1
1 INTRODUZIONE
28 Novembre 2009, Pisa: Baxter Lectures, “Oltre la Sintesi Moderna – Il futuro di
Darwin”. Tavola Rotonda con M. Buiatti, A.Cavezzini e Giuseppe Longo. Ho
partecipato a quella serie di incontri incuriosita dagli interessanti argomenti trattati e in
cerca di ulteriori approfondimenti per le letture e gli studi che stavo conducendo in quel
momento. Darwin e l’evoluzione con le sue implicazioni erano un tema che mi aveva
affascinata fin dai tempi del liceo. Inoltre stavo leggendo Roberto Marchesini con
Posthuman e Giuseppe Longo con Il Simbionte. E proprio Giuseppe Longo sarebbe
stato un ospite a questi seminari. Dunque, quale migliore occasione per sentire la voce e
l’opinione dell’autore “in diretta”?
Così ho avuto l’opportunità di vederlo e di ascoltare con interesse le sue parole, che
ponevano anche questioni di fisica e di matematica. Una persona del pubblico è poi
intervenuta affermando che “alla fine, le teorie e le formule migliori e vincenti per
spiegare la natura e i fenomeni sono sempre state quelle piø semplici e generiche, che
da sole rendono conto di molte cose”. Si riferiva ad enunciati semplici ed eleganti, che
risolvono un grande numero di problemi. Ma questa affermazione veniva sottolineata
con forza, quasi fosse un assioma accettato da tutto il mondo scientifico e profano, un
fatto evidente e ormai da tutti condiviso, da non destare il benchØ minimo dubbio, quasi
come se fosse una vera follia metterla in discussione. E io da profana, effettivamente
non potevo che simpatizzare per questo argomento, essendo radicato nella mia cultura.
Ma a questo punto la risposta del professor Longo è stata per me inedita e
sorprendente: chi ha detto che le cose debbano avere una spiegazione semplice? Chi ha
detto che le cose sono semplici? Non siamo piuttosto noi che vogliamo che lo siano e ci
confezioniamo le teorie a misura per il nostro tornaconto e per la nostra migliore
2
comprensione? La realtà e i fenomeni sono invece complessi, è un fatto che dobbiamo
accettare, anche se ci appare inconsueto, “scomodo” e niente affatto scontato.
Questa risposta mi ha incuriosita molto: perchØ questo studioso, di cui avevo letto la
bibliografia, ricca di ricerche e di approfondimenti nel campo della matematica, delle
fisica, della cibernetica, nonchØ delle scienze umane, perchØ quindi il professor Longo,
un personaggio così accreditato, aveva dato una simile risposta, che per il grande
pubblico poteva risultare sconcertante e quasi irritante?
Mi sono accorta così come la nostra cultura occidentale sia ancora tutta intrisa di
Platone, di Cartesio e di Parmenide, di idee chiare e distinte, di verità che per essere tali
devono essere monolitiche e universali, di riduzionismo e di specializzazione, di saperi
compartimentati e quasi a chiusura stagna, di conoscenze certe, oggettive, misurabili,
ripetibili, calcolabili, prevedibili, di astrazione e formalizzazione, di razionalità che
analizza, divide, si allontana come può, in una disperata ricerca catartica, da quel
terreno ritenuto pericoloso e incerto fatto di corpo, di sensibilità, di emozione, di
passione, di dettagli e di particolari, di “rumori” e di incertezze.
L’Occidente sembra ancora convinto che l’unica via per arrivare alla conoscenza e
al “progresso” scientifico, tecnologico, sociale e umano sia questa. Ed è una
convinzione talmente radicata, talmente assorbita e metabolizzata, talmente ormai parte
della nostra vita quotidiana e del nostro approccio ai saperi, che ogni altra alternativa e
ogni nuova ottica non vengono capite e anzi rifiutate a priori con veemenza come eresie.
Questa tradizionale mentalità è ancora il filtro della nostra cultura, sono “gli
occhiali” attraverso cui guardiamo alla scienza, alla tecnica, al progresso, alla politica,
alle stesse scienze umane e alla didattica nelle scuole. La nostra educazione, i nostri
percorsi formativi, la nostra preparazione alla vita e al sociale, i nostri modi di interagire
3
con gli altri e con le altre culture, sono frutto di questa ottica. Ma è ormai un’ottica da
superare, c’è bisogno di una revisione profonda.
Giuseppe Longo faceva riferimento a questo, e metteva in discussione proprio
questo tipo di approccio, introducendo nella discussione un tema nuovo e ancora
“giovanissimo”: la Complessità.
Tanti argomenti e tante questioni stavano alimentando i miei pensieri: dove sta
andando questa umanità senza bussola, assetata di potere e di denaro, in cui la scienza
viene spogliata di ogni morale e assoggettata all’utilità ed ai profitti di una cerchia
elitaria, per cui il prossimo è un nemico da combattere o al limite un avversario da
sfruttare, per cui l’ideale indefinito di “progresso” è l’ideologia da seguire ad ogni
costo, in cui l’individuo si sente spesso solo e spaesato in mezzo a sei miliardi di
persone, in cui i sentimenti e le emozioni si sbiadiscono di fronte al freddo calcolo, in
cui importa solo cosa fai, che ruolo hai e quanto produci, “quanto sei” e “quanto hai”
piuttosto di “chi sei”, in cui si è persa la dimensione della profondità per lasciare il
posto a una vasta landa desolata di superficialità.
Che ne sarà di questo mondo tanto vilipeso e maltrattato da colui che se ne crede il
suo re e il suo padrone, che sfrutta le sue risorse senza rispetto alcuno, che inquina e
offende la natura senza remore, che danneggia il pianeta e la salute di tutti. Che ne sarà
di noi, umanità, che rischiamo di venire fagocitati da questa hybris planetaria?
Bisognerebbe interrogare l’antropologia, la psicologia, la sociologia per guardare
avanti, ma anche la storia, la paleontologia e l’evoluzione per guardare indietro e
cercare di capire chi siamo, da dove veniamo e come diventiamo, per avere strumenti
validi per la nostra ricerca. E per questo ci servono senz’altro gli apporti tecnico-
scientifici che diventano sempre piø sofisticati. Utile anche la biologia, per scoprire
come è fatta la vita, ma anche la geologia e la geografia per capire come è fatto il
4
pianeta che abitiamo e che è la nostra casa. E quindi ci serve anche la chimica, la fisica,
l’ecologia, la meteorologia e anche la microbiologia e la medicina, così come
l’astronomia.
E tutto questo sapere deve essere poi veicolato, diffuso, insegnato, impiegato,
migliorato, dibattuto e rimesso in discussione per aggiornarlo. La questione si allarga e
diventa economica, sociale, educativa, politica e, dato che interessa tutti, anche globale,
planetaria. E così ci servono l’informatica, le nanotecnologie, l’ingegneria, infrastrutture
e mezzi di comunicazione. E per rendere la ricerca davvero globale occorre pensare al
Terzo Mondo che non dispone dei mezzi economici e tecnici necessari, perchØ deve
affrontare problemi ben piø grandi e urgenti come la fame, le epidemie e l’enorme
crescita demografica. E a complicare le cose ci sono anche l’egoismo, l’avidità,
l’interesse personale, la diffidenza e il sospetto per chi è “diverso”, la falsità e la
cattiveria.
A questo punto il problema diventa davvero gigantesco, quasi sfugge dalle mani:
quanti campi da indagare contemporaneamente, da considerare insieme, nel reticolo di
connessioni, implicazioni, conseguenze, interferenze, opposizioni, esclusioni e
contraddizioni. Tutti gli ambiti del sapere sono chiamati in causa in modo corale, come
organismo unico, tutte le nostre forze, tutto il nostro Io, compreso l’Io-soggetto colui
che conduce la ricerca, tutto è messo in discussione. Non è affatto semplice, niente
affatto lineare, non c’è teoria o formula corta, elegante, chiara e distinta, nulla che dia
certezza e renda conto di tutto. Nessuna verità onnicomprensiva e inattaccabile. Bisogna
prenderne atto.
Tornano i vecchi quesiti di sempre, come quelli del pastore kirghiso del Leopardi:
ove tende questo vagar mio breve? Ma in questo caso la domanda non è strettamente
teleologica e non pone questioni di fede o di trascendenza e di “aldilà”. Rimanendo
5
“aldiqua”, si tratta di un problema antropologico, psicologico, sociale, politico,
scientifico, etico, ecologico molto pratico e globale. Come possiamo fare? Quali sono le
linee guida e le strategie per il futuro?
Questo convegno e queste riflessioni mi hanno portata sulla strada della
Complessità, avvicinandomi a uno studioso che già da molti anni si sta ponendo queste
domande e si sta occupando di Complessità: Edgar Morin.
6
2 CENNI BIOGRAFICI
Edgar Morin è uno dei massimi studiosi e portavoce della cultura contemporanea.
Alain Touraine, sociologo francese vicino a Morin, lo ha definito pensatore planetario.
Nel corso della sua lunga vita che parte dagli anni venti del secolo scorso ha potuto
osservare da protagonista e da intellettuale gli sviluppi e i percorsi della nostra società,
unendo l’attività culturale, politica e sociale alla vita quotidiana, al vivere e al
convivere, ai rapporti con gli altri e con il mondo.
Edgar Morin, il cui vero cognome è Nahum, nasce a Parigi l’8 luglio del 1921. Di
origine ebrea e meticcia (i suoi genitori sono ebrei sefarditi), entrambi i rami della sua
famiglia hanno sostato in Italia, Spagna e Turchia
1
. Per questo il suo cosmopolitismo lo
porta a definirsi post-marrano
2
, cittadino del mondo, nomade globalizzato, interprete
delle diversità culturali e studioso della condizione umana nel sistema individuo-specie-
società, un vero onnivoro culturale
3
.
Rimane orfano di madre a soli nove anni, in modo prematuro e inaspettato e questo
lo rende molto sensibile all’affettività, all’empatia, ai sentimenti e alla solidarietà
umana.
Da sempre autodidatta, intraprende gli studi universitari alla Sorbona di Parigi, ma
li interrompe per partecipare alla Resistenza. Simpatizza per i movimenti anarchici,
pacifisti e libertari, ma poi aderisce al Partito Comunista Francese, da cui viene espulso
nel 1951. In quegli anni conosce e collabora con Clara e AndrØ Malraux, Georges
Friedmann, Vladimir JankØlØvitch, Marguerite Duras, Albert Camus e Merleau-Ponty. ¨
1
Per questa ed altre informazioni cfr. Edgar Morin, I miei demoni, 1999 Maltemi, Roma; Mauro Ceruti,
“Elogio di Edgar Morin”, 2003, BG.
2
Edgar Morin, I miei demoni (1994), tr. it. di L.Pacelli e A.Perri, 1999 Meltemi, Roma, p.129.
3
Ivi, p.17.
7
costretto a cambiare piø volte identità, per non rischiare l’arresto della GESTAPO, da
qui il suo cognome attuale. Morin stesso parla di doppia identità: Edgar Morin Nahum.
Condivide molte esperienze clandestine con Violette, anche lei sociologa, che sposa
nel 1945 e da cui ha due figlie, IrØne e VØronique. ¨ il periodo del soggiorno in
Germania, a Lindau, sul lago di Costanza, dove lavora per le truppe francesi che
occupano il territorio tedesco. Con il materiale raccolto, pubblica il suo primo libro L'An
zØro de l'Allemagne (1946), che ottiene inaspettato consenso nel Partito Comunista
Francese.
Altro tema a cui Morin si appassiona subito è quello antropologico della morte, a
cui dedica due anni di ricerca tra approfondimenti e riflessioni in una prospettiva
interdisciplinare. Appare così L’uomo e la morte del 1951. Nello stesso anno esce dal
Partito Comunista Francese e fa ingresso come sociologo al CNRS, grazie agli amici
Georges Friedmann, Vladimir JankØlØvitch, Merleau-Ponty e Pierre Georges. Qui può
approfondire gli studi sull’antropologia della morte e dedicarsi alla sociologia del
cinema, al divismo e alla cultura di massa. Di qui i suoi libri: Il cinema o l'uomo
immaginario (1956), I divi (1957) e Lo spirito del tempo (1962).
Nel 1967, insieme a Georges Friedmann e Roland Barthes, fonda la rivista
Communications, di cui è ancora co-direttore. La sua riflessione sulla comunicazione di
massa ottiene riscontro anche in Italia e a livello internazionale.
Nel 1956, ispirato dalla rivista “Ragionamenti” di Franco Fortini, fonda
“Arguments” con altri intellettuali transfughi del P.C.F, con forte componente antropo-
politica, che durerà fino al 1962. C’è anche un grande lavoro di rivisitazione del
percorso che lo aveva condotto dalla Resistenza al PCF (con Autocritica, 1959). La sua
ottica sulla politica è concepita e costruita a misura d’uomo, per l’uomo (con