IL COMPORTAMENTO SOCIALE UMANO NELLA PROSPETTIVA NEUROBIOLOGICA
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INTRODUZIONE GENERALE
A un certo punto della nostra formazione in Psicologia, ci siamo posti diverse domande
sulle motivazioni che stanno dietro alle relazioni sociali tra individui. Nel corso del tempo, ad
alcune è stata data una risposta, ad altre no. Tra quelle che sono rimaste senza risposta, eccone
alcune: Perché gli animali, in generale, e gli esseri umani, in particolare, preferiscono il com-
portamento comune a quello solitario? Cosa spinge gli anziani, gli adulti, gli adolescenti, i bam-
bini e persino i neonati a prendersi cura degli altri? Perché i cosiddetti comportamenti asociali
e antisociali sono considerati pericolosi per l’autore e per i suoi vicini? Da dove vengono i criteri
per dire che questo o quel comportamento è socialmente normale o inetto? Perché i sistemi di
educazione formale e informale considerano la comunicazione, l’interazione, la competizione,
la cooperazione e la giustizia come le chiavi del successo nella vita sociale?
La curiosità di avere una risposta che non sia «generica e inventata» ma piuttosto basata su
dati scientifici, ci ha portato a cercare di capire la genesi e lo sviluppo del comportamento sociale
umano e ad analizzare se questo comportamento è innato o acquisito attraverso processi di ap-
prendimento o il risultato dell’interazione tra fattori genetici e ambientali. Il comportamento
sociale umano è infatti l’insieme delle azioni che manifestano l’orientamento dell’individuo
nelle sue interazioni con gli altri nel suo ambiente. Supporre che questo comportamento sia
innato significa che è il risultato di fattori genetici che si trasmettono di generazione in genera-
zione. Supporre che sia acquisito attraverso processi di apprendimento significa che è l’ambiente
di crescita dell’individuo che crea il comportamento e determina il suo sviluppo.
Tuttavia, questa idea di comportamento appreso non esclude la componente genetica, che
può essere considerata come una condizione di base. Più precisamente, si può dire che la gene-
tica fornisce la base del comportamento sociale, mentre il contesto ambientale guida l’individuo
nelle sue interazioni con gli altri. In altre parole, si può dire che ci sono molteplici geni che,
attraverso la loro espressione, pongono le basi del comportamento sociale, lasciando al contesto
ambientale di ogni individuo il compito principale di guidare questo comportamento. Infatti,
basandosi sull’interazione tra fattori genetici e ambientali, si suppone che il comportamento
sociale umano sia un comportamento naturale inerente ad ogni essere umano e che alcune dif-
ferenze che possono apparire tra gli individui dipendano da varie traiettorie evolutive favorite
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dall’ambiente socioculturale in cui questi individui vivono. Su questo argomento, nel corso della
storia e in diversi campi di studio, vari autori hanno espresso opinioni molto originali.
Prima di tutto, Aristotele ha definito l’uomo come un animale politico per natura. Il concetto
di politica include l’idea di una vita della città che richiede socievolezza per soddisfare bisogni
che vanno oltre quelli della vita quotidiana. L’autore presenta inoltre l’uomo come un animale
sociale. La distinzione tra la socialità animale descritta come gregaria e la socialità umana sta
nel fatto che l’uomo è dotato di logos e di phônê, che gli permettono di parlare, discutere ed
esprimere nozioni di bene e di male, di giusto e di ingiusto, che vanno al di là della semplice
comunicazione reciproca di piacere e di dolore. Il comportamento sociale è quindi una delle
facoltà dell’uomo. Sulla stessa linea, Hume ha evidenziato altre facoltà tra cui l’intelletto, che
include impressioni e idee. Per lui, le impressioni includono sensazioni, passioni ed emozioni,
mentre le idee sono le immagini deboli delle impressioni nel pensiero. A questo punto, l’autore
fa una chiara distinzione tra le funzioni delle passioni e quelle delle idee, e attribuisce alle pas-
sioni, tra cui l’orgoglio e l’umiltà, l’amore e l’odio, la capacità di fornire all’uomo la certezza
della sua coscienza personale e di fargli capire quale dovrebbe essere il comportamento umano.
Il contributo della visione psicoanalitica sta nella spiegazione dinamica di ciò che spinge gli
esseri umani a impegnarsi in comportamenti interpersonali. Freud ha spiegato che ci sono con-
flitti inconsci all’interno della persona umana tra le pulsioni sessuali e aggressive dell’Es che
cercano di emergere e l’Io che contiene queste pulsioni per rimanere fedele alle regole della
società inscritte nel Super-Io. Hartmann ha spostato questi conflitti dal mondo interno dell’in-
dividuo alla relazione tra l’individuo e l’ambiente. La Klein ha evidenziato la relazione ogget-
tuale in cui il bambino non interiorizza un oggetto o una persona con cui entra in contatto, ma
una relazione vissuta nel momento di questo contatto. Questa relazione oggettuale crea un’espe-
rienza affettiva, un’esperienza di sé e un’esperienza di oggetto nel bambino.
Sulla stessa linea della Klein, Bowlby, concentrandosi sul problema della separazione del
bambino dalla madre, introdusse la teoria dell’attaccamento. Secondo lui, una relazione di at-
taccamento positiva con la madre fornisce al bambino una base sicura e un porto sicuro da cui
esplorare liberamente il mondo ed a cui tornare nei momenti di incertezza e pericolo. I dati della
Strange Situation e della Adult Attachment Interview hanno dimostrato che il comportamento di
attaccamento rimane attivo durante tutto il ciclo di vita. Nel modello interpersonale, l’uomo è
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stato considerato un essere sociale che si sviluppa solo attraverso l’interazione con la sua comu-
nità. Questa comunità gioca un ruolo fondamentale per il bambino perché quest’ultimo ha biso-
gno dell’approvazione delle persone significative che lo circondano per svilupparsi.
A nostro parere, finora, nessuno di questi modelli ha definito chiaramente ciò che possiamo
considerare come la forza motrice della manifestazione del comportamento sociale umano, poi-
ché rimangono solo a livello di osservazione. Fortunatamente, in primo luogo, i dati delle
scienze naturali hanno chiarito la questione mostrando che la socialità umana non è altro che il
risultato dell’interazione dinamica e reciproca tra genetica e ambiente. In secondo luogo, Dar-
win ha spostato l’attenzione dalle dinamiche relazionali tra gli individui alla funzione del cer-
vello in questa relazione. Sulla base della sua teoria dell’evoluzione, Darwin ha spiegato che il
cervello umano è il risultato dell’evoluzione in termini di selezione per funzione. Così, c’è un
cervello antico, che ospita le passioni e le attività legate alla sopravvivenza, e un cervello evoluto
in cui avvengono processi mentali complessi come il pensiero, l’immaginazione e altri ancora.
Sulla base di quanto riassunto riguardo a questa teoria dell’evoluzione, sembra importante
analizzare come la formazione del cervello umano e il suo sviluppo in termini ontogenetici e
filogenetici corrispondano all’acquisizione e allo sviluppo delle abilità sociali. Poiché è già noto
che lo sviluppo del cervello può seguire traiettorie tipiche o atipiche, è utile considerare l’ipotesi
che i comportamenti asociali e antisociali possono derivare da una disfunzione del cervello.
Interessati allo sviluppo integrale dell’essere umano, siamo stati portati a investigare come
il comportamento sociale umano sia legato allo sviluppo e al funzionamento del cervello. Nel
trattare il tema Il comportamento sociale umano nella prospettiva neurobiologica, abbiamo cer-
cato di analizzare come il comportamento sociale dipenda dalle funzioni cerebrali e come la
disfunzione di alcune regioni del cervello possa essere la causa di uno sviluppo problematico
del comportamento sociale. È importante ricordare qui che la neurobiologia studia i processi
chimici, fisiologici ed endocrinologici coinvolti nel funzionamento del sistema nervoso centrale,
i suoi componenti e gli organi di cui influenza le funzioni.
In questo senso, l’obiettivo generale di questa tesi è comprendere il comportamento sociale
umano da una prospettiva neurobiologica. Gli obiettivi specifici sono: rivedere la letteratura che
conferma che la socialità fa parte della natura umana; analizzare come il sistema nervoso cen-
trale sia la sede della socialità umana; indicare ed analizzare i processi neurobiologici che stanno
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alla base dello sviluppo delle abilità sociali e delle differenze individuali; analizzare le condi-
zioni di vita che più interferiscono con lo sviluppo delle abilità sociali; individuare alcuni di-
sturbi derivanti da deficit nelle abilità sociali; identificare programmi di intervento psicologico
che possano aumentare le abilità sociali; e ipotizzare i cambiamenti comportamentali prodotti
nel cervello e a livello molecolare da interventi psicologici ritenuti efficaci.
Poiché questa tesi è di natura compilativa, il metodo adottato è quello dell’analisi descrit-
tiva. Il lavoro è organizzato in tre capitoli, preceduti e seguiti rispettivamente da un’introduzione
generale e da una conclusione generale. Questi sono descritti di seguito.
Nel primo capitolo, analizziamo il pensiero pionieristico di filosofi e psicoanalisti che hanno
scoperto che il comportamento sociale umano è un fatto naturale di ogni individuo. Continuiamo
a vedere come altri autori di diversi campi scientifici, attingendo ai dati delle neuroscienze, della
biologia molecolare e evolutiva e della genetica, hanno localizzato la sede della socialità nel
sistema nervoso centrale e hanno evidenziato le strutture e le funzioni delle diverse regioni del
cervello coinvolte nello sviluppo e nel mantenimento del comportamento sociale. Particolare
enfasi è posta sulla struttura e la funzione del cervello sociale, al fine di comprendere come
diversi cervelli possono interagire tra loro e dare origine alla comunicazione interpersonale.
Avendo identificato le aree cerebrali coinvolte nel comportamento sociale umano, nel se-
condo capitolo entriamo più in dettaglio per capire come il funzionamento di queste aree cere-
brali si evolve durante lo sviluppo dell’individuo. Così, vediamo come l’ossitocina è la sostanza
che predispone alla cognizione sociale promuovendo non solo le prime interazioni e la comuni-
cazione implicita tra neonato e madre, ma anche altre abilità sociali che maturano più tardi.
Spieghiamo come il sistema limbico collegato al sistema nervoso autonomo e all’asse HPA sia
coinvolto nella regolazione affettiva diadica, e come la corteccia prefrontale funzioni per soste-
nere la mentalizzazione dell’esperienza sociale.
Il capitolo continua a mostrare come le abilità sociali acquisite all’interno della famiglia si
sviluppano al di fuori della famiglia. Esaminiamo il ruolo del gioco simbolico e sociale nello
sviluppo delle abilità sociali e il ruolo dell’ippocampo nel creare le condizioni per l’adattamento
a nuovi contesti. Evidenziamo poi come, nell’adolescenza, le abilità sociali precedentemente
acquisite e sviluppate diventano efficaci attraverso l’integrazione cerebrale e rendono gli adole-
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scenti socialmente competenti. Mostriamo come le competenze sociali continuano oltre l’ado-
lescenza, cioè nell’età adulta anche durante l’invecchiamento, attraverso la neurogenesi adulta.
Infine, spieghiamo le differenze individuali legate al genere, all’interazione individuo-ambiente
e alle categorie generazionali nel modo in cui il comportamento sociale viene eseguito.
Nel terzo capitolo, ci concentriamo, in primo luogo, sulla comprensione di ciò che accade
quando le abilità sociali falliscono nel contesto interazionale e, in secondo luogo, su ciò che
dovremmo fare come educatori in una tale situazione. Nello specifico, analizziamo le cause, le
conseguenze e i rimedi del fallimento del comportamento sociale. Le cause includono l’esposi-
zione precoce allo stress dei genitori, traumi come l’abuso e l’abbandono, e danni al cervello.
Le conseguenze includono il rischio di problemi emotivi, cognitivi e comportamentali, che au-
mentano la suscettibilità allo sviluppo di disturbi di salute mentale, che possono compromettere
lo sviluppo delle abilità sociali. L’esempio prototipico di fallimento delle abilità sociali è il di-
sturbo dello spettro autistico (ASD), caratterizzato dalla presenza di deficit nella comunicazione
e nell’interazione sociale, così come da attività stereotipate e interessi limitati. Dopo averlo de-
scritto, discutiamo la sua relazione con altri disturbi correlati, tra cui l’ADHD, l’OCD e l’ansia
sociale. In questo capitolo sono anche discussi gli effetti benefici degli interventi sugli individui
con problemi di comportamento sociale. Identifichiamo prima i programmi di intervento psico-
logico che sono efficaci nel trattamento dei disturbi da deficit sociale e poi analizziamo i cam-
biamenti cerebrali prodotti dalla loro attuazione. Studiamo anche come questi interventi, che
sono in grado di produrre effetti a livello strutturale e funzionale del cervello, possono influen-
zare l’espressione genica attraverso meccanismi epigenetici indotti dalla metilazione del DNA.
La conclusione generale di questo lavoro è dedicata, prima di tutto, alla sintesi dei principali
contenuti emersi dallo studio. È poi un’occasione per presentare alcune riflessioni personali su
ciò che è stato sviluppato nel trattamento del lavoro, e per evidenziare le sfide e le opportunità
incontrate durante la realizzazione del lavoro.
Per trattare questo tema, abbiamo utilizzato principalmente la documentazione disponibile
presso la Biblioteca Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana. Ulteriori informazioni,
comprese le ricerche recenti sull’argomento, sono state prese da articoli e da riviste online scien-
tificamente rilevanti, comprese quelle disponibili su https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov;
https://www.erudit.org/fr/recherche; e https://www.cairn.info/revue.
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Capitolo primo
SIAMO ESSERI SOCIALI PER NATURA: DELLA GENESI DELLA SOCIALITÀ
1.1.Socialità: dalla filosofia alle scienze naturali
Il comportamento sociale umano, o socialità, cioè il sentimento che porta l’uomo a vivere
in società, a cercare la vicinanza e a condividere la propria esistenza con gli altri, è stato oggetto
di dibattito fin dall’antichità. Nel corso degli anni diversi autori si sono espressi sulla natura, la
genesi e lo sviluppo di questo sentimento, concordando sull’ipotesi che la socialità sia un fatto
naturale che si sviluppa prima all’interno della famiglia nella relazione madre-bambino e poi si
estende ai diversi contesti di vita: gruppi di pari, scuola, lavoro, sport, fino a caratterizzare tutte
le forme di vita collettiva. Esaminiamo una serie di prospettive che hanno contribuito a chiarire
la natura del comportamento sociale umano: il pensiero filosofico, la visione psicoanalitica e le
conoscenze fornite dalla biologia molecolare e evolutiva e dalle neuroscienze sociali.
1.1.1. Socialità secondo il pensiero filosofico
Aristotele (384-322), il primo filosofo a interessarsi esplicitamente sul comportamento so-
ciale umano, ha definito l’uomo come un essere sociale naturalmente incline a vivere con gli
altri (Etica Nicomachea, IX, 9, 1169b, 18). La parola che usa, «zôon politikon», si traduce let-
teralmente come «animale politico», il che significa che l’uomo si realizza come uomo solo
all’interno di una comunità organizzata, come la «pòlis» della Grecia classica. Pertanto, la pòlis
non dovrebbe essere intesa come una semplice collezione di edifici, ma piuttosto come una
società umana che vive nella città, come un organismo e un corpo sociale (Krauss, 2016). In
questo senso, essere politici significa essere membri della città, partecipare alla vita sociale. Nel
linguaggio comune, la socialità è confusa con l’apertura o l’estroversione. Questo è un errore,
poiché la socialità non si riferisce al numero di contatti, ma alla capacità dell’individuo di entrare
in contatto con gli altri e di relazionarsi con loro (Pally, 2018, p. 41). Per evitare la confusione
concettuale o una connotazione riduttiva della parola «politikos», preferiamo usare la parola
«sociale» in questo lavoro, sapendo che «politico» e «sociale» sono due concetti intercambiabili.
Un’altra parola cara allo Stagirita è «natura». Quando usa l’espressione «per natura», Ari-
stotele non intende riferirsi alla disposizione biologica, ma a tutto ciò che si oppone a ciò che si
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fa per scelta (Labarrière, 2006). Per questo motivo, la socialità umana è una necessità. Per capire
questo pensiero, dobbiamo sapere come l’uomo vive nella città. L’uomo è soprattutto un essere
sociale e razionale (Politica, VII, 13, 1332b, 5), che dipende dalla società civile, per cui chi non
può vivere in società o non ne sente il bisogno, non appartiene alla città, ma può essere o una
bestia o un essere divino, poiché questi seguono leggi proprie (Politica, I, 2, 1253a, 25).
Niente viene fatto senza motivo. L’enfasi sulla vita sociale non è una volontà accidentale.
C’è un obiettivo da raggiungere, la felicità, il bene supremo, al quale gli altri beni, che hanno
un ruolo strumentale, sono subordinati (Gastaldi, 1990, p. 60). Questo bene è così supremo che
nessuno può raggiungerlo individualmente ma attraverso la vita comunitaria, soprattutto nella
città, che è un vero e proprio ambiente di interazione (Krauss, 2016). In linea di principio, la
vita sociale si svolge attraverso comunità graduali a diversi livelli di inclusione. Al primo livello
c’è la famiglia, una comunità fondamentale che unisce individui di sesso opposto, che non pos-
sono esistere separatamente e che vivono per riprodursi (Politica, I, 2, 1252a, 30) e per soddi-
sfare i bisogni quotidiani (Politica, I, 2, 1252b, 15). Al secondo livello c’è il villaggio, un in-
sieme di più famiglie, che serve a soddisfare i bisogni non quotidiani (Politica, I, 2, 1252b, 20).
All’ultimo livello c’è la città, un insieme di diversi villaggi. Poiché comprende le comunità di
livello inferiore, la città è l’unica comunità attraverso la quale i membri possono raggiungere la
felicità (Politica, I, 2, 1252b, 30) applicando il diritto e la giustizia (Politica, I, 2, 1253a, 35).
Il ragionamento aristotelico è comprensibile fino a questo punto. Tuttavia, l’idea che la città
sia per natura anteriore alle comunità costituenti, secondo il principio che il tutto è sempre an-
teriore alle parti (Politica, I, 2, 1253a, 20) sembra dissonante. In effetti, dato il posto della città
nel pensiero dello Stagirita, nulla sarebbe sorprendente, poiché la stabilità della città è al centro
delle sue priorità. Su questa base, secondo la deduzione logica, l’uomo è un essere sociale per
natura perché partecipa alla società che esiste per natura (Labarrière, 2016).
Inoltre, Aristotele riconosce l’esistenza della socialità animale (Politica, I, 2, 1253a, 5). In-
fatti, attraverso l’analisi della socialità animale, Aristotele traccia i contorni della socialità
umana. Secondo lui, gli animali sociali hanno un comportamento sociale gregario che dipende
dalle leggi naturali della specie (Politica, I, 8, 1256a, 25). Al contrario, il comportamento sociale
umano è complesso. L’uomo ha sia una voce che indica ciò che è doloroso e ciò che è gioioso,
come negli animali, sia un discorso che esprime ciò che è benefico e ciò che è dannoso. Su
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questa base, l’uomo è dunque un essere sociale e morale, capace di percepire il bene e il male,
il giusto e lo sbagliato, e altri valori fondamentali per la città (Politica, I, 2, 1253a, 10-15).
Una vita sociale armoniosa dipende dall’amicizia e dalla giustizia, virtù etiche di rilevanza
sociale. L’amicizia è una virtù senza la quale nessuno sceglierebbe di vivere anche se avesse
altri beni (Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155a, 5). È un bisogno che soddisfa varie funzioni nelle
relazioni umane: è l’ultimo rifugio in caso di disgrazia, aiuta i giovani ad evitare gli errori e i
deboli a trovare aiuto (Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155a, 10); è un atteggiamento naturale dei
genitori verso i figli e viceversa (Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155a, 15); dispone le relazioni tra
gli individui (Etica Nicomachea, VIII, 5, 1157b, 5-25). La giustizia è un’altra virtù, ma sempre
subordinata all’amicizia. Ecco perché, per il bene della città, i legislatori si preoccupano più
dell’amicizia che della giustizia, perché dove c’è amicizia non c’è bisogno di giustizia, ma dove
c’è giustizia c’è ancora bisogno di amicizia (Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155a, 20).
Dopo Aristotele, David Hume (1711-1776) si è interessato alla socialità umana. Il suo con-
tributo si trova nel suo Trattato sulla natura umana, un’opera in tre volumi. Analizzando le
percezioni della mente, Hume sostiene che l’uomo è un essere sociale per natura. Per capire il
suo pensiero, diamo un’occhiata alla sua opera. Nel primo volume, discute la percezione della
mente. Secondo lui, l’uomo è capace di percezione, ma tutte le percezioni si presentano in modo
diverso alla mente. Queste percezioni possono essere impressioni o idee, a seconda del grado di
forza e vivacità con cui colpiscono la mente e penetrano il pensiero. Le impressioni includono
sensazioni, passioni ed emozioni, mentre le idee sono le immagini deboli delle impressioni nel
pensiero (Trattato I, Parte I, Sezione I, 1). Le impressioni possono essere sensazionali o rifles-
sive. Le impressioni riflessive possono essere calme, quando riguardano la bellezza, la bruttezza
delle azioni, la composizione e gli oggetti esterni; o violente, quando riguardano le passioni,
come l’orgoglio e l’umiltà, l’amore e l’odio (Trattato II, Parte I, Sezione I, 275-276).
L’orgoglio e l’umiltà sono due passioni antitetiche con lo stesso oggetto, il sé. Mentre l’or-
goglio deriva dall’idea favorevole che si ha di sé stessi, l’umiltà è sconvolgente (Trattato II,
Parte I, Sezione II, 277). Questa idea deriva o da qualità mentali, come l’immaginazione, il
giudizio, la memoria, la saggezza, il carattere, il buon senso, l’apprendimento, il coraggio, la
giustizia, l’integrità; da qualità corporee, come la bellezza, la forza, l’agilità, l’aspetto piacevole;
o da oggetti che hanno la minima alleanza con noi, come il paese, la famiglia, i figli, le relazioni,
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la ricchezza (Trattato II, Parte I, Sezione II, 279). Considerando questo, vediamo che l’orgoglio
e l’umiltà sono motivati dall’approvazione sociale (Trattato II, Parte I, Sezione VII, 295s). Sor-
prendentemente, queste passioni esistono anche negli animali. L’unica differenza è che negli
animali non c’è il senso della virtù o del vizio, perdono rapidamente i legami di sangue e non
possono avere rapporti di diritto e proprietà. Pertanto, le loro passioni non riguardano le qualità
mentali o gli oggetti, ma sono limitate al corpo (Trattato II, Parte I, Sezione XII, 326).
L’amore e l’odio sono altre due passioni antitetiche il cui oggetto è l’altro. Se la conoscenza,
il buon senso e il buon umore sono le qualità che producono amore e stima per l’altro, il contrario
produce odio e disprezzo (Trattato II, Parte II, Sezione I, 329). L’amore è davvero una passione
forte e sensibile, in quanto può essere innescato da una semplice relazione tra un individuo e un
oggetto, il che suggerisce che qualsiasi relazione suscita l’amore prima di cercare altre qualità.
Così, amiamo i nostri compatrioti, vicini, colleghi e altri ancora, non solo come parenti, ma
anche come familiari (Trattato II, Parte II, Sezione IV, 352).
Abbiamo appena visto che l’uomo è spinto dalle sue passioni a condurre una vita comune
nella società, ma l’autore mostra anche che l’uomo è un essere insufficiente a provvedere a sé
stesso (Trattato II, Parte II, Sezione IV, 352). Ha quindi bisogno di vivere in una società in cui
possa facilmente far fronte alle sue mancanze. La società è vantaggiosa per lui perché in essa
l’unione delle forze aumenta il potere, la divisione del lavoro aumenta l’abilità e l’aiuto reci-
proco riduce l’esposizione alla fortuna e agli incidenti (Trattato III, Parte II, Sezione II, 485).
1.1.2. Socialità secondo la visione psicoanalitica
La visione psicoanalitica propone diverse teorie sviluppate l’una sulla base dell’altra. La
teoria psicoanalitica di base è quella di Sigmund Freud (1856-1939) che, di fatto, è un insieme
di modelli sullo sviluppo e il funzionamento della mente dell’individuo (Lis et al., 1999, p. 39).
La mente, secondo Freud, contiene istinti e motivazioni di base che devono essere regolati da
meccanismi di difesa per evitare azioni motivate da passioni distruttive (Gilbert, 2019, p. 25).
In effetti, i modelli psicoanalitici non parlano direttamente della socialità umana, ma rivelano
alcuni indizi di dinamiche sociali, per esempio, il complesso di Edipo (Gambini, 2007, p. 22).
In generale, per Freud, il comportamento è determinato dal conflitto tra diversi fattori pre-
senti nell’individuo e nella realtà e da un gioco di forze innescato dalle pulsioni (Lingiardi &