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La portata innovativa del decreto
L'istituto del contratto a termine è quello che negli ultimi anni ha subito le
maggiori trasformazioni. La dottrina non è ancora univoca e mancano
riferimenti giurisprudenziali sulla portata di alcune norme, che possono
essere lette in maniera estensiva, allargando di molto lo spazio decisionale
del datore di lavoro, ovvero in maniera più restrittiva, riducendo, ma non
certo annullando, la portata innovativa del nuovo sistema rispetto al
precedente assetto.
La cautela è quindi d'obbligo e tuttavia è necessario, proprio per alcune
incertezze interpretative che sono state sollevate, fare il punto della nuova
situazione e capire quali sono le novità e come si gestisce un istituto la cui
disciplina è oggi racchiusa quasi esclusivamente nel nuovo decreto
legislativo.
Sono note le polemiche che hanno accompagnato l'emanazione del decreto
legislativo 368 del 2001. Esse certamente danno la dimensione della portata
innovativa della nuova disciplina, che sostituisce quasi integralmente la
precedente sedimentazione normativa in materia.
In realtà le polemiche hanno sicuramente una ragion d'essere nell'alto grado
di innovazione del testo, che interviene decisamente su una tipologia
contrattuale flessibile da sempre circondata da molte cautele e ritenuta
un'eccezione rispetto alla tipologia ordinaria del contratto di lavoro a tempo
indeterminato.
Per la verità lo stato della normativa vigente al momento dell'emanazione
del decreto legislativo 368 conteneva già sostanziali attenuazioni dei
vincoli della legge base (l.230/1962), soprattutto per effetto della
5
devoluzione di potere normativo alla contrattazione collettiva operata dalla
legge
1
.
La contrattazione, infatti, era già pervenuta a degli allargamenti della
casistica sul ricorso ai contratti a termine come per l'ammissibilità della
compresenza del sostituto e del sostituito per consentire il passaggio delle
consegne, o per la sostituzione "a cascata", cioè non necessariamente del
lavoratore assente
2
; si tratta tuttavia di correttivi che in larga parte hanno
sancito orientamenti cui già era pervenuta la giurisprudenza e che in
sostanza hanno portato ad una liberalizzazione ancora incompleta dei
contratti a termine, visti pur sempre come eccezione rispetto alla tipologia
ordinaria di reperimento del personale.
L'evoluzione della disciplina legislativa e contrattuale a partire dalla legge
230 è stata quindi indubbia ma il tradizionale disfavore verso questa forma
di lavoro precario non si è del tutto dissolto tanto che, prima del recente
intervento legislativo in attuazione di una direttiva dell'Unione europea
3
, il
ricorso al lavoro a termine era ancora circoscritto ad alcune causali ben
precise e puntualmente disciplinate
4
.
1
Ci si riferisce all'art. 23 della legge 56 del 1987, che ha riconosciuto alla contrattazione il potere di integrare le
causali di legge che legittimano il ricorso ai contratti a termine.
2
Cfr. art. 7, commi 4 e 5 del CCNL 14.9.2000 per il personale del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali.
3
La direttiva UE 70/99, recepita dal decreto legislativo 368, raccoglie integralmente l'accordo CES-UNICE-CEEP
sul lavoro a tempo determinato e si colloca quindi nell'area del c.d. dialogo sociale.
L'accordo afferma che "…i contratti di lavoro a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma
comune dei rapporti di lavoro…", dichiarazione che è un indubbio passo in avanti rispetto alla vecchia impostazione
del contratto a termine visto solo come eccezione.
4
La legge base (230 del 1962) consentiva con molte cautele il ricorso al lavoro a termine, considerato un'eccezione
rispetto a quello a tempo indeterminato. Sul finire degli anni settanta sono state introdotte alcune aperture per
particolari settori ma si è dovuto attendere la legge 56 del 1987 per promuovere la via contrattuale all'individuazione
di ulteriori tipologie. Nel '91 la legge 223 introduceva un'ulteriore tipologia (quella dell'assunzione a termine di
lavoratori in mobilità) ma è solo dal '97, con la legge Treu che vengono apportate significative flessibilizzazioni sul
lavoro a termine, in concomitanza con l'introduzione del lavoro temporaneo, senza peraltro rimuovere completamente
l'atteggiamento di grande cautela verso il ricorso al lavoro a termine.
6
L’abbandono della contrattazione
Il punto importante, che spiega quale sia sostanzialmente la portata
innovativa del decreto legislativo, risiede nella determinazione dei casi in
cui si può ricorrere ad assunzioni a termine, sotto un duplice profilo: il
metodo da seguire e l'effettivo ambito di estensione praticabile
nell'apposizione della clausola del termine.
Sotto il primo aspetto la novità è radicale. I contratti collettivi vigenti (sia
nel privato che nel pubblico) indicano espressamente i casi in cui è
ammesso il ricorso al lavoro a termine, facoltà del resto riconosciuta alla
contrattazione dallo stesso legislatore fin dal 1987; ora questa impostazione
è stata rovesciata e il decreto legislativo 368 si limita a richiedere che
l'apposizione del termine sia accompagnata dalla espressa indicazione delle
"ragioni" specifiche di "carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo" che ne giustificano il ricorso.
Va detto subito che il superamento della logica delle causali tipizzate dai
contratti collettivi allarga l'area del lavoro a termine e apre anche la via
verso un allungamento della durata dei relativi rapporti di lavoro. Ora il
datore di lavoro può assumere con contratto a termine purché esponga le
specifiche "ragioni", dizione generica e quindi ben più ampia di quella
adottata fino ad oggi dai contratti collettivi.
In altre parole, non essendovi più una tipizzazione puntuale delle situazioni
che giustificano l'apposizione della clausola, queste saranno esplicitate di
volta in volta in relazione alle specifiche esigenze;
Si tratta di un vero e proprio ribaltamento che, eliminando il potere
contrattuale di integrare le causali indicate dalla legge, ridimensiona
indubbiamente lo spazio della contrattazione collettiva in materia, fatto
realmente nuovo nel panorama della legislazione lavoristica, dagli anni '70
al 2001 basata sul sostegno al ruolo dell'autonomia collettiva.
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La sovrapposizione del decreto legislativo rispetto ai contratti collettivi è
da ritenersi ormai avvenuta; immediatamente per quanto riguarda la
proroga (tutti i contratti in scadenza dopo l'entrata in vigore del decreto
legislativo possono essere prorogati, in presenza di ragioni oggettive, fino a
una durata complessiva di 36 mesi, per una durata, quindi, anche superiore
a quella originaria, come invece era previsto in precedenza), alla scadenza
dei contratti collettivi stessi (già intervenuta nel settore pubblico) per
quanto riguarda la sostituzione del modello "causali" con quello delle
"ragioni", cioè la vera chiave di volta per liberalizzare gli ambiti del nuovo
lavoro a termine.
La dizione adottata ("alla scadenza…”) non sembra dare adito a dubbi in
proposito, poiché in questo caso non è invocabile il prolungamento
dell'efficacia dei contratti in essere nell'attesa della stipula dei successivi.
Non si crea infatti un problema di vacatio tra contratti collettivi in quanto è
la legge che si sostituisce automaticamente ai primi.
Quello che emerge chiaramente è quindi il venir meno dei contratti
collettivi, sostituiti dalla disciplina legislativa che non richiede
necessariamente ulteriori puntualizzazioni.
Infatti le intese contrattuali non sono più la condizione essenziale per
estendere o integrare la casistica del ricorso legittimo a contratti a termine.
Alla contrattazione collettiva resta un compito (l'art. 10 comma 7 del
D.Lgs. 368/01 adotta, tra l'altro, una formulazione che rende facoltativo il
ricorso alla contrattazione) la individuazione di limiti quantitativi al ricorso
ai contratti a termine, esercizio che peraltro, oltre ad essere eventuale, non
ha valenza generale bensì molto circoscritta, essendo esclusa dal computo,
per effetto dello stesso articolo 10, tutta una serie di situazioni di
temporaneità già ampiamente previste dai contratti preesistenti.
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L’estensione dell’area di ricorso al contratto a termine
Resta da analizzare la seconda sostanziale novità, cioè l'effettività
dell'estensione dell'area di ricorso al lavoro a termine. Una lettura
restrittiva, frutto di una ricostruzione in un certo senso continuistica rispetto
al preesistente modello, tende a ricomprendere nelle "ragioni" sopra
descritte situazioni specifiche pur sempre connotate dal carattere della
temporaneità, che siano cioè ontologicamente inquadrabili in ambiti
temporali limitati. Questa lettura, anche se restrittiva, porterebbe
ugualmente ad un allargamento e tuttavia collegherebbe pur sempre il
lavoro a termine con la temporaneità dei fabbisogni da soddisfare.
Un'altra lettura, più estensiva, è però possibile, in linea con la direttiva
70/99. Da questa non è dato desumere che il lavoro a termine debba essere
necessariamente legato alla temporaneità della funzione da svolgere. Scopo
dichiarato della direttiva è quello di evitare la discriminazione dei
lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato e quello di
evitare abusi attraverso una disinvolta successione di contratti nel tempo
5
.
Altre finalità specifiche la direttiva non ne ha, salvo quella (che però
sarebbe nel senso di favorirne il ricorso) di accrescere attraverso il lavoro a
termine la competitività dell'economia comunitaria
6.
Bisogna avvertire che
ad oggi in dottrina non si riscontra ancora la prevalenza di una tesi rispetto
all'altra mentre è comune la preoccupazione di attendere il consolidarsi
degli orientamenti della magistratura.
5
Il punto 7 dei considerando dell'accordo quadro allegato alla direttiva n.70 precisa che "…il ricorso ai contratti a
tempo determinato basato su motivi obiettivi è un modo per prevenire gli abusi". La clausola 5 dell'accordo quadro
prescrive l'introduzione di misure relative a "…..b) la durata massima totale dei contratti o rapporti a tempo
determinato successivi;…"
6
Cfr. punto 11 dell'accordo quadro ("….il presente accordo tiene conto dell'esigenza di aumentare la
competitività dell'economia comunitaria e di evitare di imporre vincoli amministrativi…..".
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Le norme ancora in vigore
Per effetto dell’art.10, comma 6, D.Lgs.368/2001, restano invece in vigore:
a) l’art.8, comma 2, della Legge 23 luglio 1991, n.223, che prevede la
possibilità di assumere con contratti a termine di durata non
superiore ad un anno i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità;
b) l’art.4 D.Lgs.151/2001, in forza del quale è possibile l’assunzione a
tempo determinato di personale in sostituzione di lavoratori o
lavoratrici in congedo per motivi parentali, anche a decorrere da un
mese, o dal periodo maggiore previsto dai contratti collettivi, prima
dell’inizio del periodo di congedo;
c) l’art.75 della Legge 23 dicembre 2000, n.388 sugli incentivi
all’occupazione dei lavoratori anziani che, però, trova applicazione
nel solo settore privato.
Le norme speciali ancora vigenti
In base all'art. 11, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001, dalla data di entrata in
vigore di quest'ultima normativa sono abrogate "...tutte le disposizioni di
legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente
richiamate nel presente decreto legislativo".
Si deve ritenere che le normative particolari, esistenti nell'area del lavoro
pubblico, dirette a consentire in specifici casi assunzioni secondo ipotesi,
modalità e durata particolari, non siano venute meno quando si tratti di
norme che consentano alla p.a. una soddisfazione dei propri interessi
organizzativi in termini più ampi di quelli consentiti dalla nuova disciplina.
Sul punto, parte della dottrina si è espressa positivamente, considerando tali
rapporti come aventi carattere di specialità rispetto alla disciplina generale
di cui al D.Lgs.368/2001.
10
Continuano, pertanto, a trovare applicazione ulteriori disposizioni, dettate
specificamente per il settore pubblico, che prevedono particolari forme di
rapporto a termine, quali, per esempio, quelle sugli uffici di diretta
collaborazione degli organi politici di cui all’art.14, comma 2, T.U.
165/2001 o quelle sugli incarichi dei responsabili di servizio e del
personale di elevata professionalità di cui agli artt.91 e 110 D.Lgs.267/2000
(Testo Unico degli Enti Locali).
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1.2 LE RAGIONI DI CARATTERE TECNICO, PRODUTTIVO,
ORGANIZZATIVO O SOSTITUTIVO
In base alla normativa vigente fino all'emanazione del D.Lgs. n. 368/2001,
il ricorso al lavoro a termine era consentito soltanto nelle ipotesi tassative
previste dalla legge ovvero, per delega di quest'ultima, dalla contrattazione
collettiva.
La nuova disciplina ha attuato invece una “detipizzazione” delle causali e,
in base alla previsione dell’art.1, comma 1, D.Lgs.368/2001, le pubbliche
amministrazioni possono validamente stipulare contratti a termine in tutti i
casi in cui sussista l’esigenza di far fronte a “ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo”
7
.
Una formula, questa, di ampiezza tale da includere una varietà pressoché
illimitata di ipotesi (si noti, tra l'altro, come il riferimento alle ragioni di
carattere sostitutivo sia sovrabbondante, potendo esse rientrare senza alcun
dubbio in quelle di carattere organizzativo).
Naturalmente, tale norma va letta in combinato disposto con l’art.36,
comma 1, D.Lgs.165/2001, per cui anche la individuazione dei lavoratori
da assumere con tale forma contrattuale deve avvenire sulla base di
procedure concorsuali o selettive pubbliche e mai, dunque, ricorrendo ad
assunzioni dirette e/o nominative.
Pur ricorrendo ad una formula assai ampia, non è tuttavia corretto
affermare che il legislatore del 2001 abbia totalmente liberalizzato
l’assunzione a termine, in quanto è comunque necessario che l’assunzione
venga motivata con riferimento, appunto, alle predette esigenze specifiche.
7
FERRARO, Tipologie di lavoro flessibile, p.39 che individua le possibili ragioni: le ragioni “tecniche”,
potranno essere considerate quelle legate alla fase di avvio di innovazioni tecniche, invece le ragioni
“produttive” evocano soprattutto le “punte” o fasi di incremento della produzione, a sua volta sia di beni
sia di servizi. Quelle “organizzative”, poi, sono un risvolto dei caratteri indicati e di per sé un profilo
attinente alla distribuzione del personale, semprechè se ne possa postulare le temporaneità. Per le ragioni
“sostitutive” ora possono ricomprendersi non solo le ipotesi di assenza con diritto alla conservazione del
posto ma anche per la sostituzione di lavoratori in ferie, missione, addestramento.
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In buona sostanza, ogni datore di lavoro, anche pubblico, ha l’obbligo di
indicare, all’atto della stipulazione del contratto di lavoro a termine, le
concrete ragioni poste a fondamento dell’assunzione.
Ciò risulta confermato dall’art.1, comma 2, dove si precisa che tali ragioni
devono essere specificate nell’atto scritto da cui risulta l’apposizione del
termine. Logico corollario di questa impostazione è che è da escludere che
l’apposizione del termine possa avvenire sulla base di un generico richiamo
della formula legale.
Onere della prova
In relazione all'onere della prova circa la sussistenza effettiva delle ragioni
che sono poste a fondamento del contratto di lavoro a tempo determinato
l'art. 3, della L. n. 230/1962, lo addossava al datore di lavoro tanto delle
condizioni che giustificavano l'apposizione del termine quanto di quelle che
legittimavano la proroga. Ora, invece, il D.Lgs.n.368/2001, mentre
ripropone esplicitamente tale onere in merito alla proroga, nulla dice in
ordine all'onere della prova relativa alla sussistenza delle ragioni addotte a
fondamento della stipulazione del contratto a tempo determinato. Anche
per quanto riguarda quest'ultimo, tuttavia, si deve ritenere che, nonostante il
silenzio del legislatore, esso gravi ancora oggi sul datore di lavoro, e
dunque sulla pubblica amministrazione.
L'onere della prova riguarderà, inoltre, non solo la sussistenza delle ragioni
poste a fondamento della stipulazione del contratto a tempo determinato,
ma anche l'effettiva destinazione del lavoratore assunto allo svolgimento di
un'attività lavorativa strettamente attinente a quelle ragioni.