3
la legge 142/1990 e si chiude (almeno per il momento) con la
150/2000 e successiva direttiva di attuazione.
Analizzando questo quadro, tutto sembra combaciare, tutto,
ogni provvedimento, ogni articolo pare, anno dopo anno,
incastrarsi con quello successivo, fino a formare un puzzle, con
una bella cornice che avrebbe dovuto racchiudere, contornare,
proteggere direi, il faticoso lavoro e soprattutto il sofferto
accordo raggiunto da tanti giornalisti, giuristi e comunicatori:
avrebbe dovuto e, fino ad un certo punto, ci è riuscita. Ma non
fino in fondo: c’è un pezzo che in realtà, secondo me, non
combacia con gli altri in questa normativa, ed è l’articolo 4
della legge 150/2000, secondo cui la P.A. deve, per svolgere
attività di comunicazione e informazione, ricorrere a personale
interno, prima di assumerne altro tramite concorsi pubblici.
Ed è così che nel proseguire gli studi e le ricerche mi è venuto
naturale affrontare il discorso da un altro punto di vista, non
semplicemente descrittivo ma, diciamo, problematico, critico.
Tutti possono indicare, indirizzare, informare (?), ma non tutti
possono comunicare.
Comunicare è un’arte poliedrica, complessa,
“omnicomprensiva”, che solo una persona con una formazione
che abbia proprio quelle stesse caratteristiche può fare.
Competenze che si acquisiscono con anni di studio e di
esperienza. Mi sembra (e cercherò di dimostrarlo) che brevi
corsi di formazione siano alquanto esigui per affrontare
adeguatamente questa realtà.
Infatti, mi chiedo se le 120 ore di corso previste non siano un
bagaglio troppo ridotto a fronte di un monte di 4500 ore di un
laureato (di primo livello) in materie (e sottolineo il plurale) di
comunicazione. Tale scarto non forma un gap troppo profondo
tra chi si occupa attualmente di comunicazione (ovviamente
con le dovute eccezioni) e chi, invece, è realmente abilitato a
farlo? Il fattore umano, come è stato affermato in molti studi
sulle risorse umane, esprime la percentuale maggiore dei
fattori del successo. Penso, quindi, che bisognerebbe tenerlo
4
maggiormente in considerazione quando si vuole che sia la
P.A. la protagonista di tale successo.
A questo punto sento il dovere di fare una precisazione: non è,
in assoluto, nelle mie intenzioni la pretesa di esprimere un
qualsiasi tipo di giudizio nei confronti di impiegati e/o
funzionari pubblici. Mi si potrebbe obiettare, e giustamente,
che chi è già all’interno di un ente possa svolgere, dopo il
corso, anche l’attività di comunicazione poiché, grazie alla
lunga esperienza, conosce a fondo la struttura in cui lavora e
sa come e cosa comunicare all’esterno.
Ma siamo sicuri di tutto ciò? Basteranno poche ore a riempire
quel gap di competenze che chi è preposto alla funzione di
comunicazione deve possedere? Competenze richieste, anche
indirettamente, dalle numerose normative attraverso
l’esplicitazione delle funzioni e degli obiettivi che i vari enti
dovrebbero raggiungere?
Mi rendo anche conto che le risorse finanziarie degli enti
pubblici vengono tagliate di anno in anno, ma, in questo caso,
si tratta di fornire un aiuto a tutte le altre funzioni, essendo
quella della comunicazione una funzione trasversale. Credo
che il risparmio in tutti i settori in termini di tempo e denaro
non mancherebbe, se solo ci fossero flussi comunicativi più
efficaci .
Forse sarebbe più giusto utilizzare le risorse interne, più che
valide proprio per la loro già menzionata esperienza, come
“tutor” da affiancare ad un giovane laureato in questa
altrettanto giovane disciplina; proprio come avviene quando si
fa un innesto in una pianta: si rivitalizza il tronco già maturo e
si dà una possibilità al giovane germoglio di crescere su solide
basi. Tale politica di gestione delle risorse umane, d’altra
parte, è già diffusa da tempo in gran parte della sfera del
privato.
Tornando alla programmazione del mio lavoro, come ho
anticipato in apertura, prima di analizzare nei dettagli
formazione e competenze del comunicatore pubblico,
procederò nel primo capitolo, necessariamente, a descrivere
5
anzitutto il contesto della Pa: com’era, come dovrebbe essere e
come, fortunatamente in alcuni casi, già è; non mancherà,
ovviamente, una breve analisi (senza alcuna pretesa di
esaustività) dei dieci anni di leggi inerenti la comunicazione
nell’ambito della riforma della Pa e, infine, cercherò di
indicare come sta cambiando il rapporto con i cittadini in
seguito alle novità dell’ultimo decennio, nonché in vista del
passaggio (almeno auspicato) dal modello burocratico a quello
aziendale.
Nel pieno della mia trattazione, ovvero nel secondo capitolo,
cercherò di dimostrare come e quanto solo un comunicatore
pubblico di professione, con una determinata formazione e
determinate competenze sia l’unico tassello, l’unica tessera
che può – e deve – incastrarsi in quel quadro, in quel puzzle,
di cui sopra, per renderlo quanto meno completo.
Nel terzo capitolo, invece, ho approfondito il tema delle
competenze dei vari operatori della comunicazione,
raccogliendole in una matrice in cui ad ogni figura non solo è
associata una competenza, ma è indicato anche il peso che,
credo, ognuna di esse assuma, con relativo commento.
La mia tesi sarà altresì supportata, nonché in alcune parti
confermata, da un’interessante intervista che mi è stata
gentilmente rilasciata dal professor Angelo Baiocchi, direttore
dell’Ufficio Comunicazione del Comune di Roma e docente di
Marketing della Pubblica amministrazione nella nostra
Facoltà, preceduta da una breve analisi delle peculiarità della
politica di comunicazione proprie di un grande comune come
quello di Roma.
Inoltre, descrivendo le funzioni e, dunque, l’importanza degli
Urp quali luogo d’incontro tra Pa e cittadini mi è sembrato
utile, forse uscendo un po’ fuori dall’ambito della tesi
tradizionale, apportare un esempio pratico del cambiamento in
atto negli enti pubblici: una sceneggiatura basata su un
episodio di “ordinaria amministrazione” di cui, prima o poi,
tutti siamo stati protagonisti.
6
Infine, concludendo, la mia ultima riflessione è stata quella di
prendere atto che, malgrado l’avversione di molti,
probabilmente, l’unica strada, per veder attestato ufficialmente
il valore che questa professione si merita, consiste nell’istituire
una certificazione professionale. Non per farne
un’organizzazione corporativa ma per dare, finalmente, il
giusto riconoscimento e le giuste garanzie ai cosiddetti
“manager del cambiamento”.
7
Note.
1
Cfr. Rovinetti A., Diritto di Parola. Strategie, professioni, tecnologie della
comunicazione pubblica. Ed. Il sole 24ore,Milano 2002, pag.14.
8
1.1 PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: IERI E OGGI.
Gli anni Novanta rappresentano un punto di svolta per la
Pubblica Amministrazione, la cui immagine prima di allora
assomigliava ad una grossa macchina dagli ingranaggi
arrugginiti, lenti e mal funzionanti. A causa di queste sue
caratteristiche, si trovò imbrigliata nelle vicende di
Tangentopoli, modo alternativo e più veloce di ottenere quei
servizi che erano (o che sarebbero dovuti essere) la mission di
ogni ente pubblico.
L’attività amministrativa era svolta nel chiuso degli uffici
pubblici da una burocrazia di funzionari, intesa come uno
strumento razionale orientato allo scopo da raggiungere
semplicemente applicando le norme. Un’ immagine che
ricorda quasi il tipo ideale di burocrazia pura di Weber, che
certamente nessun tipo di apparato amministrativo ha
raggiunto e tanto meno quello italiano!
Ma, probabilmente, nessuno si augura di raggiungere tale
obiettivo, poiché il modello dell’insigne sociologo
1
è talmente
rigido e strutturato da non potersi adattare, forse, a nessuna
realtà storica, con uffici in cui ognuno svolge la propria
mansione senza essere consapevole di ciò che succede nella
stanza a fianco, dove si lavora “per compartimenti stagni”,
seguendo procedure standard, senza attitudine al problem
solving, dove la scala gerarchica viene seguita
scrupolosamente senza margini di autonomia, dove il rapporto
con il cittadino è praticamente inesistente…
2
.
Come può essere un siffatto modello “ideale” per l’Era del
post-moderno? L’era in cui la velocità dell’evoluzione sociale
e scientifica non ha avuto eguali nella storia; l’era in cui la
sfera pubblica conta sempre più partecipanti e una nuova
costante presenza: quella dei media che da un lato sono
protagonisti, dall’altro sono il “luogo della rappresentazione
9
dell’arena pubblica”
3
. Oggi, anche grazie a tali media, il
cittadino assume una sempre maggiore consapevolezza dei
propri diritti e dei servizi che gli sono dovuti dallo Stato in
quanto amministrazione e non in quanto soggetto politico
(anche questa distinzione è sempre più chiara). Si rendono
sempre più necessarie, quindi, quelle caratteristiche di
pubblicità e trasparenza, soprattutto si rende necessaria
l’informatizzazione e l’adozione di nuove tecnologie da parte
della P.A.
Fallito il welfare, lo Stato deve cercare di uscire dalla crisi di
legittimazione da cui è stato investito negli anni scorsi, deve
combattere gli stereotipi di inefficienza cronica, recuperare il
rapporto con i cittadini attivando relazioni di scambio e
partecipazione. “E’ necessario individuare le cause e trovare
una soluzione al crescente stato di disagio e d’indifferenza dei
tanti cittadini-utenti nel momento in cui vengono a trovarsi a
diretto contatto con l’amministrazione pubblica”
4
: rendere
effettiva la democrazia è la sfida da vincere.
Lasciarsi indietro il retaggio del Fascismo, alla fine del quale
lo Stato, investito da quello che Umberto Terracini definì il
complesso del tiranno, ha rinunciato a fare qualsiasi tipo di
comunicazione, piuttosto che cadere di nuovo sotto giogo della
propaganda e ridurre il pluralismo. Infatti, “con la caduta della
dittatura si è assistito, per reazione, all’opposta tendenza dei
pubblici poteri a ritirarsi dall’informazione, facilitando un
processo che ha favorito i fenomeni dell’ ignoranza,
dell’incomprensione delle leggi e dell’oscuramento dei diritti
dei cittadini nei confronti dell’amministrazione dell’apparato
statale”.
5
Si è poi passati ad un tipo di comunicazione monodirezionale
6
,
assolutamente non adatta ad instaurare l’auspicato rapporto di
parità con i cittadini, poiché denota, invece, “un tipo di
rapporto univoco dall’alto verso il basso, secondo una
concezione tradizionale che pone la pubblica amministrazione
in una posizione di autorità rispetto al cittadino”
7
. Ora, si cerca
di andare finalmente verso quel tipo bidirezionale o, ancora
10
meglio, circolare di comunicazione, che diventa parte
integrante dell’azione amministrativa.
D’altronde, anche oggi il rapporto con i media non è dei
migliori. O meglio, l’immagine della Pubblica
amministrazione che i media continuano a proporre è, nella
maggior parte dei casi, negativa. Rifacendosi ai criteri di
notiziabilità, i casi presentati in tv sono sempre quelli di
cattiva amministrazione. L’aspetto scandalistico è privilegiato
a discapito di quello informativo, che è proprio dei casi di
buona amministrazione, poiché fornirebbe degli esempi e delle
informazioni utili ai cittadini. Inoltre, quando tali esempi
vengono rappresentati se ne sottolinea l’atipicità in un contesto
di segno opposto. D’altra parte, l’immagine della pubblica
amministrazione che non funziona è già radicata nell’opinione
pubblica, quindi risulta molto più facile costruire una notizia
di sicuro effetto sul pubblico, poiché è già ampiamente
sperimentata
8
.
Purtroppo, la P.A. ha bisogno dei media per acquisire visibilità
e raggiungere l’opinione pubblica, allora per spezzare tale
catena poco “salutare” dovrebbe dotarsi di un sistema di
comunicazione e di informazione proprio, che le consenta di
raggiungere i cittadini direttamente, di instaurare con loro,
appunto, una relazione duratura e continuativa e che non sia
solo critica, ma anche costruttiva. “ Un’offerta pubblica deve il
suo successo alla favorevole immagine che un ente pubblico
riesce a crearsi; questa immagine ha sicuramente un decisivo
riscontro su tutta l’azione dell’ente; infatti produzione ed
erogazione del servizio, qualità, prezzo/tariffa, comunicazione,
promozione risentiranno in maniera determinante questa
influenza; più positiva è l’impressione che si ha di un ente
pubblico e meglio riuscirà a raggiungere la domanda. Avere
una valida immagine vuol significare godere d’un favorevole
riscontro da parte dei destinatari dell’offerta, dell’opinione
pubblica, dei media. Se un ente pubblico investirà risorse nella
creazione di una sua immagine nel mercato pubblico,
11
senz’altro nel medio-lungo termine disporrà di un fattore
differenziale di sicuro successo”
9
.
A tutto ciò, ovviamente, dovrà corrispondere un effettivo
cambiamento, poiché neanche la migliore attività di
comunicazione potrà scardinare lo stereotipo dello Stato che
non funziona se non vi sarà un effettivo miglioramento nei
fatti, a partire dal comportamento dei singoli dipendenti: è
questa la prima forma di comunicazione. Non si può rischiare
l’effetto boomerang
10
: un cambiamento solo sbandierato, e poi
non veramente intrapreso, sarebbe sicuramente il peggior
boomerang a poter colpire il fragile processo di riconquista
della legittimità dello Stato.
Questa società in continua evoluzione cambia la vita stessa dei
cittadini: si evidenziano nuovi valori, nuovi stili di vita, nuove
richieste; ogni giorno si affacciano vecchi e nuovi problemi
con cui sia i cittadini sia gli enti pubblici devono confrontarsi.
Lo scenario esistente è quello di una collettività che richiede
sempre più servizi pubblici di qualità, non si accontenta di un
livello minimo di prestazioni. Qualità non significa solo
“assenza di difetti”, ma abbondanza di pregi, la qualità deve
divenire il “plus” che faccia sì che, davanti ad una scelta tra
più fornitori di uno stesso servizio, il cittadino si rivolga
serenamente all’offerta pubblica. Tale scenario impone alle
amministrazioni pubbliche una buona dose di concretezza, di
serietà, di efficienza nell’offerta dei suoi servizi, nel
progettarli, nel realizzarli, nell’erogarli, nel sostenerli, nel
comunicarli. La continua evoluzione della società non può
passare inosservata nella P.A., non può essere subita
passivamente: essa deve adeguarsi strategicamente al
cambiamento, solo in questo modo riceverà dalla società un
positivo riscontro
11
.
12
1.2 DIECI ANNI DI LEGGI (1990-2000).
“Legge 7 agosto 1990, n. 241
12
– legge 7 giugno 2000
13
, n.
150. Due date, due leggi, la stessa idea di amministrazione
sviluppata nell’arco di un decennio: un’amministrazione
partecipata, aperta, disposta a confrontarsi con i cittadini
considerati quali interlocutori fondamentali per il buon
funzionamento dell’amministrazione”, scrive Gregorio Arena
in un suo intervento sul sito www.Legge150.it, intitolato:
“Dalla trasparenza alla comunicazione nell’arco del
decennio”
14
. In particolare, considera la legge 241/1990 come
la base per lo sviluppo della comunicazione poiché rende
quest’ultima concretamente possibile ponendo i cittadini in
una posizione paritaria rispetto allo Stato, posizione che
permette l’interazione tra i due soggetti. Inoltre, egli sembra
essere abbastanza soddisfatto dei risultati raggiunti e molto
ottimista rispetto ai futuri sviluppi della comunicazione, dopo
il decennio di riforme. Infatti, continua: “Sono stati dieci anni
densi di riforme, iniziative, nuove prospettazioni teoriche; ma
tutto nasce con la 241 a sua volta punto di arrivo di anni di
riflessioni ed elaborazioni […]. Da allora, dal 1990, è stato un
susseguirsi di interventi normativi che hanno introdotto nel
nostro Diritto amministrativo princìpi completamente nuovi,
spesso antitetici rispetto a quelli tradizionali, ma tutti sono
comunque in qualche modo riconducibili all’idea di fondo
della legge 241/1990, quella secondo cui l’amministrazione
non ha più di fronte solo dei recettori passivi della sua attività,
bensì soggetti portatori di interessi che devono in quanto tali
essere ascoltati, partecipare al processo decisionale, in una
parola essere considerati dall’amministrazione su un piano il
più possibile paritario, […] rendendo possibile, in questo
modo, una comunicazione circolare, nel senso più pieno del
termine: quello dell’interazione ”
15
.
13
In realtà, già con la legge 142/1990
16
che precedette di qualche
mese la 241, comincia a rendersi evidente il ruolo
fondamentale che via via va assumendo la comunicazione, ma
non solo: si capisce anche che le novità investiranno la P.A.
non solo nella facciata, ma nella sua organizzazione interna.
Nella legge 142, infatti, si richiamano i comuni ad attivare la
partecipazione dei cittadini alla definizione delle politiche
pubbliche, valorizzando le libere forme associative. Il fatto che
si conceda più autonomia ai comuni, ma soprattutto che si
chiamino i cittadini a partecipare cambia un modo di fare e/o
essere che da sempre contrassegna la P.A. : la dipendenza dal
centro e la chiusura in se stessa.
Dove, se non a questo punto, poteva meglio inserirsi la
comunicazione? Questa norma, afferma Alessandro Rovinetti,
è la prima a sancire il diritto/dovere delle Istituzioni a
comunicare, fa sì che la comunicazione diventi battistrada
della modernizzazione”
17
.
A questo punto viene spontanea una riflessione: quanto di
questi nuovi concetti è stato subito recepito?
Probabilmente ben poco, se si considera il contesto storico,
sociale e soprattutto politico dei primi anni Novanta.
Certamente, non si può dire che i tempi fossero maturi a tal
punto che una concezione così innovativa della P.A., ma
soprattutto della comunicazione, entrasse senza resistenze
nell’immaginario sia dei funzionari pubblici sia dell’utenza,
quindi della società italiana in generale. Non che qualcosa non
si stesse muovendo, ma il processo di acquisizione di tali
novità, magari non troppo numerose, però comunque di un
certo spessore, sarà lento e non privo di ostacoli, visto che il
cambiamento non avverrà solo nella forma, ma anche nella
sostanza: un vero e proprio cambiamento culturale.
Ed è proprio un ritardo culturale (anche rispetto ad altri paesi
europei) che, secondo Alessandro Rovinetti, si è registrato nel
concepimento del nuovo sistema pubblico e, soprattutto, nei
confronti della nuova idea di comunicazione, la quale
rappresenta contemporaneamente risorsa e strategia, essenziali
14
ed insostituibili per garantire efficacia, efficienza e trasparenza
delle amministrazioni. Un ritardo ravvisato non solo nei
corridoi della P.A., ma anche “per strada”, ossia tra i cittadini
stessi. D’altronde, anche il cittadino deve abituarsi a queste
trasformazioni, fino a pochi anni prima neanche lontanamente
pensabili, anche se sicuramente auspicate. Inoltre, non è facile
attuare una valida attività di comunicazione esterna se prima
l’ente non conosce se stesso, attraverso un’altrettanto valida
attività di comunicazione interna.
Di questo ritardo qualcuno se n’è accorto e fortunatamente ne
ha preso atto. Perché queste prime leggi innovative non
restassero solo sulla carta c’era bisogno di altre risorse, intese
nel senso più ampio del termine: economiche certo, ma ancora
più sentita era la mancanza di risorse umane con competenze
adeguate a dare una scossa di vitalità alla P.A., a portarla al
passo con i tempi, per aiutare magari chi già da anni si era dato
da fare verso lo stesso fine. Quindi, poiché “ questa fase tende
a produrre modesti argini al reclamo e all’insoddisfazione […]
nasce il bisogno formativo di personale interno ed anche un
mercato professionale esterno di consulenze”
18
.
E allora, grazie anche alle spinte provenienti da chi comincia a
fuoriuscire dal mare di scartoffie in equilibrio precario sulla
scrivania, ad alzare lo sguardo oltre la propria stanza, a
smuovere quei compartimenti stagni, ricomincia il lavoro di
coloro i quali a colpi di dibattiti, emendamenti e votazioni
decide come regolare le nostre vite! Del resto sarebbe ingenuo,
secondo Mario Morcellini, pensare che siano stati solo leggi e
regolamenti ad indurre gli amministratori e gli operatori
pubblici a modificare la propria condotta e ad interpretare
diversamente il proprio modo di agire. Anzi, in alcuni casi il
processo è stato inverso: la sfera pubblica ha dimostrato una
discreta tempestività nel riconoscere gli aspetti e i vantaggi del
cambiamento, adeguando le leggi a consuetudini consolidate.
“Le istituzioni hanno contribuito a produrre un’innovazione
normativa, certamente assecondando, ma anche promuovendo
i livelli di cambiamento della coscienza collettiva”
19
.
15
Perciò, accogliendo le richieste che venivano dal basso “tra il
1993 e il 1994 si giunge al vero e proprio obbligo di costruire
spazi di accesso e di relazione con l’utente”
20
. Nel 1993,
infatti, viene emanato il Decreto legislativo n. 29
21
, il quale
segna un passo avanti alquanto consistente, poiché parla di
trasparenza degli atti amministrativi (art.11) e istituisce
formalmente gli URP (art.12)
22
. Il principio della trasparenza,
invocato nell’art.11, apre finalmente delle finestre su un
edificio, quello della P.A., che fino ad allora ne era stato
privo
23
. Si permette al cittadino di affacciarsi all’interno per
vedere a che punto sono i procedimenti che lo riguardano,
quali sono le procedure che svolgono gli impiegati statali, chi
si occuperà dei suoi documenti. Inoltre, nello stesso articolo si
parla anche di “rapidità del procedimento” grazie alla
definizione di “sistemi e modelli informativi utili
all’interconnessione tra le amministrazioni pubbliche”. Un
primo passo anche verso la comunicazione interna, quindi.
Ma ancora meglio fa l’articolo 12 che, con l’istituzione degli
URP, apre delle vere e proprie porte per accedere all’edificio
sopra citato, poiché costituisce delle strutture preposte alla
realizzazione dei diritti di PARTECIPAZIONE,
INFORMAZIONE, ACCESSO. Così, secondo tale articolo:
“al fine di assicurare la conoscenza di normative, servizi e
strutture, le amministrazioni pubbliche programmano e attuano
iniziative di comunicazione di pubblica utilità”, quindi, “ agli
uffici per le relazioni con il pubblico viene assegnato,
nell’ambito delle attuali dotazioni organiche delle singole
amministrazioni, personale con idonea qualificazione e con
elevata capacità di avere contatti con il pubblico,
eventualmente assicurato da apposita formazione”
24
.
Dall’analisi di quest’ultima frase si evince che il legislatore si
è reso conto della necessità di personale specializzato
all’interno di strutture così complesse, ma purtroppo rimane
alquanto vago nell’indicazione delle competenze da possedere
e soprattutto non dà, secondo me, la dovuta importanza al
momento della formazione, poiché il personale sarà solo