , nei quali le transazioni sono regolate entro il tempo strettamente
necessario al trasferimento degli strumenti finanziari e della somma di denaro
pattuita. Chi opera sul mercato a pronti può utilizzare gli strumenti derivati per
modificare la propria posizione finanziaria in base alle aspettative di variazione
dei prezzi di mercato.
Gli effetti dei derivati non sono confinati alla sola sfera finanziaria.
Essi sono in grado di influire sulle opportunità di investimento e di
finanziamento degli operatori e, in ultima analisi, sull’economia reale.
Possono essere utilizzati per assicurarsi da eventuali conseguenze negative di
eventi futuri, trasferendo il rischio a soggetti in grado di meglio sostenerlo e
gestirlo; anche quando vengono impiegati per finalità di arbitraggio o
speculative possono determinare effetti positivi in termini di accresciuta liquidità
del mercato e di convergenza dei prezzi verso valori di equilibrio.
L’utilizzo dei derivati non è esente da rischi; se non adeguatamente
valutati, questi possono generare situazioni critiche per intermediari ed
operatori.
È proprio su quest’ultima situazione che intendo soffermarmi col presente
lavoro vista la notevole rilevanza pratica del problema.
Negli ultimi anni sono infatti numerose le società e gli enti locali che hanno
concluso contratti derivati con intermediari finanziari.
2
La rilevanza pratica della materia è fuori di dubbio se si prendono in
considerazione alcuni dati statistici.
Ad esempio, secondo le informazioni della Centrale dei rischi, ad agosto 2007,
l’esposizione in derivati dei soli enti locali ammontava a 674 milioni di euro per
i comuni, 99 milioni di euro per le province e 278 milioni di euro per le regioni.
La cifra totale supera il miliardo di euro. La Centrale dei rischi non tiene conto
però dei derivati venduti da intermediari esteri, a cui si rivolgono principalmente
gli intermediari di maggiori dimensioni. Le cifre sono quindi inferiori alla realtà
delle cose. E, oltre agli enti locali, numerose imprese private hanno fatto largo
ricorso a strumenti finanziari.
Quando i contratti derivati producono perdite, le società coinvolte cercano di
correre ai ripari.
Normalmente, in una prima fase, i contratti vengono rinegoziati con l’assistenza
dello stesso intermediario che li ha collocati. Talvolta, o meglio, nella maggior
parte dei casi, la conclusione dei nuovi contratti non fa venir meno le perdite;
piuttosto le fa crescere a volte a livello esponenziale.
Ecco che scatta un meccanismo simile a quello già
abbondantemente registrato nei casi Argentina, Cirio e Parmalat: le società
coinvolte si rivolgono all’autorità giudiziaria. L’obiettivo è quello di prospettare
una qualche manchevolezza da parte dell’intermediario finanziario, al fine di far
valere uno dei rimedi riconosciuti dall’ordinamento e, così, azzerare o
quantomeno ridurre le perdite.
Le società cercano,in altri termini, tentano di scaricare sulla banca le
conseguenze negative dell’investimento effettuato.
In sede introduttiva può essere utile illustrare ciò che tende a succedere con una
certa frequenza nella prassi. Gli Intermediari non hanno interesse ad avere come
controparti operatori non qualificati.
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In questo caso, difatti, le banche sono assoggettate ai dettagliati obblighi
informativi previsti nel reg. Consob n. 11522/1998.
L’Intermediario dunque, senza fornire troppe spiegazioni, suggerisce alla società
o persona giuridica di sottoscrivere una dichiarazione in cui autocertifica di
essere “ in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di
operazioni in strumenti finanziari” (art. 31 comma 2 reg. n.11522/1998).
Il testo di tale autocertificazione viene di norma predisposto dalla stessa banca.
Gli amministratori delle società che si vedono proposto il contratto derivato
normalmente non verificano con attenzione il contenuto dell’autocertificazione
che sottoscrivono.
Alle imprese interessa la finalità essenziale del testo contrattuale (che dovrebbe
essere la riduzione di certi rischi ) e, di regola, i loro rappresentanti legali non si
concentrano sul significato esatto di tutte le dichiarazioni che firmano.
Non raramente, quindi, l’autocertificazione viene sottoscritta senza
sapere con esattezza quali siano i suoi effetti giuridici.
Quando poi il contratto comincia a causare delle perdite alla società o persona
giuridica, le imprese contestano agli intermediari finanziari di non essere state
adeguatamente informate.
A quel punto le banche, dal canto loro, eccepiscono che non erano obbligate ad
informare poiché avevano a che fare con operatori qualificati.
Sempre in via di introduzione conviene accennare al fatto che la materia
esaminata è stata di recente modificata a livello europeo;
si fa riferimento a due direttive: 1) Direttiva 2004/39/CE (MIFID) del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 relativa ai mercati degli
strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del
Consiglio e la direttiva 2000/12/CEE del Parlamento Europeo e del Consiglio e
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che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio; 2) Direttiva 2006/73/CE della
Commissione del 10 agosto 2006 recante le modalità di esecuzione della
direttiva 2004/39/CEE per quanto riguarda i requisiti di organizzazione e le
condizioni di esercizio dell’attività delle imprese di investimento e le definizioni
di alcuni termini ai fini di tale direttiva.
Ancora più recentemente la materia è stata riformata con la normativa italiana di
attuazione del diritto comunitario; il d.lgs. n. 58/1998 è stato modificato dal
d.lgs. n. 164/2007 (Attuazione della direttiva 2004/39/CE relativa ai mercati
degli strumenti finanziari).
Sempre in sede introduttiva mi sembra opportuno far riferimento a
quella che ormai è divenuta molto più di una semplice opzione
praticabile, bensì la vera e propria strada intrapresa da banche e imprese che si
trovano ai “ferri corti” per questioni legate alla sottoscrizione e gestione di
contratti derivati; il riferimento è agli ADR (alternative dispute resolution), cioè
ai sistemi alternativi di risoluzione delle controversie che servono ad alleggerire
la macchina della giustizia dirottando le questioni su percorsi semplificatie più
rapidi rispetto alle aule di tribunale.
Con l’importante risultato collaterale che entrambe le parti contrattuali coinvolte
possono uscire soddisfatte (quantomeno parzialmente) dalla disputa.
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CAPITOLO 1
IL CONTRATTO DERIVATO
1. Nozione e definizione generale
“Derivato” è espressione sintetica della nozione “contratto
derivato”, come tale mutuata dagli ordinamenti finanziari e giuridici
anglosassoni, nei quali tali “accordi” ebbero modo di svilupparsi ed
affermarsi con autonomo profilo.
Tentando una definizione globale e quanto mai ampia, la categoria
dei derivati ricomprende tutti quei contratti di natura finanziaria
consistenti nella negoziazione a termine di un’entità economica e
nella relativa valorizzazione autonoma del differenziale emergente
dal raffronto fra il prezzo dell’entità al momento della stipulazione
e il suo valore alla scadenza pattuita per l’esecuzione.
Il termine trae origine dall’ aggettivo inglese derivative, ma il
concetto che tale parola esprime non è agevolmente definibile se
ci si limita ad un’interpretazione letterale della locuzione.
Non si può certamente far appello alle costruzioni teoriche
tradizionali e qualificare il derivato alla stregua di contratto
accessorio, di unità contrattuale insistente su altra e distinta entità
negoziale, da questa influenzata ma inidonea ad influenzarla.
I derivati, come ha rilevato la Banca d’Italia (Circolare 29.3.88 n.
4, aggiornamento 23.6.94 n. 112: art. 3), sono contratti che
“insistono su elementi di altri schemi negoziali, quali titoli, valute,
6
tassi di interesse, tassi di cambio, indici di borsa.
Analogamente si esprime sia la dottrina straniera, per lo più di
matrice anglosassone
1
, che la dottrina italiana
2
.
Contrariamente quindi al senso istintivamente suggerito dal
termine, i contratti in parola non derivano da, bensì insistono su
elementi di altri negozi.
In tal senso il concetto di derivazione è improprio e rovesciato; il
contratto sarebbe derivato, in quanto il suo valore dipenderebbe,
dunque deriverebbe, da fondamentale sottostante.
Un secondo significato del termine derivato lo si può desumere
direttamente dall’ art. 1, comma 3 d. lgs 58/1998 il quale definisce
gli strumenti finanziari derivati come gli strumenti indicati al
comma 2 dello stesso articolo, alle lettere f), g), h), i), j) (vale a dire
future, swap, opzioni, contratti a termine e combinazioni di titoli).
L’accordo, per effetto della stipulazione, diviene di per sé uno
strumento finanziario.
Dunque il termine “derivato” sta ad indicare il processo genetico
grazie al quale dalla base negoziale origina (“deriva”) lo strumento
finanziario corrispondente.
In definitiva, l’espressione derivati mal si accompagna a quella di
contratti.
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1
Kolb R.W. Financial derivatives, 1996 Cambridge:un derivato finanziario è
uno strumento basato su un altro strumento elementare, e il valore del
derivato finanziario dipende dall’ulteriore strumento di base.
2
Caputo Nassetti Profili civilistici dei contratti “derivati” finanziari, 1997
Milano: si definiscono “contratti derivati” quei contratti il cui valore deriva dal
prezzo di un’ attività finanziaria sottostante, ovvero del valore di un
parametro di riferimento(indice di borsa, tasso di interesse, tasso di cambio).
Derivato è piuttosto lo strumento finanziario che deriva dal
contratto. L’uso improprio dell’espressione “contratti derivati” si
deve dunque a mere ragioni di comodità espositiva oltre che alla
difficoltà di distinguere il sottile confine tra la componente
negoziale (genesi) e il suo risultato (strumento finanziario).
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2. Il concetto di derivazione. Contratto derivato e titolo
sintetico. Derivato come sintesi fra atto negoziale e
strumento finanziario.
La ricostruzione precedentemente fatta consente di effettuare un
ulteriore distinguo: se il derivato è un contratto dal quale deriva uno
strumento finanziario ci si può domandare in cosa consista la
differenza tra derivato e titolo sintetico.
Quest’ultimo può essere definito come un valore artificialmente
creato mediante l’uso di altre entità, quali i titoli, in combinazione.
Ad esempio il simultaneo acquisto di una call option e la vendita di
una put option sullo stesso titolo crea un titolo sintetico avente lo
stesso valore, in termini di potenziale profitto, del medesimo titolo
sottostante.
Anche nel titolo sintetico si assiste ad una sovrapposizione tra
elemento negoziale e strumenti finanziari, ad una operazione che,
muovendo da una base negoziale, evolve in un risultato finanziario
ulteriore e diverso da quello individualmente riferito e riferibile alle
componenti trattate del negozio.
Tale analogia di risultati ha indotto parte della dottrina ad assimilare
le due tipologie, portandola a considerare il derivato quale
filiazione del titolo sintetico.
In realtà fra derivato e titolo sintetico esiste una radicale
contrapposizione di struttura; mentre il titolo sintetico presuppone
l’esistenza di almeno due distinti strumenti finanziari ( o di porzioni
di essi ) sui quali lo strumento negoziale interviene col fine di
creare un collegamento e di attenuare, esaltare o integrare gli effetti
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finanziari degli strumenti finanziari; viceversa il derivato non
presuppone necessariamente l’esistenza di neppure uno strumento
finanziario, bensì di semplici grandezze economiche e l’elemento
negoziale serve non già a creare legami o complementi fra altri
strumenti finanziari, ma a plasmarne di nuovi.
Per dirla in termini più semplici il titolo sintetico è la sintesi
finalizzata degli effetti propri di strumenti esistenti mentre il
derivato è un contratto generatore di nuovi strumenti, che può o non
può utilizzare strumenti finanziari esistenti (compresi altri derivati )
quale “materia prima”.
In siffatta prospettiva il contratto derivato si pone come ponte tra lo
strumento negoziale e quello finanziario poiché la componente
negoziale non si esaurisce nella fase genetica, permeando e
connotando lo strumento dalla sua origine sino alla sua estinzione.
La stipulazione di un contratto derivato costituisce a un tempo atto
negoziale e mezzo di generazione dello strumento, con la
conseguenza di imputare alle parti la duplice posizione di
contraenti e di creatori di un’autonoma entità finanziaria.
Le parti che stipulano uno swap non si limitano a negoziare uno
strumento finanziario già esistente: è la loro stessa attività negoziale
che produce la creazione dello strumento. Il che non accade, ad
esempio, in occasione della stipulazione di un normale contratto di
compravendita di azioni, nel quale le parti nulla tolgono e nulla
aggiungono al titolo fondamentale, preesistente al loro negoziare.
Analogamente, in fase di esecuzione del contratto, la disciplina
negoziale influirà costantemente sui contenuti dello strumento,
costituendone essa stessa l’essenza. Lo swap che, prima della sua
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estinzione venga alienato ad un terzo, in tanto potrà formare oggetto
di un tale atto dispositivo in quanto il titolo originario contempli
siffatta possibilità. Così passato di mano, lo swap continuerà ad
essere regolamentato dal titolo negoziale, quello cioè formato dai
contraenti originari. Ciò non accade nella vendita di un pacchetto
azionario, la cui cedibilità successiva non è condizionata dal titolo
contrattuale della precedente alienazione e la cui disciplina non
dipende dal contenuto di tale titolo anteriore bensì dalla legge
ovvero da ulteriori, diversi ed anch’essi preesistenti atti pattizi
(statuti o patti parasociali).
La portata di tale distinzione è stata esagerata e ciò ha condotto la
dottrina a dedurne distorte conseguenze in ordine alla natura o
meno di valore mobiliare del derivato.( cap. IV § 4.3).
L’errore è stato, come già sottolineato, quello di voler per forza
distinguere tra momento genetico e risultato della genesi negoziale.
Al contrario la peculiarità del derivato consiste propriamente in
tale compenetrazione tra atto negoziale ed entità finanziaria
generata.
3.
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4. Commodities and financial derivatives: limitata
rilevanza della distinzione.
I derivati possono avere ad oggetto entità economiche di varia
natura e specie. Può trattarsi di un titolo, come di una valuta, come
di un tasso di interesse o di un indice finanziario. Può trattarsi
tuttavia anche di un bene, di una merce: una derrata di cereali, un
metallo prezioso, capi di bestiame. Come vedremo tra breve i
derivati nacquero proprio come strumento di negoziazione a
termine di beni e non già di grandezze finanziarie.
Tradizionalmente i derivati su merci ( commodities derivatives )
sono stati distinti dai derivati relativi ad entità finanziarie ( financial
derivatives ).
Tale distinzione, concepita per finalità descrittive, è stata tuttavia
sopravvalutata e di conseguenza si era radicata la convinzione che
solo il financial derivative fosse qualificabile come strumento
finanziario; non anche il derivato su merci.
Come precedentemente detto la caratteristica del derivato consiste
nel fondere inscindibilmente due componenti, quella contrattuale e
quella finanziaria. E se questa è la vera natura dello strumento, è
evidente che la componente economica fondamentale diviene
assolutamente irrilevante, del tutto inidonea a connotare la
fattispecie. Il che significa, in concreto, che il derivato non cessa di
essere tale per il fatto di avere ad oggetto un metallo prezioso
piuttosto che un titolo azionario.
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5. Funzioni economiche del derivato: funzione
protettiva e speculativa.
Tutti i contratti derivati hanno un comun denominatore: il tempo. O
meglio, l’incertezza connessa alle fluttuazioni che le grandezze
economiche di riferimento possono assumere nel tempo. Ciò che
accomuna funzionalmente tutti i derivati è il loro fine anticipatorio
rispetto a tali fluttuazioni.
Così, ad esempio, il future, fissando ad oggi il prezzo del bene da
consegnarsi domani, mirerà a stabilizzare il prezzo stesso contro il
possibile differenziale negativo costituito dal rialzo a termine.
L’option, concedendo la facoltà al beneficiario di optare o meno per
l’esecuzione dell’operazione a scadenza, garantirà un efficace
controllo del rischio futuro, circoscrivendo la perdita al solo premio
pagato. Lo swap sui tassi di interesse e sulle valute, incrociando,
come vedremo, i flussi debitori condurrà al controllo del corso dei
tassi o delle divise, assicurandone la predeterminazione.
Tale regola vale per le numerose varianti degli archetipi appena
accennati.
Il principio di fondo è che il derivato assicuri all’operatore un certo
risultato rispetto all’evoluzione futura del valore di un bene. Tale
risultato non deve necessariamente tradursi in una riduzione del
rischio di mercato, ben potendo addirittura comportarne
un’amplificazione. Ciò che conta è la modificazione della
situazione economica dell’investitore rispetto alla condizione in cui
si troverebbe in assenza della stipulazione o della successiva
acquisizione del derivato.
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La valutazione che presiede alla stipulazione o all’acquisto di un
derivato è dunque sempre condizionata da una stima previsionale.
Il meccanismo della stima previsionale rende lo strumento idoneo al
perseguimento di due distinte (ma inscindibili) funzioni:
a) La funzione protettiva.
Comunemente si indica col termine mutuato dalla prassi finanziaria
anglosassone hedging, ossia “ copertura “ .
Intuitivamente il concetto di copertura esprime l’ attività volta a
controllare l’evento futuro e incerto, in particolare la fluttuazione di
valore di un bene o di una grandezza economica.
Prendendo ad esempio la formula più semplice di copertura vale a
dire la copertura diretta sul bene fondamentale, si può considerare il
caso di un tizio il quale, ritenendo che il titolo X oggi quotato a
100, sia soggetto ad un rialzo nel prossimo trimestre, potrà
prevenire tale effetto indesiderato stipulando un future, ossia un
acquisto del titolo X al prezzo di 100 da eseguirsi fra tre mesi.
b) La funzione speculativa.
La finalità di copertura può essere sostituita da una finalità di tipo
speculativo, dunque di segno radicalmente opposto.
Lo stesso operatore potrebbe stipulare il future non per un fine di
protezione sull’acquisto del titolo bensì per una ragione di mero
profitto a breve. Ove il titolo quoti a scadenza 120, l’acquisto a 100
consentirà all’operatore, rivendendo immediatamente il titolo a
pronti, cioè al prezzo corrente, di lucrare la differenza pari a 20. Va
da sé che nel caso in cui il titolo ribassi a 90, l’operatore avrà fallito
la previsione e acquisterà a 100 un titolo che, se immediatamente
rivenduto, gli procurerà un ricavo di 90 con un perdita dunque di
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Ciò che resta immutato in entrambi i casi è il principio che sta
nell’acquisto del differenziale che, nel primo caso, realizza in
termini di consolidamento del prezzo del bene, nel secondo caso per
effetto di un’operazione di monetizzazione immediata.
Mi occuperò più avanti di analizzare le diverse posizioni della
dottrina che a partire dall’inizio degli anni ’90 si è intrattenuta circa
la rilevanza della funzione del derivato ai fini della sua
qualificazione. Si vedrà come il problema così posto ha condotto a
soluzioni non condivisibili che hanno addirittura influito
negativamente sull’accreditamento giuridico dei derivati.
Quel che appare fin da subito necessario è fissare un principio onde
evitare di cadere in facili equivoci. Le due funzioni sono solo
astrattamente, ma non anche concretamente, scindibili.
In buona sostanza non si può escludere che un’impresa esposta in
valuta stipuli ad esempio uno swap per finalità soltanto protettive e
non anche speculative, né che una banca si esponga al rischio
valutario per finalità di puro lucro e non anche per fini di
protezione. Non è raro infatti che un’impresa stipulando un
derivato, miri (anche o soltanto ) a massimizzare il rendimento delle
sue eccedenze di tesoreria, né che, al contrario, una banca
impegnata in un contratto future sia a ciò indotta dall’esigenza di
operare la ricopertura di una posizione (anche non in derivati )
aperta in precedenza e che rischi di essere compromessa in futuro.
Non appare dunque possibile identificare lo strumento con la sua
funzione o pretendere di ricavare dalla stessa un criterio di
sistemazione concettuale e poi applicativa. Già in astratto infatti,
prima ancora che in concreto, è pressochè impossibile stabilire
quando un derivato sia impiegato per l’uno o per l’altro scopo: le
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