4
necessaria alla pedagogia, dell’apporto interdisciplinare di scienze sociali ed umane quali la
sociologia dell’educazione, la psicologia, l’analisi socioeconomica dei fattori di contesto, il diritto e
la legislazione scolastica, ecc.
Questa indicazione è ormai pacificamente accettata da tutti, tant’è che oggi si parla di “scienze
dell’educazione”, proprio nel senso di una connotazione pluridisciplinare e interdisciplinare (e
aggiungiamo noi transdisciplinare) (1) della pedagogia.
La pedagogia deve essere quindi intesa come riflessione approfondita sulla fenomenologia del reale
educativo e formulazione di ipotesi generali (in questo qualificandosi come filosofia
dell’educazione nel senso inteso dal Visalberghi) (2); pur tuttavia si ritiene necessario il costante
riferimento alla concretezza, al dato pratico – poietico, il quale viene appreso grazie all’apporto
delle varie scienze sociali (abbiamo prima citato la sociologia e la psicologia, ma dovremmo
ricordare tra l’altro l’economia nei suoi particolari campi di ricerca, quali l’economia
dell’istruzione, il diritto e l’analisi comportamentale dei micro gruppi, la sociologia delle
organizzazioni complesse, ecc.), e che porta in definitiva la pedagogia a qualificarsi non come una
vuota e aprioristica sequela di giudizi di valori (i quali sono parte integrante, lo riconosciamo, di
ogni disciplina e particolarmente della scienza della formazione dell’uomo, solo se però essi sono
“parte” e non “tutto” della materia stessa), bensì come struttura, o meglio, “sistema” conoscitivo
che si può dire possieda (3), per un verso una sua struttura assiologica e valoriale (nel senso di
giudizio di valore che certo dibattito culturale ha voluto mettere in luce, come influente sulla
struttura complessiva del reale e della stessa conoscenza scientifica) e per l’altro una sua
costruzione teorico – scientifica di base, composta da quelle che marxianamente possiamo definire
“astrazioni determinate”.
Solo così la pedagogia si può qualificare – oltre che come filosofia dell’educazione (una dimensione
pur insostituibile) – come “scienza” dell’educazione, attraverso l’apporto delle varie scienze
dell’educazione, utilissime alla pedagogia stessa, potendo rifondare il proprio statuto scientifico e
superare l’empasse epistemologico che da decenni la costringe ad interrogarsi (iper) criticamente
5
sulle condizione e possibilità della produzione di un sapere oggettivamente verificabile e la cui
validità resista alla verifica delle relative applicazioni pratiche.
6
1. La scuola del capitale ovvero della funzionalità dell’istruzione.
Tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi di quelli Sessanta nei paesi a capitalismo maturo, veniva
propagandata, con impeto e forza, nel mondo della cultura la tesi della stretta funzionalità
dell’istruzione rispetto all’economia, sua variabile strutturalmente condizionante. Nell’ambito dello
sviluppo industriale che si costituiva sempre più nelle sue dimensioni essenziali, utilizzando ampie
quote di informazioni e tecnologie, con il crescente prevalere delle conoscenze scientifiche e
tecniche, nel mondo della produzione era apparsa evidente la necessità di disporre di un adeguato
sistema di istruzione, capace di garantire lo sviluppo economico – sociale, assicurandone quella che
si definisce la riproduzione tecnico – intellettuale.
Come osserva il Barbagli nel suo Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, era stata
inaugurata una religione di un nuovo mito, che trovò proseliti quasi ovunque, pronti e disposti a
giurare sulle virtù taumaturgiche dell’istruzione: “Mai forse la fiducia nell’istruzione fu forte e
incontrastata come alla fine degli anni Cinquanta. Sacerdoti moderni ne predicarono allora le virtù.
Sostenuti e finanziati dai governi e dalle fondazioni, sociologi ed economisti investirono le loro
migliori energie in questa impresa affascinante. Rispolverarono vecchi concetti e ne forgiarono di
nuovi; raccolsero, elaborarono pagine dei loro libri e dei loro articoli di austere forme matematiche
che garantissero la scientificità dei loro discorsi. Ma cercarono anche di essere capiti e andarono in
giro, fecero conferenze, scrissero brevi opere di volgarizzazione. Da queste finalità i più riuscirono
a intendere quali fossero le virtù dell’istruzione, compresero che bastava che questa venisse
piantata, attecchisse, crescesse sana e robusta perché tutti i mali dell’uomo sarebbero finiti, le
tirannidi crollate, la miseria, la disoccupazione e il sottosviluppo scomparsi”. (4)
La nuova “religione” ebbe proseliti anche da noi; i relativi seguaci declamarono a gran voce la
necessità di preparare con un funzionale e ben organizzato sistema di istruzione, i nuovi quadri
intermedi e superiori, ritenuti indispensabili per un paese che, come all’ora l’Italia si avviava verso i
vertici dello sviluppo economico, inaugurando una profonda fase di ristrutturazione produttiva che
privilegiava il settore industriale. (5)
7
Era quello che poi fu definito il “miracolo economico” (ma che tale sarebbe stato solo per pochi, in
termini di benessere sociale diffuso) e che trasformò il volto complessivo della nazione, passando
da paese essenzialmente agricolo alla sua nuova vocazione e destino, quello dal volto industriale.
(6)
Tuttavia l’Italia del benessere e del “miracolo economico” aveva prodotto le condizioni dello
sviluppo economico e sociale secondo le stesse contraddittorie regole del capitalismo
internazionale, attraverso la cadenza sviluppo – sottosviluppo, la dicotomia del processo ineguale:
intanto l’evoluzione e il progresso economico avevano potuto aver luogo in quanto, a parte alcune
variabili congiunturali favorevoli (i rapporti con il mercato europeo che aveva allargato la domanda
di beni e consumi), esse si fondavano sull’arretratezza del Sud, comodo mercato su cui riversare
certi tipi di prodotti di largo consumo, ottimo carniere di una forza – lavoro di buon mercato, sulla
struttura dualistica dell’industria e su altri fattori distorcenti.
Il risultato sociale di un siffatto sviluppo è dimostrato e sintetizzato da alcuni ma significativi dati
(7) sulla insufficienza di alcuni standards di benessere e beneficio sociale, quali il rapporto
abitazioni/servizi, posti letto ospedali/popolazioni, indici di affollamento delle scuole, gravi carenze
della stessa edilizia scolastica, ecc.
I consumi più essenziali erano stati dimenticati, il Sud condannato insieme all’agricoltura ad una
condizione economica marginale – anche nel nuovo corso dell’economia - ; così solo una esigua
parte della popolazione era riuscita ad usufruire dei vantaggi dello sviluppo.(8)
In una situazione così intrinsecamente contraddittoria é da riconoscere, pur tuttavia, che si erano
registrati un certo aumento della domanda di personale qualificato, da parte del mondo del lavoro, a
causa delle nuove esigenze produttive ed organizzative che il take off industriale aveva determinato.
Ma da qui a prospettare una grave carenza di laureati e diplomati per un quindicennio intero, come
fece la SVIMEZ, significò esasperare il quadro interpretativo della situazione dell’Italia del
momento storico di riferimento, che di per sé non permetteva di “parlare di carenza di diplomati”
(9) e conseguentemente spingeva l’aumento della domanda di laureati rispetto a un’offerta rimasta
8
sostanzialmente stazionaria, a collocarsi sulla scia delle localizzazioni industriali, vale a dire
soprattutto al Nord.
La base di queste convinzioni e previsioni risultate poi sostanzialmente errate (10) era la
supposizione che lo schema della stretta funzionalità e dipendenze dell’istruzione avesse una alta e
incontestabile validità euristica. Essendo l’economia la variabile definita indipendente e l’istruzione
la condizione essenziale per lo sviluppo, la prima, in quanto domanda, deteneva la proprietà, si
riteneva, non solo di influire ma di predeterminare la programmazione della seconda, qualificata
come offerta. In questo semplicistico schematismo teorico, la domanda determinava
meccanicisticamente l’offerta, e quest’ultima si conformava supinamente alle richieste formulate.
Allo sviluppo socio economico, realizzato nei termini che abbiamo descritto, corrispose
un’istituzione scolastica e una struttura formativa, molto più vicina ai valori e agli interessi delle
classi sociali più abbienti, con un tipo di scuola intrinsecamente ineguale, finalizzata alla
preparazione tecnico- scientifica alla forza lavoro e al suo inserimento nel processo produttivo, con
accentuati caratteri di selezione, sia nelle scelte che nella riuscita scolastica, strettamente connesse
alla provenienza sociale.
Già quindi in quelle aspirazioni confuse, e poi mai realizzate, si intravedeva in certa parte della
classe dirigente la volontà di creare quella che fu poi definita da alcuni, per paradosso, una “scuola
del capitale”, che avrebbe svolto un ruolo, cioè, atto a riprodurre, nelle specifiche condizioni socio
economiche del sistema – Paese, la gerarchia sociale, attraverso la preparazione socio –
professionali relativa e una selezione “drawiana” dei ceti sociali.
Ma quelle previsioni meritocratiche e pretenziosamente scientifiche si sarebbero dimostrate presto
inattendibili di fronte al dilagante fenomeno della disoccupazione, per lo più intellettuale, che ha
colpito gran parte dei paesi al capitalismo avanzato e che ancor oggi rappresenta uno dei più
scomodi problemi per il Welfare State. Non solo l’economia non aveva creato le condizioni di una
sviluppo scolastico funzionale alla produzione, ma anzi, dopo la sua ristrutturazione recessiva, si
verificò il fenomeno dell’espulsione di quasi tutte le quote “deboli” della forza lavoro, così creando
9
le condizioni di un drammatico – e ancor oggi strutturale – surplus di intellettuali nel mercato del
lavoro. (11)
M. Paci ha scritto, in proposito: “L’ipotesi di una indipendenza del processo di scolarizzazione dalle
esigenze dello sviluppo economico sfocia, dunque, in una prospettiva di eccesso endemico o di
spreco di forza lavoro qualificata e, per ciò stesso, di squilibrio e di superamento del mercato del
lavoro”. (12)
Tali constatazioni sono state fondamentali e di indubbia importanza per una revisione critica della
teoria intorno all’istruzione; posto, dunque, che non vi è un rapporto statico e meccanico fra
l’economia e l’istruzione, quali altre variabili entrano in gioco, e in che misura esprimono la loro
efficacia, nella determinazione del sistema scolastico e dei suoi esiti? Interessante e equilibrata è,
per esempio, l’ipotesi formulata da due autori, Dei e Rossi, in Sociologia della scuola Italiana, ove è
affermato in proposito, : “… E’ soltanto a partire dalla storia di un sistema sociale, dalla sua
struttura precedente e dalla situazione dei rapporti di classe che si possono comprendere lo stadio a
cui è giunto e i mutamenti che lo hanno interessato e che lo interessano. Si tratta cioè di esaminare
le spinte in favore o contro lo sviluppo della scuola e in particolare in favore o contro i processi di
selezione e di socializzazione che le varie classi e gruppi sociali cercano di promuovere in funzione
dei propri interessi”. (13)
Si deve perciò fare molta attenzione ai rapporti fra le classi e i ceti sociali, da considerare come
strumenti interpretativi ( ma non esaustivi del reale se si vuole che lo schema teorico e di analisi
proposto conservi una qualche validità ; è infatti dalle reciproche spinte, contro- tendenze e
pressioni, azioni e reazioni, posizioni di forza e di vantaggio, di rappresentanza politica e di lobbies,
ecc.. che infine, come risultante complessa e di sistema, si viene costituendo, nel suo evolversi
storico, un sistema scolastico e di istruzione.
Lo schema teorico più valido e meno esposto a critiche di parzialità è quello che si fonda su una
considerazione multivariata dei fattori di contesto e causali, vale a dire a più variabili intervenienti
di sistema. La qual cosa è sempre offerta dai due citati autori e di cui si offre uno schema, a più
10
dimensioni, sintetico e didatticamente comprensibile:
ISTRUZIONE CORR.* A)economia
B)stato socializzatore
C)rapporti fra ceti e classi
*CORR. sta a significare la correlazione che unisce una o più variabili
(14)
L’istruzione (intesa quale aspetto del fenomeno educativo) risulta così essere correlata
positivamente con :a) lo sviluppo tecnologico e produttivo che induce sempre una parte della
domanda ; b) l’intervento dello stato sociale, che sempre più accresce la propria presenza nel settore
educativo, sia con una attività diretta che con funzioni di regolazione e mediazione fra le parti
sociali; il che ha avuto un effetto positivo nel determinare l’aumento della domanda di
scolarizzazione, come il fenomeno della scuola di massa dimostra. Importante è poi l’effetto di
ridistribuzione del reddito, tramite la politica fiscale e sociale, che impatta con la strutturazione
della domanda fra ceti; c) i rapporti fra ceti e classi, da considerare come molto importanti, visto
che la distribuzione ineguale della ricchezza è un fattore comunque determinante per la scelta e la
riuscita scolastica, anche in presenza del melting pot della multistratificazione sociale e dei ceti
medi, in parte temperata, come si è detto, dagli effetti tendenzialmente egualitari di certa spesa
pubblica qualificata.
E’ pertanto, condivisibile l’opinione espressa dai due autori quanto mettono il lettore in guardia dal
pericolo di intendere la scuola alla maniera “di certi studiosi marxisti o di sinistra” (15), secondo cui